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I due premier

• da La stampa del 27 maggio 2010

di Ugo Magri

 

Ora lo sappiamo, a comandare in Italia sono in due: Berlusconi e Tremonti. Per effetto dell’emergenza, forse il secondo più del primo. E non inganni la deferenza esibita nei confronti del premier nella conferenza stampa, la modestia ostentata dal ministro davanti alle telecamere, quel suo ripetere educato che la manovra è tutta del Cavaliere, lui l’ha anticipata a Barroso ricevendone disco verde, lui se ne assume la responsabilità dinanzi al Paese...
Proprio quest’insistenza sincera, questa premura di Tremonti nel consegnare a Cesare quel che è di Cesare, fotografa i nuovi veri rapporti di forza nel governo e nella maggioranza. Dove regna ormai la Diarchia. O, se si preferisce, il Consolato: Giulio e Silvio.
Al tavolo della sala stampa neobarocca, ristrutturata dall’imprenditore Anemone con mezzi inversamente
proporzionali allo spazio disponibile, ci sono loro due e basta. Cinque sedie vuote, Tremonti seduto alla destra del Padre. In prima fila, a godersi lo spettacolo, Paolino Bonaiuti e l’aiutante di campo del ministro, Marco Milanese. Manca Gianni Letta, assente Sacconi (però elogiato più volte dal collega dell’Economia), nessuna traccia di La Russa, Matteoli, Frattini, Calderoli, Rotondi, la Prestigiacomo...
Bisogna parlare al Paese, fuori i secondi. La scena è tutta per la strana coppia. Con Berlusconi che esordisce leggendo un preambolo difensivo, quasi un mettere le mani avanti: «E’ stato giocoforza prendere queste misure», si giustifica, «perlomeno non abbiamo aumentato le tasse», «comunque abbiamo tagliato meno degli altri», «i dipendenti pubblici pagano il dazio ma negli anni scorsi avevano avuto di più». Parole studiate apposta nei tigi, ma in sala l’effetto viene guastato dal microfono che fa eco, sembra di ascoltare Radio Londra. Berlusconi nega dissapori con Tremonti, si dichiara «disperato» per ciò che legge sui giornali malvagi. Grande, consumato attore, il premier lo ringrazia e ri-ringrazia, medaglia pure a chi lo ha coadiuvato nell’impresa.
Al termine della conferenza stampa prende il ministro sottobraccio per posare davanti ai flash come si conviene in un momento del genere, siamo o non siamo a un «tornante della Storia»? Sembrerebbe il trionfo dell’armonia. Ogni volta il ministro si appella all’autorità del premier, «come ha detto il presidente», o «come vi dirà tra poco». Non fa in tempo a spendere una battuta colta e spiritosa delle sue che già Berlusconi sorride, mostrando di saperla già, tale è la consuetudine.
Ma poi si colgono certi lampi negli occhi del Cavaliere, alcuni piccoli tic di insofferenza. L’orgoglio del leader abituato a comandare in solitudine, senza mediazioni, balza fuori appena Giulio cita il programma di governo: «L’abbiamo scritto in due!», scatta il premier. O quando ricorda che l’Europa «è stata salvata da questi signori», e addita loro due, «se non intervenivamo noi era probabile una crisi rilevantissima», altro che la Merkel «sotto lo choc di elezioni perse», e comunque non è solo merito del bravo Giulio.
Nonostante lo sforzo di sembrare Bibì e Bibò, le distanze emergono prepotenti. A cominciare dalla tracciabilità dei soldi dove ogni maquillage è superfluo: per Berlusconi pagare cash resta un atto di libertà, «ci sono spese delle volte che uno preferisce effettuare in contanti», meglio non indagare quali, laddove per Tremonti siamo figli dell’arretratezza, «in altri Paesi se tiri fuori le banconote chiamano l’Fbi», qui in Italia siamo assuefatti così. Ancora: il ministro è tutto orgoglioso dei giudizi dall’estero, gli applausi dell’Europa, dei mercati, delle società di rating per questo show di rigore. Il premier annuisce, però poi insiste che la salvezza sarà la ripresa, altro che i tagli, e la crescita grazie a Dio sta arrivando.
Chi conosce l’uomo Berlusconi mette in guardia: la coabitazione sua con Tremonti, tra il premier di oggi e (forse) quello di domani, non può durare. Sarà un caso, ma proprio ieri il Cavaliere ha mandato messaggi di pace al terzo incomodo, cioè Fini. Con la scusa della legge sulle intercettazioni, ha convocato Augello (capo della fronda in Senato) e nientemeno che quel Bocchino di cui voleva sbarazzarsi a qualunque costo. I due si sono stretti la mano, come se nulla fosse, da veri professionisti della politica. Ma il punto non è questo: mancavano i tre coordinatori nazionali del Pdl, tenuti fuori dalla trattativa. Brutto segnale per loro, e devono essersi lamentati dell’esclusione col Capo, perché Ghedini ha dovuto smentire l’incontro con Berlusconi, è stato solo uno scambio tecnico tra giuristi (sebbene Augello e Bocchino giuristi non siano). Difatti a Palazzo Grazioli sono andati, eccome, in veste di ambasciatori.
Per preparare l’incontro con Fini entro la prossima direzione nazionale del partito, tempo quindici giorni. La pace nel Pdl è matura, litigare ha danneggiato entrambi i galli del pollaio. Più deboli davanti a Tremonti, disarmati davanti a una manovra contro Roma, gli statali e il Sud, che fa sognare la Lega.


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