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Valeva la pena di conoscerli. Girolamo Li Causi

12 gennaio 2010

di Giuseppe Loteta

Una casa modesta nel quartiere di Monte Mario, a Roma, una sorella di qualche anno più giovane, "Nzina", che lo proteggeva come fosse un figlio, i libri, i ricordi delle passate battaglie, qualche battaglia ancora da combattere, le ormai rare scappate al Senato. Girolamo Li Causi viveva così i suoi ultimi anni. Molti, nel suo stesso partito, il Pci, avevano relegato in soffitta la sua storia e, con essa, il ricordo delle grandi lotte del dopoguerra per il riscatto dei contadini siciliani, contro la mafia, i latifondisti, la banda di Salvatore Giuliano, i partiti e gli uomini che pescavano nel torbido di una situazione esplosiva. Erano ormai altri tempi, tempi di compromesso storico. E di lui si ricordarono soltanto il 15 aprile del 1977, ai funerali. Lungo la via Tiburtina, la bara di "Mommo" era seguita da centinaia di persone venute apposta dalla Sicilia, in testa i sindaci e i gonfaloni dei comuni che cingono a corona la piana di Portella della Ginestra, quelli che non avevano dimenticato. In piazza del Verano, il cimitero di Roma, parlarono di lui Alessandro Natta e Pancrazio De Pasquale. Il rituale comunista dell'estremo saluto a un vecchio dirigente del partito fu consumato per intero. Ma non ricordo che gli sia stata resa per intero giustizia. Anche se l'Unità l'indomani titolava a tutta pagina "Commosso addio al compagno Girolamo Li Causi".

 

Quando andavo a trovarlo, era lui ad aprire la porta di casa. appoggiandosi al bastone e dopo avere inforcato gli occhiali dalle lenti spesse. Pochi metri più in là, una stanzetta adibita a studio: la scrivania, un paio di sedie, gli scaffali a muro. Lì si svolgevano le nostre conversazioni, non prima che tra fratello e sorella avvenisse il solito dialogo. "Nzina, porta du' cafè". "Unu, Mommo, unu, a tia ti fa mali". E dopo il caffè venivano fuori pagine avvincenti, antiche e recenti, di storia siciliana. Li Causi era ritornato nella sua terra il 10 agosto del 1944, dopo trent'anni d'assenza, quindici dei quali passati in carcere e al confino per la sua militanza comunista. Era stato Togliatti a volere che andasse a dirigere il Pci in Sicilia e lui, che dopo la liberazione dal confino di Ventotene era entrato a far parte del Comitato di Liberazione Nazionale e si trovava in quei giorni a Milano, partì subito. Un viaggio avventuroso, durato due mesi, attraverso la Jugoslavia di Tito, e finalmente Palermo.

 

Li Causi non perde tempo. In Sicilia, la mafia ha rialzato la testa e Salvatore Giuliano è diventato un grosso problema nazionale. E lui affronta l'una e l'altro, ma in modo diverso. La prima, frontalmente. Non è un mistero per nessuno che il capo-mafia del tempo sia Calogero Vizzini, il patriarca di Villalba. Ed è proprio a Villalba, dove prima di lui nessun oratore di un partito di sinistra aveva osato mettere piede, che Mommo va a tenere un comizio il 16 settembre del 1944. Prima d'entrare in paese era arrivato l'avvertimento di Vizzini: tenesse pure il suo comizio, ma senza parlare della terra, del feudo e della mafia. I contadini, comunque, non sarebbero stati in piazza ad ascoltarlo. Era vero. Minacciati ed impauriti, gli abitanti di Villalba si erano rinchiusi in casa, dietro le persiane accostate. In piazza c'era soltanto un folto gruppo di uomini armati e al centro Vizzini. Li Causi, sordo alle intimidazioni, parlò della terra e del feudo. E a un certo punto disse: "Io accuso Calogero Vizzini, che mi sta ascoltando, di essere il capo della mafia, dell'organizzazione criminale che sta insanguinando l'intera Sicilia". Don Calogero alza il braccio per aria, grida "Non è vero", e da tutta la piazza parte verso il palco una scarica di fucileria. Li Causi è colpito ad una gamba ed è trascinato al riparo dal socialista Michele Pantaleone. Da quel giorno camminerà appoggiandosi ad un bastone.

