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Accavallamento di notizie questa settimana in Italia, ma la più importante, per chi scrive queste righe da New York, non era la manifestazione di protesta del primo luglio contro la legge bavaglio, almeno rispetto alla sentenza di condanna per concorso esterno alla mafia nel processo di appello al senatore Marcello Dell’Utri e, il giorno dopo, la lettura della relazione del presidente della commissione Antimafia Giuseppe Pisanu. Paradossalmente, la manifestazione di Piazza Navona è finita per fare da “bavaglio†ad un adeguato proseguimento della copertura di questi due importanti eventi. Insomma non ha aiutato l’opinione pubblica italiana, almeno quella ancora che tenta di informarsi, a soppesare fino in fondo le inevitabili ripercussioni che la conferma della condanna al senatore Dell’Ultri dovrebbero avere, se l’Italia fosse una democrazia “normaleâ€, sul governo Berlusconi.
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L’aspetto sconvolgente e illogico di questa sentenza della magistratura giudicante italiana, è l’aver ancora una volta sostenuto (era successo già con Giulio Andreotti) che si può essere complici o in affari con la mafia e poi, per scelta, non più. Una specie di rapporto “a tempoâ€, come se l’accusa di mafiosità per il Senatore Dell’Utri fosse come lo yougurt, in scadenza proprio nel ’92.
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Una sentenza, quindi, che dimostra di voler disconoscere la realtà del fenomeno mafioso e di una sua regola fondante: chi ha rapporti con Cosa Nostra, che sia “pinciuto†– cioè mafioso – o “solo†in affari, una volta iniziata una relazione fatta di labili diritti e ferrei doveri, ha solo un modo per poterne uscire: dentro una cassa da morto.
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Invece per la magistratura giudicante italiana, nella sua sentenza di appello (resta ancora la Cassazione) Dell’Utri avrebbe avuto intensi rapporti negli anni settanta e ottanta con i boss, per poi, come dire, cancellarli come si fa tra uomini d’affari normali, quando si rinuncia ad un appuntamento perché il “business†non conviene più . E Dell’Utri, quindi, dopo il ’92, poteva andarsene in giro indisturbato, per le strade di Palermo e Milano...
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Salvo Lima, luogotenente democristiano di Andreotti in Sicilia, lo si vede sudare nel bel film di Paolo Sorrentino “Il Divoâ€. Suda perché il suo padrino politico ha deciso di non poter rispondere più a certe richieste mafiose. Così Don Salvo, nel film come nella vita, finisce ammazzato a Palermo, proprio poco prima delle stragi di Falcone e Borsellino.
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Lima nel film suda come un condannato a morte. Invece a Dell’Utri, che l’ultima sentenza della magistratura ci dice è stato prima in affari con la mafia e poi non più, non abbiamo mai visto una goccia di sudore. Appare calmo, anche quando dichiara, dopo la sentenza che lo condanna a sette anni, che per lui “Mangano è stato un eroeâ€. Mangano, il mafioso che visse, grazie a Dell’Utri, nella casa di Silvio Berlusconi per occuparsi di cavalli, ma anche, secondo certe ricostruzioni, per proteggere i figli del Cavaliere.
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Proprio il giorno dopo la sentenza Dell’Utri, il Presidente della commissione Antimafia Giuseppe Pisanu (del centrodestra, ndr) ha parlato del groviglio politico mafioso accaduto in Sicilia, e non solo, durante il terribile biennio delle stragi del 92-93. Pisanu ha parlato di tre verità distinte, quella giudiziaria, quella storica e quella politica, che spesso non coincidono, che possono seguire logiche e percorsi diversi. Pisanu ha detto che la sua relazione raccontava una “verità †politica.
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Chissà se Pisanu, o anche il Procuratore Antimafia Pietro Grasso, riescano a trovarci un senso logico nella sentenza di Palermo. Perché per la “verità †storica e politica, a questo punto la magistratura italiana ha sicuramente sbagliato con Dell’Utri: o lui è infatti totalmente estraneo ai fatti di cui è accusato, e quindi poveretto condannato ingiustamente, o se come dicono i giudici in affari con la mafia lo è stato, questo deve valere per sempre, anche dopo il ‘92. Perché se fosse solo “colpevole a tempoâ€, come ci vogliono far credere, il sen. Dell’Utri avrebbe già da tempo fatto la fine dell’on. Lima.