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Rimborsi elettorali senza fine

• da Italia Oggi del 29 giugno 2010

di Cesare Maffi

 

Il finanziamento pubblico ai partiti è stato da quasi vent’anni definito ufficialmente rimborso elettorale, al fine di aggirare l’esito fortemente negativo del referendum del 1993. Si tratta di uno dei costi della politica tra i più impopolari, probabilmente secondo soltanto all’assegno vitalizio dei parlamentari (e consiglieri regionali). Che si tratti di un mero espediente lessicale si rileva pure dal versamento in rate annuali: ove si trattasse di un autentico rimborso per spese sostenute dopo le elezioni, dovrebbe essere
elargito poche settimane dopo le elezioni di riferimento, non già scaglionato nel tempo. Il bello è che gli stessi bilanci dei partiti confermano tale assunto. E’ in questi giorni pubblicato il bilancio di una piccola formazione di estrema destra, il Movimento sociale fiamma tricolore che, essendo scomparso dall’Europarlamento, non riceve più un euro dallo Stato. Candidamente la relazione confessa: «Con la mancanza di un nuovo sostegno pubblico, non ci sono possibilità di stanziamento di risorse utili per nuove iniziative di attività politica». Il rimborso dovrebbe servire, in linea di principio, a sostenere le campagne elettorali, laddove le iniziative ordinarie dovrebbero far carico ai contributi di simpatizzanti e aderenti. Invece, con la sola eccezione dei radicali (i quali hanno sempre, solitari, denunciato tale assurda situazione), tutti i partiti presentano spese ridotte, talvolta scarsissime, per le campagne elettorali, mentre si servono dei rimborsi per l’ordinaria attività. Altro indicativo esempio è dato dal recente bilancio di Democrazia Europea. Costituirà per molti, anche fra i conoscitori delle vicende dei palazzi romani, una sorpresa apprendere che tale partito non sia formalmente deceduto. Si tratta di uno dei tanti movimenti zombi sopravvissuti al reale dissolvimento, e sopravvissuti di solito per motivi finanziari. Democrazia Europea si presentò alle elezioni politiche del 2001, appena fondata, fuori dei due poli maggiori, e spuntò un po’ più di un milione di voti: era costituita da ex diccì, leghisti dissidenti, personaggi di altra provenienza. Vi aderì, con entusiasmo, Giulio Andreotti. Ne era animatore il sindacalista Cisl Sergio D’Antoni. L’anno dopo De contribuì, con Ccd e Cdu, al nascere dell’Udc. Adesso si scopre, dal bilancio firmato dal «legale rappresentante» Sergio D’Antoni, che il partito ancora esiste, verosimilmente senza eccesiva attività (per il personale registra per il 2009 spese inferiori a ottomila euro). Ha un patrimonio di oltre quattro milioni, fra titoli e depositi bancari. A quasi un decennio, quindi, dal cosiddetto rimborso elettorale del 2001, un partito zombi campa ancora con solide disponibilità finanziarie. C’è da chiedersi, a questo punto, perché nella manovra non si abbia il coraggio di ridurre drasticamente i sedicenti rimborsi elettorali, per esempio legandoli a spese documentate e nei limiti di una somma rapportata ai voti ottenuti, non riferita, invece, a tutti gli iscritti alle liste elettorali della Camera. Se ne era parlato, ma le pressioni della maggioranza e delle opposizioni hanno fatto venir meno ogni ipotesi di secco taglio. Ci si è limitati a un dieci per cento, e all’abolizione del rimborso esteso anche oltre i limiti della legislatura, ove questa abbia avuto un termine anticipato.


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