 

E' di quegli anni un intreccio compatto tra mafia, banditismo, separatismo, agrari, forze politiche legate alla conservazione. Salvatore Giuliano è al centro di quest'intreccio. Da bandito da strada è diventato capo di una potente banda armata. Ingaggia conflitti a fuoco, assalta caserme dei carabinieri e alla fine falcia a raffiche di mitra i contadini che festeggiavano il 1° maggio a Portella delle Ginestre, nel 1947. Li Causi esorta pubblicamente il bandito: "Giuliano, tu sei perduto e la tua vita è finita. Sarai ucciso o a tradimento dalla mafia che oggi mostra di proteggerti o in conflitto dalla polizia. Finchè sei in tempo denuncia, alto e forte, con tutti i particolari, con quella precisione che i lunghi affanni e le notti insonni hanno scolpito nella tua memoria, chi ti ha armato la mano, chi ti ha indotto a commettere e a far commettere la catena infinita di delitti da cui molto sangue è stato sparso. Inchioda alle loro responsabilità tutti coloro che ti hanno indotto al delitto e che ora ti abbandonano e ti tradiscono". Li Causi è buon profeta. La mafia scarica Giuliano e lo fa uccidere, forse da suo cugino Gaspare Pisciotta, prima che sia inscenato un finto conflitto a fuoco con la polizia. Giuliano non parlerà più. E non parlerà neanche Pisciotta, raggiunto al carcere palermitano dell'Ucciardone da un caffè avvelenato.

 

Gli anni di Li Causi segretario regionale del Pci in Sicilia, dal 1944 fino agli ultimi anni Cinquanta, sono caratterizzati dalle grandi lotte contadine, dalle occupazioni delle terre incolte, che troveranno poi uno sbocco nella riforma agraria, dallo scontro frontale delle sinistre con i partiti di destra e con la Democrazia cristiana. Sono gli anni in cui cadono sotto il piombo mafioso decine di sindacalisti comunisti e socialisti, da Accursio Miraglia a Salvatore Carnevale, a Placido Rizzotto. Li Causi sa che la mafia, per prosperare, ha bisogno di intrecciarsi con il potere politico, di avere i suoi referenti tra gli uomini che gestiscono il potere in Sicilia, o addirittura in Italia. E la mafia è un serbatoio di voti che può essere riversato come contropartita su questa o quella lista, a seconda delle circostanze. Non è il terzo livello. Non esiste. E' un "do ut des" al quale il potere siciliano non è insensibile. Per questo la sua lotta è senza mezzi termini nei confronti di parecchi dirigenti democristiani siciliani. "Mio padre", diceva, "era un calzolaio, un uomo semplice, ma dalle idee chiare. E' lui che mi ha insegnato a non servire mai due padroni".

 

Ma l'intransigenza non aiuta Li Causi all'interno del suo partito. C'è una generazione di giovani dirigenti siciliani che scalpita per prendere il suo posto. Ci provano nel 1950, ma non ci riescono. Il partito comunista non può abbandonare Li Causi che in tre anni è diventato l'emblema delle lotte per il riscatto dei diseredati del Mezzogiorno. Uno dei maggiori dirigenti del Pci, Pietro Secchia, arriva a Palermo ed avvia un vero e proprio processo che si concluderà con il pieno appoggio a Li Causi e con la punizione dei giovani leoni, trasferiti in altre sedi o inviati alla scuola di partito.

 

Ma il vero ostacolo per Li Causi è Togliatti. Il leader comunista sottovalutava il problema della mafia. O meglio, lo ignorava, non se ne occupò mai. In questa non casuale distrazione aveva un ruolo fondamentale la strategia dell'attenzione verso il mondo cattolico e la sua rappresentanza politica, la Democrazia cristiana. Togliatti aveva varato questa strategia con i Comitati di liberazione nazionale, i primi governi del dopoguerra, l'articolo 7 della Costituzione, e non cessò mai di praticarla in sordina, neanche nei periodi di dura polemica, finchè non fu rilanciata anni dopo da Berlinguer con il compromesso storico. In quest'ottica, Togliatti preferiva evitare che in Sicilia diventasse frontale e irreparabile lo scontro tra i comunisti e i notabili democristiani più contigui alla mafia, alcuni dei quali avevano anche responsabilità su scala nazionale. Tutto il contrario di "Mommo", che si rifiutava di servire due padroni.

