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• da Il manifesto del 7 luglio 2010

di Michele Giorgio

Sorrisi, strette di mano, affermazione a voce alta dei legami «indissolubili» tra Stati uniti e Israele. Benyanim Netanyahu e Barack Obama ieri alla Casa bianca si comportavano come due vecchi amici in perfetta sintonia. Ormai è alle spalle il gelo dello scorso marzo, quando, al termine di un incontro teso, il presidente americano e il premier israeliano si lasciarono senza tenere la conferenza stampa e rinunciando alla rituale cena di lavoro. Ora, nonostante la strage, lo scorso 31 maggio, di nove attivisti turchi, uccisi da un commando israeliano lanciato all’arrembaggio della nave Mavi Marmara (in acque internazionali), e accontentandosi di un semplice allentamento del blocco di Gaza, Barack Obama si mostra accondiscendente, fin troppo morbido, nei confronti di Netanyahu. E’ così svanito l’attrito tra l’amministrazione e il governo israeliano che pure aveva «offeso» il vice presidente Joe Biden annunciando durante la sua visita nello Stato ebraico nuovi massicci progetti edilizi nella colonia di Ramat Shlomo (Gerusalemme est). Una sterzata che è frutto delle decisioni «forti» che il primo ministro israeliano dice di voler prendere in nome di un accordo con i palestinesi? L’incontro di ieri più che puntare ad ottenere da Netanyahu il prolungamento della «moratoria» di 10 mesi nell’approvazione di nuovi progetti per l’espansione delle colonie (i vecchi piani comunque sono andati avanti) che scade il prossimo 27 settembre, sembra aver sancito un coordinamento israelo-americano per costringere la debole Anp di Abu Mazen ad accettare l’avvio di negoziati diretti con Israele in sostituzione di « proximity talks» (indiretti), rinunciando alla condizione del blocco totale dell’espansione delle colonie. Obama ha detto di auspicarsi l’avvio di negoziati diretti tra israeliani e palestinesi entro settembre, quindi prima della scadenza della moratoria sui nuovi insediamenti ebraici nei territori palestinesi. Per il presidente Usa, Israele «ha mostrato moderazione» - lo si è visto bene il 31 maggio sulle navi della «Freedom Flotilla» dirette a Gaza - e, pertanto, la sua speranza è che si possa creare «un clima» nel quale tutti possano «impegnarsi» portando al «successo». Proprio ieri la magistratura militare israeliana ha formalizzato l’incriminazione di un soldato accusato d’aver ucciso «senza giustificazione» due donne palestinesi che avanzavano disarmate, sventolando un drappo bianco, durante l’offensiva «Piombo fuso» (1400 palestinesi uccisi). Un crimine, simile ai tanti denunciati dal rapporto Goldstone (Onu), che l’amministrazione Usa ha deciso di non vedere. In sostanza Netanyahu ha convinto Obama che soltanto il «sì» di Abu Mazen ai negoziati diretti può dargli la forza per convincere la sua maggioranza di governo ad approvare un prolungamento della «moratoria» sulle colonie in scadenza tra poco più di due mesi. In Israele però escludono che Netanyahu possa estendere, nella sua forma attuale, il congelamento avvenuto solo sulla carta) delle nuove costruzioni. Diversi partiti sono pronti a lasciare la maggioranza se le costruzioni non riprenderanno a partire dal 28 settembre. Netanyahu perciò potrebbe aver proposto al presidente americano una «via d’uscita». In cambio del riconoscimento dell’amministrazione attuale della «lettera di garanzie» del 2004 con la quale George Bush, violando la legge internazionale, affermò il «diritto» di Israele di annettersi le porzioni di Cisgiordania palestinese dove sono situati i principali blocchi di colonie ebraiche, Netanyahu potrèbbe approvare i progetti edilizi «solo» negli insediamenti di fatto «riconosciuti» dagli Usa. In questa partita la fragile Anp di Ramallah, dipendente dagli aiuti finanziari statunitensi ed europei e, quindi, ricattabile, non avrà alcun ruolo da protagonista e, come tutti si aspettano, darà il via libera ai negoziati indiretti. I coloni intanto sono pronti a sfidare Netanyahu se il premier cederà alle pressioni di Barack «Hussei » Obama che accusano di essere un «musulmano» mascherato. Non si accontentano di ciò che già hanno ottenuto, Due rapporti resi pubblici ieri rivelano il primo che gli insediamenti colonici continuano a ricevere aiuti finanziari (200 milioni di dollari in dieci anni) da donatori americani grazie a esenzioni fiscali previste dalla legge americana, il secondo, del centro per i diritti umani Betselem, denuncia che il 42% della Cisgiordania, è già sotto il controllo degli insediamenti israeliani. Un percentuale che i coloni sperano di far salire se, come pare, Obama si mostrerà in futuro più comprensivo.



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