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Pensieri spettinati per cominciare la settimana. Un’altra nave partita stavolta dall’Irlanda è andata in soccorso dei palestinesi. La novità consiste nel fatto che non ci sono state sparatorie né vittime. Ovvio. I pacifisti non erano armati e non hanno opposto resistenza (ai controllori israeliani) probabilmente memori di quanto era accaduto ai loro colleghi il 31 maggio. Comunque, per chi avesse ancora dei dubbi sulla loro estrazione culturale e politica, quando i paladini irlandesi della pace hanno ricevuto l’ordine di tornare indietro (impartito dalla marina dello Stato ebraico) hanno risposto: «Tornate voi ad Auschwitz». Gente carina.
La polemica sulla strage navale si sta placando. Molti giornali, anche italiani, che al primo momento non avevano risparmiato critiche al governo di Netanyahu, hanno addolcito i toni e, in alcuni casi (per esempio il Corriere della Sera), riconosciuto ai militari di aver agito per (eccesso) di legittima difesa. Dalla condanna e dall’indignazione iniziali, la stampa è passata alla comprensione per un Paese che vive da anni sotto la minaccia di sterminio. Angelo Panebianco adombra addirittura l’ipotesi che il genocidio sia già in programma e potrebbe realizzarsi qualora, come sembra, gli Stati Uniti di Obama fossero meno protettivi verso Israele. Questione di tempo.
Noi siamo d’accordo con il professore editorialista. Intanto è giunto in Italia un supplemento di documentazione (e il Giornale lo pubblica) sull’incidente in mare: fotografie che ritraggono un soldato israeliano disarmato, pestato e sequestrato dai pacifisti. E’  la dimostrazione che gli aggressori erano quelli della presunta spedizione umanitaria, non i militari che si sono limitati a reagire. Consola verificare che la nostra tesi del primo giorno, fortemente contestata pressoché da tutti, adesso abbia il conforto sia pure tardivo di molti altri commentatori. L’antisemitismo ha bisogno di essere contrastato su scala mondiale per evitare che esploda nella «soluzione finale». Gli eredi di Hitler hanno cambiato bandiera ma sono ancora attivi, non sottovalutiamoli.
Altro pensiero spettinato. Tra poco più di una settimana, la riforma universitaria dovrebbe andare in aula per l’approvazione. Quand’anche diventasse legge, e non è scontato, occorrerà aspettare almeno un anno per giudicarne la portata. Ma una cosa si può dire subito: i nostri atenei sono organizzati talmente male che qualsiasi modifica non è in grado di peggiorarli. Quindi, tranquilli. L’istruzione di massa, a partire dalla media unificata (anni Sessanta), ha fatto guai. La qualità degli studi è talmente scaduta dopo le elementari d’aver rovinato anche i licei e gli istituti tecnici e industriali. I diplomi delle superiori valgono ora poco o niente e non assicurano una preparazione sufficiente per affrontare l’università . Se poi teniamo conto che questa è stata aperta indiscriminatamente a tutti, in ogni facoltà , a prescindere dal tipo di secondaria frequentata, si comprende che il livellamento verso il basso è stato perseguito con l’intento di azzerare la meritocrazia, sia fra gli studenti sia fra i professori, per favorire l’appiattimento sociale caro ai comunisti nostrani. L’operazione distruttiva dell’istruzione nazionale è stata completata con «l’invenzione» della laurea breve (tre anni) che illude chi la consegue di essere pronto per un posto di lavoro d’alto profilo. In realtà causa inflazione dei diplomi, e scarsa preparazione propria, il laureato è soltanto uno che ha il diritto di fregiarsi del titolo di dottore, buono per i biglietti da visita e la targhetta accanto al campanello di casa, ma inutile ai fini professionali. Risultato, otto dottori su dieci valgono meno di geometri e ragionieri e periti di mezzo secolo fa. Sicché o vincono su raccomandazione - un concorso pubblico oppure per conquistarsi un impiego sono obbligati a imparare un mestiere che, magari, non c’entra nulla con gli esami sostenuti.
Non è tutto. In sé l’università di massa potrebbe essere perfino accettabile se il valore legale dei titoli di studio fosse stato abolito come si converrebbe in un Paese liberale. Così infatti gli atenei sarebbero stati messi in concorrenza fra loro e ciò avrebbe consentito di selezionare i migliori (anche attraverso rette più
alte) rendendoli non solo più appetibili, ma anche garanzia di eccellenza scientifica. Invece il pezzo di carta uso patente ha incentivato la moltiplicazione di corsi, delle cattedre, dei rettorati, degli studenti che puntano alla laurea e non al sapere: insomma il numero delle accademie è salito vertiginosamente a oltre ottanta con effetti talvolta ridicoli; ogni città ha la sua università che fabbrica dottori perlopiù destinati a incrementare il precariato. Una situazione simile richiede altro che una riforma; serve una rivoluzione.
Siamo nelle mani della ministra Gelmini che non ha paura di chi gliene dice di tutti i colori. E se gli addetti ai lavori le danno torto, è segno che ha ragione.