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Compagni

• da la Repubblica del 1 luglio 2010

di G. Crainz, Nello Ajello

 

«Compagno». Ecco una parola che non sopporta sinonimi. Ha attraversato l'intera utopia del marxismo. E risuonata per decenni nei raduni della sinistra. È passata dalle labbra di Amadeo Bordiga e di Antonio Gramsci a quelle di Ignazio Sifone. Ha animato i comizi di Nenni e di Saragat. La scandirono per una vita Togliatti, Secchia o Di Vittorio. Da quel vocabolo - «compagni» - Vittorini e Calvino soffrirono a distaccarsi, mentre Marco Pannella lo adottava in un senso tutto suo. E oggi quel termine è più che altro un pro-memoria: il solo, forse, che ci dica qualcosa su ciò che s'era convenuto di chiamare le «masse». Fra entusiasmi, anatemi, trionfi, rovesci. «Su fratelli, su compagni, su, venite in fitta schiera», esortava un tempo l'Inno dei lavoratori, firmato da Filippo Turati. E oggi? Oggi la schiera non troppo fitta dei militanti della sinistra ha deciso di resuscitarla, quella parola, come stiamo per raccontare. Ma è una resurrezione necessariamente breve, su uno sfondo che non potrebbe essere più diverso da quello che aveva quando dirsi «compagno» rappresentava un segno di riconoscimento e sottolineava l'appartenenza a una genealogia di cui si onoravano senza tregua i supremi modelli. «Come ebbe ad affermare il compagno Lenin», «lo ha bene spiegato il compagno Stalin»: ecco una coppia di frasi che, nella scuola del partito comunista alle Frattocchie, era adottata per reprimere i dubbi. Una sfida interessante potrebbe essere quella di trovare, nella pubblicistica comunista, l'espressione «ex-compagno». Deve esservi comparsa dirado. Nei partiti comunisti si entrava e basta. Le loro porte erano sorvegliate dai Capi. Su chi le varcava in uscita, gravava una patente d'indegnità: non più il «compagno» ma il «rinnegato». Quando lo scrittore Elio Vittorini, primi anni Cinquanta, manifestò il proprio disagio a condividere il «credo» comunista, Togliatti si disse stupito. «Era venuto con noi», scrisse su Rinascita «perché credeva che fossimo liberali, invece siamo comunisti. Perché non farselo spiegare prima?». Dal partito liberale (era sottinteso) ci si può allontanare con reciproci saluti. Da noi, no: o sei un compagno o non sei niente. Dal caso Silone (1930) alla radiazione degli aderenti al Manifesto (1969), la casa dove abitano i compagni non contemplerà restauri. Solo più tardi, a quel venerando sostantivo potrà seguire qualche aggiunta: «compagni di strada» (come a dire, catecumeni a metà) o, più avanti ancora, «compagni che sbagliano». E già l'alba del terrorismo, la fine d'un sogno. Ma passiamo all'oggi, tanto meno drammatico ma a suo modo agitato. Nel tornare in discussione due settimane fa, la parola «compagno» ha assunto qui in Italia le sembianze d'un casus belli. A pronunziarla sabato 19 giugno, durante un raduno al Palalottomatica dell'Eur, è stato un bravo attore. Si chiama Fabrizio Gifuni. Di recente ha incarnato De Gasperi in tv. È figlio di quel mandarino della Repubblica, a nome Gaetano, che fu il gran consigliere di Scalfaro e poi di Ciampi sul Colle. «Compagne e compagni, è tanto che volevo dirlo», ha esordito Fabrizio. Gli premeva denunziare il trattamento punitivo che il governo riserva alla cultura. E a quel suo incipit hanno fatto subito seguito i commenti, i plausi, i dinieghi. Essi non riguardano naturalmente la cultura, ma quel vocabolo risuscitato: «compagni». Un'occasione per sfogarsi? Una scusa per abbandonarsi al prediletto masochismo? E difficile interpretare umori così istintivi. A riempire i giornali e il web di reazioni a catena è stata una fetta cospicua dei progressisti nostrani. Si va da quei cinque giovani «democratici» romani che hanno rifiutato la definizione di «compagni», scrivendo a Bersani di essere nati in contemporanea con il Pd (li hanno subito definiti i «nativi») all'opposta opinione di quella loro coetanea che, impegnata nell'attività di partito, confessa all'Unità: «Non ho il tempo di offendermi se qualcuno mi chiama compagna». E il Pd sembra dividersi intorno alla parola. Il senatore Stefano Ceccanti vorrebbe abolirla. Alludendo ai «nativi», il deputato europeo Leonardo Domenici, sbotta: «Anche i giovani possono dire delle cretinate». Debora Serracchiani propone una ricetta complicata: «Occorre trovare nuovi serbatoi simbolici». E al vertice del partito? Rosi Bindi si schiera con Gifuni. Enrico Letta trova «stridente» quel suo appello. Beppe Fioroni incalza: «Compagni? Parola da archiviare». Degno di archiviazione, secondo Bersani, è l'intero argomento: «Basta finire sui giornali con polemiche inutili». Un concerto di voci. Un caso assai «partecipato». In tema di partecipazione, circolava nella Parigi del '68 un aforisma sotto forma di coniugazione. Suonava così: «je partecipe, tu participes, il partecipe, nous participons, vous participez, ils profitent». Trasportatala canzoncina qui e ora, è facile scoprire a chi possa alludere il verbo conclusivo. Basta registrare l'annoiata benevolenza con cui qualche giornale contrario alla sinistra ha commentato il caso del giugno 2010. «Chiamatevi compagni, vi resta solo questo», titolava Libero. Ma poi scriveva, dubbioso: «Hanno forse ragione quei ragazzini agnostici» (i «nativi», s'intuisce) a rifiutare la parola «compagno», «ultimo resto ingombrante e osceno di una chiesa che fu». Un'altra volta, figlioli, state più attenti.

 



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