 

Così, pur avendo per tanti anni giudicato Li Causi una delle personalità più forti del Pci e uno dei dirigenti più preparati nella questione siciliana, Togliatti non esitò a sostituirlo alla segreteria regionale con un altro dirigente del partito alla fine degli anni Cinquanta, proprio nel momento in cui la mafia aveva cominciato a spadroneggiare non soltanto nelle campagne ma anche nelle città, a cominciare da Palermo. Certo, negli anni successivi Li Causi non rimase con le mani in mano. Fu senatore per molte legislature. E non gli mancarono (il Pci non poteva non assegnarglieli) incarichi rappresentativi, come la vicepresidenza del Senato, o operativi, come la vicepresidenza della prima commissione parlamentare antimafia. Ma alle lotte in Sicilia dovette dire addio.

 

Nei nostri colloqui, ma soltanto quando giudicò che poteva fidarsi di me, Li Causi parlò anche di Togliatti. Mi disse con chiarezza che il leader del Pci, al di là delle finzioni ufficiali, non aveva mai approvato la sua azione politica in Sicilia. Lui, d'altra parte, ricambiava, disapprovando il tatticismo togliattiano. Ed erano troppe le differenze di carattere perchè tra i due uomini corresse buon sangue. La confidenza era, però, accompagnata da una premessa. Che va, a sua volta spiegata. Li Causi era un comunista della vecchia guardia. Il partito, per lui, era tutto e la disciplina di partito era un dogma. Fuori dai piani alti del palazzo romano di via delle Botteghe oscure non avrebbe mai ammesso che fra lui e Togliatti esistessero delle divergenze. La premessa era la conseguenza del suo abito mentale. "Ti parlo di queste cose strettamente riservate", diceva, "perchè ho fiducia in te. Ma se ti azzardi a parlarne fuori di qui o a scriverne, io ti smentirò, ti toglierò il saluto e, se ti incontrerò, ti sputerò in faccia". Non scherzava. Sapeva essere cordiale, rassicurante e addirittura tenero, come quando rincuorava i compagni di cella cantando con la sua bella voce di basso il ritornello di una canzone in voga in quei tempi: "Mimosa, mimosa, quanta malinconia nel tuo sorriso...". Ma sapeva essere anche inflessibile, come quando, detenuto nel carcere di Perugia e informato dei maltrattamenti inflitti a un altro detenuto, gridò al direttore: "Lei è un assassino o un imbecille, scelga". No, non scherzava. Ed io rivelo quella sua confidenza solo adesso, a oltre trent'anni di distanza e in uno scenario politico profondamente cambiato.

 

L'ultima zampata Li Causi la diede nel 1976, un anno prima di morire. Aveva deunciato le responsabilità di Giovanni Gioia nell'assassinio di Pasquale Almerico, il giovane segretario della sezione dc di Camporeale che si era opposto all'ingresso del capomafia Vanni Sacco nel partito scudocrociato. Gioia, in quel tempo segretario regionale della Dc, aveva sostenuto le ragioni di Sacco e rimosso Almerico dal suo incarico, esponendolo a morte certa. Pochi giorni dopo, infatti, il giovane fu massacrato da una sventagliata di pallettoni da lupara. E aveva accusato Vito Ciancimino essere stato al centro di un groviglio di elementi e di affari mafiosi nella Palermo amministrata dalla Dc. Li Causi aveva rinunciato per ragioni di età e di salute alla rielezione parlamentare e fu querelato per diffamazione tanto da Gioia, quanto da Ciancimino. Si presentò in tribunale. Parlò a lungo. E fu assolto in entrambi i procedimenti.

 

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