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Il piccolo e un po' grottesco caso dell'emendamento Ceccanti, presentato e poi ritirato dal Pd nella discussione sul cosiddetto lodo Alfano costituzionale, solleva alcune domande, non piccole, sul principale partito di opposizione. I fatti: dinanzi alla legge che punta a costituzionalizzare il lodo Alfano, estendendo lo scudo dai processi anche al capo dello stato, ma vincolandolo all'approvazione di una maggioranza semplice del Parlamento, il senatore democratico Stefano Ceccanti aveva presentato un emendamento per evitare che la maggioranza, nel caso la legge fosse passata così com'era, ottenesse il potere di decidere l'imputabilità del presidente della Repubblica. Per cogliere appieno l'assurdità della polemica che ne è seguita, va tenuto presente che oggi, a Costituzione vigente, il capo dello stato non è imputabile (se non per alto tradimento e attentato alla Costituzione). Questa almeno è l'interpretazione prevalente dell'articolo 90 che è stata data finora. Per esempio, nel 1993, quando il presidente Oscar Luigi Scalfaro, dinanzi alle prime indiscrezioni che lo chiamavano in causa sullo scandalo Sisde, scandì in tv: "A questo gioco al massacro io non-ci-sto". Dinanzi a una legge costituzionale che poteva cambiare questo equilibrio, l'emendamento Ceccanti mirava a ripristinarlo. Né più né meno. Ma ecco che il Fatto lancia una campagna, ripresa dal Giornale, sostenendo che il Pd mostra di approvare il lodo Alfano e di volerlo estendere al Quirinale per inconfessabili motivi. Ed ecco che il gruppo parlamentare del Pd si affretta a ritirare l'emendamento (così accreditando, peraltro, tutte le insinuazioni) e scarica Ceccanti con dichiarazioni tra l'imbarazzato e l'autodenigratorio. Ma dalla domanda, a questo punto, non si scappa: il Pd ritiene che la maggioranza debba avere il potere di decidere la processabilità del capo dello stato, contrariamente all'attuale dettato costituzionale? La posizione del Pd è che debbano essere le Camere, con un voto a maggioranza semplice, a decidere della sua imputabilità ? Ma prima ancora, e soprattutto, a chi bisogna domandarlo? Insomma, chi decide, e dove, la linea del Partito democratico?