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E la protesta diventa subito guerra civile

• da La stampa del 11 giugno 2010

di Mattia Feltri

 

Anche il più celebre dei dilemmi moderni trova applicazione in una giornata parlamentare che dovrebbe essere drammatica, nelle intenzioni e nei pronostici. E allora: mi si nota di più se occupo l’aula e poi voto o se non occupo l’aula ma non voto? Mi oppongo meglio se sono plateale prima o se sono teatrale dopo? La sfida della minoranza al governo un’altra volta è finita in guerra civile, con Antonio Di Pietro che, a modo suo, ha messo la targa sulla contesa: «Voi dell’opposizione e voi cittadini svegliatevi perché fare Ponzio Pilato è anche peggio di Erode». Inutile stare lì a spremersi nell’analisi del testo. Quello che conta è il destinatario: Pierluigi Bersani e il Pd.
Il carosello era cominciato la sera prima, la sera di mercoledì, sempre nell’aula del Senato dove si dibatteva di questioni di nullo interesse, quando il drappello dell’Italia dei Valori aveva fatto irruzione a passo di marcia, e gli sparuti presenti se ne erano rimasti a bocca aperta. I prodi erano undici, e cioè tutto il gruppo dipietrista tranne Elio Lannutti, in ospedale alle prese con qualche guaio di salute. E quando i lavori si sono chiusi ed era il momenti di spegnere la luce e chiudere la porta, il manipolo ha annunciato l’intenzione di restare lì, all’occupazione, in protesta contro il decreto sulle intercettazioni, e per conferire solennità al momento uno degli undici - non identificato - aveva fatto partire l’inno di Mameli contenuto nel telefono cellulare. La notte è trascorsa così, nella quiete, tranne una difficile trattativa coi commessi sull’uso dei bagni, perché chi esce dall’aula sebbene per ragioni vescicali è considerato perduto alla causa: non rientra. Ma con un po’ di buona volontà si è trovato l’accordo, e mentre il professor Pancho Pardi ne ha approfittato per ingurgitarsi Mozart nelle lettere, lavoro collettivo dell’Università di Perugia (il professore coglie l’occasione per consigliarlo ai melomani), il resto delle sentinelle si è accontentato dei siti e della agenzie.
Tanto il ballo sarebbe cominciato alla mattina, e infatti, quando la seduta è ripresa, i dieci hanno provato il salto di qualità occupando i banchi del governo. L’indignazione del senatore Piero Longo, Pdl, stimato giurista cui viene attribuita la patente di maestro di Niccolò Ghedini, è stata contenuta con difficoltà, dietro promessa di un alto intervento di cui si è assunto l’onere il presidente Renato Schifani. E dopo tre richieste di cortese ritorno all’ordine, il presidente ha comminato l’espulsione e sospesa la seduta. Sgombrata l’aula anche dei cronisti, i commessi l’hanno sgombrata pure degli espulsi, uno per volta, di peso ma con affabilità eccetera, nonostante l’avvocato Luigi Li Gotti, senatore dell’Idv, abbia preannunciato che presto dovranno trascinarli fuori comprensivi di scranno.
Insomma, la prova provata che il filibustering del terzo millennio è acqua fresca. Difatti ai senatori dipietristi è stato concesso di rientrare per dare il voto, e intanto il capogruppo del Pd, Anna Finocchiaro, annunciava il nuovo Aventino, e che restasse agli atti, onorevoli colleghi, che di quella legge massacratrice della libertà si sarebbe preso colpa chi restava dentro. Nell’imprevedibile andirivieni, stavolta uscivano quelli del Pd e rientravano quelli dell’Idv e, se la situazione non pareva sufficientemente confusa, il festival mondiale del distinguo finiva con l’assegnare un ruolo anche a Emma Bonino («noi restiamo dentro e votiamo no») e ai rutelliani, che stendevano una nota con cui dichiarare l’Idv tracotante come il governo, perché le occupazioni come le fiducie tolgono smalto al lavoro del senatore. Poi, siccome a fare opposizione c’è gusto soprattutto se la si fa da dentro, anche la destra si è raccattata le sue grane. Intanto quelli dell’Mpa, i lombardiani (di Sicilia) che come il Pd hanno abbandonato l’aula. Poi i soliti di Farefuturo, i quali ritengono inutile nascondere la delusione: bisognava fare di più. In questa splendida costellazione di stelle, dove ognuno accendeva la luce della sua diversità, alla fine è rimasto al buio soltanto il povero Maurizio Gasparri, capogruppo del Pdl, che ha inveito ormai in solitaria nell’aula semivuota e a quel punto annoiata. Fa niente se Gasparri ha cercato di portarsi a casa l’approvazione di quel galantuomo di Giuliano Pisapia, giurista e comunista, che in serata ha precisato: «C’è un fraintendimento. I problemi ci sono, ma questa legge sbagliata e controproducente li aggrava». Tanto non se n’è accorto nessuno.


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