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Spegnete, c'è la partita

• da Panorama del 18 giugno 2010

di Donatella Marino e Terry Marocco

 

Sono mosche bianche: per loro niente frittate e tifo davanti allo schermo. «Non distinguo un pallone da un caciocavallo» ammette Lella Bertinotti.
«Qualche sera fa a un matrimonio ho notato che gli ospiti si erano radunati davanti alla tv. Non capivo il perché dell’assembramento, ho chiesto ed è solo così che ho saputo dei Mondiali».
Estranea ma generosa Emma Bonino, vicepresidente del Senato: «Se sento dalla finestra le urla di gioia dei tifosi, sono contenta che siano contenti. Ma a me il calcio non interessa».
Indifferente anche l’attrice Carla Signoris: «Allo stadio rimango affascinata dai colori, ma la mia attenzione è pari a quella di mio figlio quando dalla culla guardava le apette girare».
Il filosofo Giulio Giorello, dall’alto del suo nuovo saggio sulla lussuria (Il Mulino), confessa di preferire «un paio di gambe femminili a 22 arti pelosi». E spiega così il suo difficile rapporto con il calcio: «È come la mistica tíbetana o i canti della siccità giavanese, cose ottime, ma che mi lasciano freddo».
Ci sono poi quelli che si danno all’arte. «Piuttosto andrò a visitare la Pelanda, lo spazio-mostre appena aperto a Roma» racconta Gabriella Alemanno, direttore dell’Agenzia del territorio, «magari vedrò la finale, se à arriveremo». Anche se a casa di Patrizia Sandretto Re Rebaudengo campeggia il calcetto di Maurizio Cattelan, la mecenate dell’arte alla Nazionale preferisce Art Basel. «Mi è bastato quattro anni fa, quando all’indomani della testata di Zinédine Zidane stavamo per presentare un’opera che celebrava la vita del campione francese. Una inopportuna coincidenza». Ma c è anche chi insegue la terza via, come Corrado Calabrò, presidente dell’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni, che malgrado un passato nella giovanile della Reggina si definisce tifoso part time: «Se le serate coincidessero, non avrei dubbi: sceglierei di gran lunga un concerto a Santa Cecilia». Comunque una sbirciatina a Italia-Paraguay l’ha data: «Senza sonoro, trovo insopportabili le trombette vuvuzelas». Così il critico d’arte Achille Bonito Oliva: «Non le vedo, vedendole Accendo la tv e mi metto a fare altro, leggo, mi bevo una vodka. Non sarò mai di quelli che pensano che se si distraggono ci fanno gol».
C’è pure chi quei 90 minuti li studia per capire i destini del mondo, senza alcun interesse sportivo. «È una grande recita, un movimento di massa, un fatto politico. Gioco a fare le previsioni: se vince la Spagna migliorerà l’economia, se la Francia sarà un punto a favore di Nicolas Sarkozy» sostiene la scrittrice Carmen Itera. E c’è chi non le guarda perché non sa come fare Come lo scrittore Antonio Pennacchi: «Da quando mio figlio ci ha sistemato Sky non riesco a vedere la tv. Non capisco niente del digitale terrestre. Poi, il calcio mi mette l’ansia». E se il giornalista Roberto Gervaso prodama con orgoglio di non vedere più una partita dal ‘48, l’architetto Massimiliano Fuksas non le guarda «perché manca l’eccitazione». Si rifugia sulla sua terrazza. Da solo? «No, sempre con tanti amici. Certo, tutti stranieri».


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