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Oggi si parla di Mario Pannunzio molto più di quanto se ne legga. Troppa acqua è passata nell’ultimo mezzo secolo sotto i ponti del Tevere, troppi avvenimenti successivi alla stagione intellettuale e giornalistica di Pannunzio la fanno sembrare - con le sue passioni, le sue tensioni, le sue delusioni - irrimediabilmente datata.
Fu la stagione - per dirlo con Eugenio Scalfari, capofila dei reduci pannunziani - di quando la sera si andava in via Veneto, e gli addetti al gruppo degli iniziati valutavano con una qualche degnazione superciliosa le intrusioni degli estranei. Pannunzio e il suo Mondo rappresentarono l’aspetto nobile, colto, impegnato, disinteressato d’un certo ambiente romano. La grande editoria era a Milano, il Palazzo era a Roma. Pannunzio seppe irradiare un’influenza e una autorevolezza molto superiore alla diffusione in edicola e in libreria delle sue pubblicazioni. Attivissimo indolente, nutrito di buone letture e fermissimo nei suoi ideali, Pannunzio fu ciò che nessuno sarebbe riuscito a essere in eguale misura, dopo di lui; un autentico maestro di cultura e di vita. La biografia che Massimo Teodori ha dedicato a questo protagonista - Pannunzio, Mondadori, pagg. 278, euro 19,5 - è ricca dal punto di vista della documentazione e fluida nella narrazione. Il biografo ha una evidente consonanza ideologica con il biografato, ma registra tutto, anche alcuni eccessi polemici nei quali incorsero sia i detrattori di Pannunzio, sia Pannunzio stesso. Che aveva vari interessi - fu un buon pittore dilettante -, che poté sembrare negli anni giovanili un elegante e volubile dandy, ma che dimostrava una grinta straordinaria sia nella coerenza politica sia negli scontri privati (in particolare quelli con il padre, buon avvocato e militante comunista). Non è stata, quella di Pannunzio, una lunga vita. Se n’è andato nel 1968, a cinquantotto anni, e ha chiesto prima di morire che sulla sua bara fosse posta una copia de I promessi sposi. Il grande laico volle accanto a sé, nella quiete della tomba, il grande cattolico.
Animato com’era da mille idee, il Pannunzio ventenne e trentenne dovette adattarsi al fascismo: come Montanelli, come Longanesi, come tantissimi altri talenti che, nel tempo della camicia nera, dovettero anche renderle omaggio per poter dare dimostrazione della loro capacità . Insieme con Arrigo Benedetti,
lucchese come lui, fondò nella primaveradel 1939 un settimanale Oggi, che non lesinò concessioni al fascismo, ma che poi ebbe la sorte già toccata al longanesiano Omnibus: la chiusura per la fronda che da quelle pagine affiorava e - nel caso di Oggi - per esplicita richiesta dell’ambasciatore tedesco.
L’esperienza della guerra fece dello snob intelligente un antifascista senza tentennamenti. Durante l’occupazione tedesca fu rinchiuso per settanta giorni a Regina Coeli. La sua scelta ideologica fu precisa: un liberalismo moderno, allergico alle sirene togliattane e alla restaurazione che una parte del Pli auspicava. Per tre anni e mezzo, dal giugno del 1944 al novembre del 1947, Pannunzio fu direttore del Risorgimento liberale, rifugio e fucina di eccellenti firme giornalistiche. Il quotidiano era su posizioni anticomuniste risolute, ma gli avvenimenti ponevano ai liberali dilemmi tormentosi. Dovevano scegliere
tra monarchia e repubblica, tra conservazione e spinte progressiste. Il risultato fu una scissione.
Pannunzio, che voleva un liberalisno dialogante con alcune forze di sinistra, lasciò il Risorgimento liberale e il partito. Riprese l’attività giornalistica grazie a un editore, Gianni Mazzocchi, del quale so no troppo poco ricordate le intuizioni. Mazzocchi gli propose il Mondo, e il 19 febbraio 1949 il nuovo settimanale fu per la prima volta in edicola.
La tappa successiva dell’itinerario di Pannunzio fu la creazione del partito radicale, che suscitò all’inizio molte speranze - vi si vedeva un liberalismo riformista e moderno, l’alternativa democratica al Pci - e che presto fu affondato da contrasti e risse. Contro quel pugno d’uomini indecisi a tutto Palmiro Togliatti lanciò strali avvelenati. Ma il partito radicale che Pannunzio aveva ideato cadde sotto il fuoco amico, non sotto il fuoco nemico. Ora sono folla quelli che rivendicano l’eredità di Pannunzio. «Giornalisti e politici, liberali e radicali, destri e sinistri, democratici e autoritari, intellettuali engagé e dégagé, laici e clericali fanno a gara - scrive Teodori - per mettere nel proprio blasone qualche frammento pannunziano». Ma i frammenti non bastano per ricostruire la figura d’un uomo che come tutti gli autentici moralisti visse tra molti, ma rimanendo sostanzialmente solo.