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Ritorno alla guerra

• da La stampa del 24 maggio 2010

di Marcello Sorgi

 

Per capire - a parte l’intreccio di parole - le manovre attorno alla manovra del governo, non bastano né la gelosia tra Berlusconi e Tremonti, il ministro più esposto davanti all’Europa alle prese con la crisi dell’euro, né la sorda contrapposizione tra un fronte cosiddetto rigorista e uno considerato accomodatore.
L’una e l’altra esistono da sempre all’interno del centrodestra, con confini incerti e continuamente cangianti. Purtroppo la questione è più seria. Nel giro di poche settimane, sull’onda dell’affondamento della Grecia e del naufragio annunciato di Spagna e Portogallo, l’Italia s’è trovata candidata a entrare a sorpresa nella lista dei reprobi dell’Unione. Diversamente dalla volta scorsa, quando la crisi finanziaria colpì in pieno le banche dell’America, e in Europa quelle di Paesi considerati solidissimi come Germania e Inghilterra, o Austria e Belgio, ma non dell’Italia, stavolta il nostro è tra quelli che destano più preoccupazioni, a motivo della crescita insopportabile del debito pubblico, ormai sui mille e ottocento miliardi, i cui interessi ci costringono a collocare sui mercati internazionali almeno un miliardo di euro al
giorno di titoli di Stato. Che succederebbe se da un giorno all’altro, come appunto è accaduto in Grecia e rischia di accadere in Spagna, i nostri titoli non venissero più considerati degni di fede?
Di qui la necessità, alla quale Tremonti s’è applicato impegnandosi davanti ai partners europei, di aggredire il debito italiano più drasticamente di quanto era stato fatto. Molto di più, dal momento che, è inutile nasconderlo, finora era stato fatto poco. E poiché il debito è generato dall’eccessiva spesa pubblica, causata a sua volta dal costo della macchina statale, cioè dei pubblici dipendenti, e di un sistema assistenziale, si tratti di sanità o pensioni, troppo costoso per come è ridotta l’Italia, sono questi i capitoli di bilancio da aggredire. Che si discuta, prima di decidere come aggredirli, è normale. Specie se l’ordine dei valori supera di gran lunga quello di un normale aggiustamento primaverile dei conti, si avvia, con i 28 miliardi della manovra, a somigliare a una seconda finanziaria, e si presenta come il primo, ahinoi!, di una serie di passi simili o più gravosi che dovremo fare ogni anno, per un bel po’ di anni, per cercare dì riportare ì conti italiani nei confini dei rigidi parametri del sistema dell’euro. Così come non c’è niente di strano che Tremonti si trovi a fronteggiare le resistenze dei suoi colleghi di governo, e Berlusconi intervenga per mediare tra i suoi ministri. Quel che invece non era prevedibile, e invece è accaduto (anche se non s’è materialmente realizzato), è che un frangente così delicato, che riguarda la possibilità stessa dell’Italia di restare agganciata all’Europa, si trasformasse in un’occasione per tentare di mandare a gambe per aria Berlusconi. La coincidenza non poteva apparire più strana: il leader del centrodestra era appena uscito vincitore dalla tornata nazionale delle elezioni regionali, in cui molti prima del voto lo davano per sconfitto. La crisi greca è esplosa a cavallo dei risultati, e subito s’è cominciato a sentir parlare della necessità di un governo di emergenza, che archiviando finalmente la confusa esperienza berlusconiana, si preparasse ad affrontare la tempesta. Basta solo rileggere i giornali di queste settimane.
Per primo ne ha parlato Casini, offrendo la disponibilità del suo partito, fin qui contrario a tornare alleato
del Cavaliere, a farsi carico delle criticità del momento. Poi qualcosa s’è mosso anche dentro il Pd, con il leader della minoranza interna Franceschini che ha prefigurato un appoggio del suo partito a un nuovo governo, non guidato da Berlusconi, ma in grado di evitare la frana. Appoggio, va riconosciuto, subito negato dal segretario Bersani. Nei disegni di chi manovrava per questo governo, candidato a guidarlo ovviamente era Tremonti. Mentre il ministro dell’Economia si dava da fare a Bruxelles per puntellare la credibilità italiana, si sono fatte molto speculazioni sul suo nome. C’è stato perfino chi ha tentato di far arrivare al Quirinale la voce che Tremonti era pronto a farsi avanti, e aspettava solo la chiamata. Naturalmente, com’è apparso subito chiaro a tutti, un piano del genere era appeso per aria. Tremonti per primo si sarebbe sottratto a uno sbocco siffatto, che non avrebbe avuto del resto né l’appoggio di Berlusconi, né quello della Lega. Nel giro degli ultimi due giorni, anche le opposizioni hanno dovuto fare i conti con la realtà. Casini restando ancorato a un atteggiamento di responsabilità verso la manovra, che
se non servirà a migliorare i rapporti con il centrodestra, almeno lo distinguerà dalla solita strategia piazzaiola a cui si prepara il centrosinistra. Bersani riunificando il Pd sull’attacco al governo, spinto fino agli insulti personali contro la Gelmini.
L’incontro di stasera a Palazzo Chigi con le parti sociali, per presentare le linee generali della manovra, di conseguenza si annuncia freddo com’erano ai vecchi tempi le convocazioni degli ambasciatori per scambiarsi le dichiarazioni di guerra. Se Berlusconi, assumendo la titolarità della manovra, sperava in una particolare attenzione, data la gravità del momento, anche dei suoi avversari, dovrà proprio ricredersi. Pd e Cgil, che contro Tremonti forse non avrebbero sparato a palle incatenate, si preparano a fare una guerra, a cui paradossalmente la discesa in campo in prima persona del Cavaliere ha offerto un bersaglio rassicurante, oltre che mobilitante. Così l’Italia sotto gli occhi dell’Europa rischia di perdere un’altra occasione per fare sul serio.


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