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Se l'obbiettivo del premier è salvare il governo

• da Il sole 24 ore del 6 luglio 2010

di Stefano Folli

Qual è il primo obiettivo di Silvio Berlusconi? Salvare il governo e la coalizione oppure regolare i conti con Fini? Ottenere entrambe le cose nello stesso momento è difficile, forse impossibile. E si può immaginare che la priorità del presidente del Consiglio, quella a cui sta dedicando le sue energie in nome del «ci penso io», sia la prima: salvaguardare e stabilizzare il governo. Quindi si tratta di scegliere secondo logica e buonsenso. Non a caso la prima mossa di Berlusconi, giusto in apertura di una settimana cruciale, ha riguardato le dimissioni di Brancher, il ministro più anomalo degli ultimi decenni. Segno che ha prevalso la prudenza. Benché le dimissioni in tribunale davanti ai magistrati, anziché nelle sedi proprie, costituiscano l'ennesima bizzarria della vicenda. E una questione, si potrebbe dire, di vasi comunicanti. Per salvare il governo occorre ridurre la tensione. E la prima fonte di tensione, insostenibile per un esecutivo indebolito e malcerto, nasce dal rapporto con il Quirinale. Nelle ultime settimane il caso Brancher e la malaccorta legge sulle intercettazioni avevano incrinato e deteriorato la relazione tra Palazzo Chigi e la presidenza della Repubblica. Ora l'abbandono di Brancher è il segnale che Berlusconi cerca la riconciliazione. E ha ragione. Ma non avrebbe senso abbandonare al suo destino l'ex ministro e poi insistere sul testo delle intercettazioni, criticato proprio dal Quirinale in termini perentori. Quindi, se c'è una logica, le dimissioni di Brancher sono solo il primo passo di una sequenza che non può non prevedere il rinvio della legge. Nessuno smacco per il governo, bensì l'esigenza di correggere in modo radicale un provvedimento incongruo che ha prodotto solo lacerazioni e inquietudini. Le due opzioni (dimissioni del ministro e rinvio per le intercettazioni) sono probabilmente in grado di ricostruire un rapporto sereno tra Berlusconi e Napolitano. E questo è senza dubbio nell'interesse del premier, nel delicato frangente che la maggioranza sta vivendo. Allo stesso modo, il presidente del Consiglio è intervenuto ieri sera sulla manovra economica esprimendo sostegno all'azione di Tremonti. Il voto di fiducia che sarà chiesto al Parlamento non esclude trattative e compromessi su questo o quel punto dei provvedimenti, ma nessuno,nemmeno le regioni, può pensare di smontare il lavoro del ministro dell'Economia come accadeva con le vecchie leggi finanziarie. Ciò significa che ora, fissata la cornice, sarà possibile negoziare con i contestatori da posizioni di relativa forza. Terzo punto, il più insidioso. Se l'obiettivo è salvare il governo, la resa dei conti con il presidente della Camera andrebbe nella direzione opposta. Sarebbe il più drammatico dei fattori destabilizzanti. Sappiamo che Berlusconi è tentato dal braccio di ferro e del resto c'è chi lo incoraggia. Ma sembra di capire che il premier stia cercando piuttosto un terreno di chiarimento, magari aspro, ma non fino al punto d'apparire autolesionista. Il rischio infatti c'è. È noto che Fini si è intestato negli ultimi tempi alcune battaglie ispirate al principio di legalità, spesso portando nel dibattito politico sentimenti e stati d'animo condivisi dal capo dello stato. Non avrebbe molto senso per Berlusconi ricostruire una relazione positiva con il Quirinale e al tempo stesso avviare una prova di forza definitiva con il presidente della Camera che lo ha sfidato proprio sui temi che coinvolgono la legalità e dunque l'immagine morale della maggioranza. In questo caso il «ci penso io» berlusconiano dovrà operare una distinzione. Da un lato c'è il Fini presidente della Camera, con il quale il premier ha interesse a trovare un «modus vivendi» per garantire la tenuta della maggioranza. Dall'altro, c'è il Fini politico, in urto frontale e non sanabile con l'altro fondatore (e padre-padrone) del Pdl. Con questo secondo Fini, Berlusconi dovrà prendere atto che proprio il progetto del Pdl «casa comune» della destra è fallito. Occorrerà prenderne atto, magari immaginando una federazione o un'altra formula che dia il senso della separazione senza ulteriori traumi. In tal caso, è chiaro che ci si avvia verso un percorso non di giorni, bensì di settimane o di mesi. Al termine del quale si dovrà convocare un congresso. Il divorzio potrà avvenire più facilmente in autunno o all'inizio del prossimo anno. Nel frattempo, è ovvio, il presidente della Camera resterà in carica e Berlusconi lo sa. Ci sarebbe in realtà un modo cruento per saldare i conti con il rivale: provocare le elezioni anticipate. Solo in questo caso avrebbero un senso i suggerimenti bellicosi che nelle ultime ore sono arrivati al presidente del Consiglio. Ma allora apparirebbero privi di significato i passi appena descritti: l'addio di Brancher, i dubbi sulle intercettazioni, la prudenza con il Quirinale, eccetera. Berlusconi è ben consapevole che in questo momento, con la crisi economica aperta, la spesa pubblica da regolare, l'Europa attenta osservatrice, una maggioranza che tuttora esiste in Parlamento, le elezioni non sono nel novero delle ipotesi disponibili. Fra qualche mese vedremo, ma oggi no. Ecco perché l'opzione resta quella di salvare il governo, non di affondarlo. Ne deriva che il premier, l'uomo del «ci penso io», deve muoversi su questo stretto sentiero. Con ragionevoli speranze di successo, nonostante tutto.



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