Apprendiamo con angoscia crescente, ogni giorno che passa, delle torture e del rischio di "deportazione in patria" subiti dai profughi eritrei, in parte respinti in Libia lo scorso anno con il concorso delle nostre unità navali ed trasferiti il 30 giugno dal centro di detenzione di Misurata alla prigione di Brak, in pieno deserto vicino Sebha, una prigione gestita direttamente dalle forze di sicurezza libiche. Neppure le decine di persone che erano state gravemente ferite a Misurata, durante i primi tentativi di "identificazione" da parte di rappresentanti del governo eritreo, vengono curate e sembrerebbe che almeno due eritrei non siano più ritornati nelle camerate, dopo essere stati condotti nelle sale di tortura del carcere di Brak Giunge adesso la notizia che, dopo la "punizione esemplare" inflitta a quanti si opponevano al rimpatrio in Eritrea, un rappresentante del governo eritreo si recherà a Brak ed incontrerà di nuovo i profughi, probabilmente per verificare se le torture li hanno "ammorbiditi" e se sono adesso disponibili ad essere rimpatriati. Con la prospettiva di altro carcere e di altri abusi, come è noto a tutti, per il trattamento che il governo eritreo riserva a quanti, dopo essere fuggiti, sono ricondotti a forza in patria. La vicenda in corso va inserita in un progressivo giro di vite del regime libico nei confronti degli immigrati e in particolare contro i somali e gli eritrei, in gran parte richiedenti asilo. All'inizio di giugno Gheddafi ha deciso di chiudere - con l'accusa di svolgere attività illegale- la piccola delegazione di Tripoli dell'Alto Commissariato delle Nazioni unite per i rifugiati che, malgrado la Libia non aderisse alla Convenzione di Ginevra, almeno riusciva ad incontrare alcuni richiedenti asilo, proprio come gli eritrei internati a Misurata. Una delegazione molto importante, al punto che il governo italiano l'aveva richiamata in diverse occasioni per giustificare gli accordi di cooperazione con la Libia ed i respingimenti collettivi in acque internazionali. Adesso sembra che la delegazione dell'Acnur potrà riprendere le sue modeste attività di censimento, ma temiamo che questa sia l'ennesima sceneggiata per rilegittimare gli accordi italo-libici, i respingimenti collettivi in mare e la detenzione arbitraria dei richiedenti asilo. E la Libia non ha neppure ratificato la Convenzione di Ginevra. Il Parlamento Europeo lo scorso 17 giugno protestava per le esecuzioni capitali che la giustizia libica aveva sancito dopo processi senza alcuna garanzia effettiva di difesa, in alcuni dei quali erano coinvolti anche degli immigrati nigeriani. Nella sua risoluzione, in diversi passaggi, il Parlamento europeo esprimeva anche forte preoccupazione perla sorte dei migranti bloccati in Libia, ricordando il divieto di trattamenti inumani o degradanti, oltre che della tortura e della pena di morte. Nessuna reazione, naturalmente, da parte del governo italiano. Ancor oggi, nessuna delle autorità italiane e straniere alle quali sono stati rivolti accorati appelli perla liberazione degli eritrei deportati da Misurata ha ancora avviato una azione di pressione sulla Libia perché questo scempio di persone innocenti cessi al più presto. Eppure anche il Parlamento italiano potrebbe fare qualcosa, dopo avere votato a larghissima maggioranza gli accordi con la Libia, approvando la legge di ratifica n.7 del 6 febbraio 2009, che in diversi punti richiama le Convenzioni internazionali che proteggono i diritti umani, ma non la Convenzione di Ginevra sui rifugiati. Sarebbe bene che i parlamentari ed i partiti, che in passato hanno approvato gli accordi con la Libia, in base ai quali erano previsti, oltre alla cessione dì mezzi navali e terrestri, un sistema di comando interforze unificato a guida libica, «manovre congiunte e scambio di esperti e tecnici», riflettessero sulle conseguenze del loro voto di ratifica. Soprattutto per la legittimazione che quel voto ha rappresentato per le politiche più violente di Gheddafi nei confronti dei migranti, in gran parte potenziali richiedenti asilo, persone che se fossero giunte in Italia, come gli eritrei, avrebbero certamente avuto diritto ad una protezione internazionale, come oggi sono costretti a riconoscere alcuni fautori degli stessi accordi. Vorremmo anche, oltre al blocco - già avvenuto- dei negoziati tra l'Unione Europea e la Libia in materia di immigrazione, che la Corte Europea dei diritti dell'uomo si pronunci al più presto sul ricorso presentato contro l'Italia dopo i respingimenti collettivi in mare effettuati da nostre unità militari (nave Bovienzo) il 6 e 7 maggio dello scorso anno, quando i militari italiani abbandonavano i naufraghi, donne e minori compresi, in Libia, sulla banchina del porto di Tripoli. Da quella decisione della Corte di Strasburgo e dalla sua portata potrebbe dipendere il destino di molte vite, non solo quello dei ricorrenti, una circostanza che, al di là del carattere individuale del ricorso, la stessa Corte non potrà certo ignorare. Si attendono anche gli sviluppi del processo in corso a Siracusa contro alti responsabili della Guardia di Finanza e del Ministero dell'interno, per i respingimenti collettivi effettuati qualche mese dopo verso la Libia. In modo diverso, sono tutti fatti che si legano alla terribile sorte dei profughi eritrei rinchiusi oggi in Libia nel carcere di Brak.