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A quando un cambio di passo?

• da da Europa del 6 luglio 2010

di M. Rodriguez

 
Sorprende in queste settimane il fatto che di fronte ad un indebolimento costante della figura del presidente del consiglio, di fronte ad una sequenza di inciampi e ruzzoloni, ddl intercettazioni in primis, non corrisponda il rafforzamento dell'opposizione. L'emersione di un soggetto, persona o partito, verso il quale rivolgersi nella speranza che possa fare qualcosa di meglio o di più. Vedremo se il tonfo di Brancher aprirà avrà qualche effetto, ma nel profondo Nord la sfiducia in Berlusconi fa crescere solo l'appeal di Bossi e della "sua" Lega. Bisognerebbe almeno prenderne atto. Visto che individuare i problemi è il primo passo per risolverli. Invece non si colgono cambi di passo e sembra che si vada avanti sviluppando decisioni figlie di ragionamenti maturati in altri contesti. Perché sta succedendo questo? Perché all'annunciata volontà del Pd di ripartire dalla vita della gente comune ha corrisposto un progressivo impantanarsi nelle querelle imposte dai media, dalla loro agenda, rimanendo attori di uno spettacolo di cui la regia è saldamente in mano ad altri. Il fatto è che l'opposizione tutta (le varie componenti del Pd ma Idv e Sel compresi, per intenderci) non sembra in grado di offrire una lettura della società italiana che permetta di interpretarne paure e speranze. Non basta qualche frase in dialetto. Non fa nemmeno presa la "lenzuolata" di contro proposte alla Finanziaria che fa rimanere l'opposizione più sul terreno della laundry list che della costruzione di metafore convincenti (per dirla con Lakoff). Manca la capacità di evocare una cornice che generi fiducia. Quello che si dice è contraddittorio, complicato, spesso carico di distinguo, di allusioni per addetti ai lavori. A volte solo una stanca elencazione di problemi denunciati da anni e mai affrontati: si dovrebbe fare, bisognerebbe essere, eccetera. Nulla a che fare con chi, in un momento di difficoltà, proponendosi come un riferimento affidabile, avanza proposte che fanno vivere esperienze non previste e prevedibili costringendo a vedere le cose in una luce diversa rispetto al passato. Il ghe pensi mi del Berlusconi triumphans, per intenderci (ma è lo stesso meccanismo di tutte le leadership da Prodi dell euro e dell'Ulivo, a Bossi del federalismo, Veltroni del Lingotto fino alla Bonino e Vendola delle regionali). Ed ecco il paradosso attuale. Da un lato ci vorrebbe una capacità di intervento immediato nella crisi (con linguaggi che materializzino nell'esperienza delle persone proposte credibili). Ma per riuscirci bisognerebbe avere anche una più adeguata capacità di analisi e di rappresentazione della realtà. Questo chiede tempo. E soprattutto il coraggio sia di attribuire priorità allo studio, alla analisi, all'approfondimento sia di abbandonare vecchi riferimenti nostalgici. Invece questi problemi sono ritenuti astratti, lontani dalle persone, autoreferenziali. Si spende molto di più per "dire" che per "capire" o per "condividere". Forse si teme di sollevare più confusione di quanta se ne riesca a risolvere. Ma di lì bisognerà passare. Nel Pd se ne rendono conto coloro che stanno animando fondazioni, scuole e forum. Troppo facile interpretare le loro mosse solo come smania di protagonismo. Colgono un'esigenza reale. Ma ne risulta una spinta centrifuga perché non diventa parte costitutiva della pratica politica generalizzata, di un modo d'esserci nella società. Gli eventi sono pensati e realizzati più per la loro spendibilità mediatica che come momenti necessari a costruire visioni comuni capaci di sostenere comportamenti riconoscibili. Il distacco tra affermazioni e comportamenti cresce. Sono passerelle effimere. Conta chi parla non cosa si dice. È importante che ci siano fedeli non evangelisti (nella accezione usata anche nel mondo della consulenza aziendale). I sostenitori sono ormai pubblico, audience. Si continuano a mettere toppe, spesso fatte di tessuti vecchi. Mentre bisognerebbe avere il coraggio di riconoscere che la cultura riformista, battuta in molti campi perché incapace di offrire ricette funzionanti, deve fare i conti proprio con quegli approcci "altri" che ne hanno evidenziato i limiti, che la hanno battuta sul campo (il confronto elettorale nelle democrazie mediatizzate). E necessario, quindi, ripartire dallo studio della realtà scegliendo sistematicamente lo stimolo della falsificazione delle teorie, piuttosto che la definizione dell'ortodossia e 1 allontanamento degli altri per fare chiarezza. Nel Pd curiosità e voglia di aprirsi e mettersi in discussione si sono spente. Hanno lasciato il campo, da un lato a un riduzionismo praticone tutto concentrato sull'attività delle assemblee (parlamento in testa, ma non solo) e, dall'altro, a una volontà di (ri)qualificarsi su concetti a forte carica simbolica rivolti più al "come eravamo" che al presente. La difficoltà del muoversi in campo aperto spinge verso la costruzione di casematte. Quando si sente parlare - nei modi in cui se ne sente parlare - di «centralità del lavoro», di «creazione di una nuova cultura socialdemocratica», la cornice evocata è quella del conflitto salario-capitale-padrone operaio. Un frame da novecento, tutto immerso nella temperie socialdemocratica. Niente a che fare con una società che non attribuisce o riconosce più al sindacato dei lavoratori dipendenti un ruolo di rappresentanza di interessi generali. Nulla a che fare con una società che vede nel tempo extra lavoro il terreno della qualificazione della propria esistenza. Nulla a che fare con il lavoro come terreno di realizzazione delle persone in una società "liquida". E questo solo per una superficiale allusione ai problemi.
 



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