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Donne in pensione a 65 anni, stretta del governo

• da Corriere della Sera del 7 giugno 2010

di Roberto Bagnoli

 

Arriverà probabilmente entro la settimana a stretta sulle pensioni delle donne del pubblico impiego che vedranno così alzare l’età di uscita dal mondo del lavoro da 6o a 65 anni. Nei giorni scorsi una dura lettera della Commissione europea invitava il governo a rendere immediatamente operativa la sentenza
del 2008 che imponeva l’equiparazione previdenziale tra uomo e donna. E’ stato il ministro della Funzione pubblica Renato Brunetta ad anticipare, ai microfoni di radio Rtl, che della questione se ne occuperà «il prossimo Consiglio dei ministri» forse nella giornata di giovedì. I tempi sono ormai strettissimi. Questa mattina il ministro del Welfare Maurizio Sacconi, destinatario della lettera comunitaria, incontrerà a Lussemburgo il vicepresidente della Commissione e responsabile della Giustizia Vìvìane Reding per tentare una mediazione.
Per Brunetta «si tratterà di trovare un giusto compromesso, una soluzione intermedia tra la scadenza del 2018 e il 2012 chiesto da Bruxelles». Sacconi è deciso a difendere la particolare situazione sociale italiana e «a salvaguardare il principio della gradualità». Il ministro spiegherà alla Reding che in Italia esistono
due tipi di pensioni quella di anzianità (con 35 anni di contributi e 59 di età) e quella di vecchiaia (6o per le donne, 65 per gli uomini). In virtù di questo meccanismo l’età effettiva media di pensionamento per gli uomini è di 61,5 anni e di 6o per le donne.
Se passa l’ukase di Bruxelles l’età degli uomini resta la stessa ma quella delle donne passa a 63,8. Dunque una nuova ingiustizia. Un punto di compromesso potrebbe essere quello suggerito dal leader dell’Udc Pier Ferdinando Casini che, durante l’intervista di Maria Latella su Sky Tg24, ha ipotizzato di «creare una corsia di due anni alle donne in maternità, per dare una mano concreta alla famiglia».
Messa sotto pressione dall’invadenza dei mercati, dalla crisi dell’euro e dall’eccessivo peso del debito pubblico in gran parte generato da politiche di welfare troppo generose, Bruxelles ha preso di mira l’Italia e giovedì scorso ha inviato una secca missiva al ministro Sacconi invitandolo a «rispettare immediatamente la sentenza della Corte di giustizia europea». In pratica ad annullare il compromesso raggiunto nel 2008 con la vecchia Commissione che prevedeva un periodo di transizione di 1o anni. Matthew Newman, portavoce della Reding, è stato chiaro: «La Corte non ha stabilito nessun periodo di transizione, la cui illegalità risulta dalla giurisprudenza della Corte». Ora l’Italia ha due mesi di tempo per rispondere ma è possibile che il governo ne approfitti per evitare un tira e molla con Bruxelles con grave danno dì immagine e prendere subito una decisione che porterebbe dei significativi benefici ai conti
pubblici.
Decisiva sarà la reazione dei sindacati. Raffaele Bonanni, leader della Cisl, si è già detto pronto ad andare a Bruxelles per sostenere, in modo informale, le ragioni dell’Italia a una applicazione graduale. Del resto lo fece già quando si trattò di portare a casa il primo compromesso.


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