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L'ossessione di un Paese

• da la Repubblica del 1 giugno 2010

di Bernardo Valli

 

Il sanguinoso arrembaggio alle navi dei pacifisti dirette a Gaza non può che avere conseguenze politiche devastanti per chi l’ha promosso, quindi per Israele. Commentatori israeliani avveduti avevano già definito «stupido», alla vigilia del dramma, l’atteggiamento intransigente, minaccioso, insomma eccessivo, delle autorità politiche e militari di Gerusalemme nei confronti della «Flotta della pace».Quasi fosse un’armada nelle acque del Mediterraneo pronta a sfidare lo Stato ebraico.
E quasi fosse capace di comprometterne sia la sicurezza sia l’onore. Insomma come se fosse un convoglio di terroristi. Certo, la spedizione pacifista sfidava l’embargo imposto a Gaza e quindi si proponeva di infrangere i divieti israeliani. Ma non si affronta una manifestazione pacifista con un arrembaggio, armi alla mano, come se si trattasse appunto di sventare, prevenire un attacco di terroristi corsari. Terroristi corsari che, stando alle denunce di Gerusalemme, possedevano in tutto due rivoltelle (non mostrate), coltelli e sbarre di ferro, usate dai passeggeri quando sono stati sorpresi dal commando israeliano. Il convoglio della «Flotta della Pace» poteva essere bloccato in modo meno rischioso. Meno sanguinoso.
La società israeliana rispetta al suo interno le regole democratiche, applica di solito, sempre entro i suoi confini, metodi civili per affrontare le proteste disarmate, ma quando agisce fuori dalle sue legittime frontiere il governo israeliano e le sue forze armate non ne tengono sempre conto. L’ossessione della sicurezza, in parte giustificata dalla storia dello Stato ebraico e dalla situazione in cui si trova, conduce a
eccessi e abusi che l’opinione internazionale, compresa quella favorevole, rifiuta o stenta ad accettare. L’arrembaggio a navi disarmate nelle acque internazionali, che si è concluso con morti e feriti, è uno di questi eccessi. Lo è al di là dei dettagli che le invocate e più o meno attendibili inchieste accerteranno.
Il dramma al largo di Gaza è devastante per Israele e favorisce i suoi avversari. Né il ministro della difesa Ehud Barak, un laburista, che ha certamente studiato e approvato l’operazione, né il primo ministro
Benjamin Netanyahu, un falco che quando vuole sa essere pragmatico, avevano previsto le conseguenze di un’azione tanto carica di rischi. Entrambi hanno offerto un’occasione insperata al principale nemico di Israele, in campo palestinese. Hamas in queste ore trionfa. Le piazze arabe si riempiono per manifestare in suo favore e contro Israele. Non solo. Nella Cisgiordania occupata, dove da tempo l’Olp collabora con gli israeliani nel dare la caccia alla gente di Hamas, sono stati decretati tre giorni di lutto e si manifesta in favore di Gaza. Gli integralisti esultano. In quanto ai negoziati indiretti tra l’Olp e Israele ci vorrà del tempo prima di riparlarne.
Dopo il dramma al largo di Gaza,Mahmud Abbas, presidente dell’Autorità palestinese, e il suo primo ministro, Salarti Fayed, non sono certo disponibili per un dialogo. In queste ore è come se il loro avversario, Ismail Haniyeh, leader di Hamas a Gaza, avesse vinto una battaglia.
La prima nave ad essere attaccata dai commandos israeliani esponeva sulle fiancate un’enorme bandiera turca accanto a quella palestinese. E gli uccisi durante l’arrembaggio erano quasi tutti turchi. Questo non fa che peggiorare i già cattivi rapporti tra Istanbul e Gerusalemme. Da due anni ormai l’alleanza strategica, politica e militare, tra i due Paesi è entrata in crisi. Israele e Turchia sono le due potenze
mediorientali piĂą legate agli Stati Uniti.
Nel’96 hanno firmato un accordo di cooperazione militare con grande soddisfazione degli americani. Il vincolo tra la Turchia, vecchio pilastro della Nato, e Israele, alleato irrinunciabile, appariva ai loro occhi prezioso. E lo era. Ma dopo l’operazione israeliana a Gaza, alla fine del 2008, l’amicizia israelo - turca si è trasformata in un’ostilità (finora verbale) sempre più aspra. Istanbul ha condannato l’intervento israeliano e le dichiarazioni critiche di Recep Tayyip Erdogan, alla testa di un governo islamo-conservatore, si sono moltìplìcate, fino ad affermare che lo Stato ebraico è «la principale minaccia per la pace» in Medio Oriente. La tensione si è poi accentuata, quando la Turchia (insieme al Brasile) ha concluso con l’Iran un accordo sul problema nucleare. Erdogan è tosi diventato il paladino dei palestinesi e un interlocutore privilegiato dell’Iran. Insomma, un amico degli avversari dì Israele. I turchi uccisi dagli
israeliani al largo di Gaza potrebbero condurre, col tempo, anche a un rottura dei rapporti diplomatici.
Per Barack Obama è un disastro assistere al divorzio politico e militare dei suoi due (sia pur difficili) alleati in Medio Oriente. Come è un disastro in queste ore assistere alla vampata anti-israeliana nelle
capitali arabe. Si era quasi creata obiettivamente un’intesa tra i Paesi sunniti (in particolare l’Arabia Saudita e l’Egitto) e Israele in funzione anti iraniana. Un’intesa tacita, non Coiif »abao, m, implicita. perché basata su un comun denominatore: l’ostilità nei confronti di Teheran. Gli arabi sunniti sono ossessionati dall’influenza dell’Iran sciita; gli israeliani dalla minaccia nucleare iraniana. Nel tentativo
di disinnescare quest’ultima, vale a dire la minaccia nucleare iraniana, la diplomazia americana si aggirava nel labirinto mediorientale con fatica. Un accordo israelo palestinese, o perlomeno la ripresa di un vero dialogo, poteva rappresentare un avvenimento propiziatorio. La ventata antiisraeliana, provocata nella regione dal sanguinoso arrembaggio al largo di Gaza, rende le cose più difficili. Quel che è antiisraeliano in Medio Oriente assume spesso, per riflesso condizionato, accenti antiamericani. Tra chi ha segnato punti a proprio vantaggio in queste ore, c’è anche l’Iran di Ahmadinejad, protettore di Gaza e nemico di Israele.


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