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"Aiuto, stiamo morendo portateci via dalla Libia"

• da Avvenire del 6 luglio 2010

di E. Sesana

Ci torturano a tutte le ore, ci insultano e ci picchiano. Prima eravamo in un centro di detenzione, a Misurata. Alcuni di noi erano stati arrestati perché già abitavano in Libia, altri sono stati respinti dall'Italia lo scorso anno. Anche se avevano il diritto di essere accolti come rifugiati sono stati respinti». Torna a farsi sentire la voce degli eritrei di Brak, ormai allo stremo delle forze, detenuti da quattro giorni sotto il sole cocente del deserto libico. «Ci sono anche 18 donne e bambini. Le torture sono state molto pesanti. Tre persone, appena arrivate qui, hanno tentato il suicidio bevuto detersivo e sono state portate in ospedale». «Li ho sentiti anche questa mattina (ieri per chi legge, ndr) -riferisce don Mussie Zerai, presidente dell'associazione Habeshia - le condizioni e il trattamento sono gli stessi dei giorni scorsi: percosse al momento della conta e dei pasti. Persone ferite e malate prive di assistenza sanitaria». Privi di acqua sotto il sole cocente del deserto. Ieri le grandi associazioni internazionali per la tutela dei diritti umani sono scese in campo. Amnesty International ha chiesto a Tripoli di garantire agli eritrei acqua, cibo e medicine e soprattutto «non li rispedisca in patria, dove rischiano di subire la tortura, punizione riservata ai colpevoli di "tradimento" e diserzione». Ma nell'inferno di Brak il rischio di rimpatrio pare sempre più grave: «E stata annunciata un'imminente visita dell'ambasciatore eritreo al campo - denuncia don Mussie Zerai -. La notizia è stata accolta con grande preoccupazione perché si teme che l'obiettivo sia il rimpatrio in Eritrea». Hanno bisogno di aiuto, qui e ora, «perché stiamo morendo nel deserto». Hanno bisogno che la comunità internazionale intervenga, che qualche Paese terzo li riconosca come rifugiati politici e li porti via dall'inferno libico. Anche il Cir (Consiglio italiano per i rifugiati) continua a monitorare la situazione di Brak. «Non c'è più tempo da perdere - denuncia Christopher Heîn, direttore del Cir -. Ripetiamo con forza la nostra richiesta al governo di trasferire e reinsediare i rifugiati in Italia». La Farnesina, da parte sua, fa sapere che l'Italia «è pronta a fare la sua parte ma nel quadro di un'azione Ue», ha detto Maurizio Massari, portavoce del ministro degli Esteri, Franco Frattini. Massari ha spiegato come non si tratta di un «un problema tra Italia e Libia», e «non si capisce perchè solo l'Italia si debba fare carico di questi rifugiati». Piuttosto, ha aggiunto, bisognerebbe chiedersi se la Ue è disposta a farsi carico di questi rifugiati eritrei: «Finora sembra proprio di no - ha concluso -. Abbiamo sempre sollecitato un intervento solidale della Ue, ma non è arrivato». «Questa è l'ultima occasione per muovere qualcosa. Se non succede qualcosa entro breve, per questi ragazzi sarà troppo tardi. L Italia e la Libia sono responsabili per questo». Dagmawi Ymer, è nato ad Addis Abeba 33 anni fa e dal 2006 vive in Italia con lo status di rifugiato politico. Nel 2008 con il film "Come un uomo sulla terra" ha raccontato le violenze e le umiliazioni cui sono sottoposti i migranti che attraversano la Libia. Un documentario di denuncia forte e sofferto, ancora attuale. «Anzi, con i respingimenti la situazione in Libia è peggiorata - dice Dagmawi -. Non c'è una via d'uscita da quella trappola, le detenzioni sono ancora più lunghe le sofferenze di donne e bambini ancora maggiori». La complicità dell'Europa e dell'Italia, in questa situazione, è evidente. «I politici sanno quello che succede in Libia, i giornali ne hanno parlato -conclude Dagmawi -. Ma gli interessi economici in gioco sono più importanti delle vite umane».



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