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Immigrati eritrei, Gheddafi ordina un'inchiesta

• da Corriere della Sera del 12 luglio 2010

di Alessandra Coppola

Le botte, la sete, il cibo scarso, i cadaveri buttati via come rifiuti. La Libia nei ricordi dell'eritreo T.D. non è un Paese per rifugiati. «Mi sento male anche solo a sentire gli altri che ne parlano». Come in questi giorni, con le notizie dei 245 connazionali minacciati di rimpatrio, detenuti nel carcere di Brak, tra testimonianze di torture e strazi, finché è arrivata la promessa di liberazione per svolgere non meglio definiti «lavori socialmente utili». L'ultimo aggiornamento, secondo l'agenzia locale lana: il leader Muammar Gheddafi ha ordinato un'inchiesta «sulla situazione degli immigrati eritrei». Il ministero degli Esteri di Tripoli respinge le accuse riprese dalla stampa straniera e rivendica «trattamenti umanitari per gli ospiti». Non è l'esperienza di T.D., 18 anni appena, partito ragazzino da un villaggio al confine con l'Etiopia per sottrarsi al servizio militare eterno di un Paese autoritario e instabile, e trovare un lavoro da saldatore. Qualche mese dai parenti in Sudan in attesa di un trafficante che gli organizzi il viaggio, con altri 133. Quattro giorni alla frontiera libica aspettando altri passeurs e tre Land Rover con il retro scoperto in cui si stipano tutti. Quindici scompaiono nel deserto, uccisi dal sole e dall'arsura, durante i venti giorni di viaggio. T. D. te la fa, ma a un prezzo molto alto. «La polizia libica mi arresta e mi porta nel centro di detenzione di Ganfuda, vicino a Bengasi». Il suo racconto è dettagliato grazie all'aiuto di un interprete di tigrino, che l'accompagna al Meeting internazionale antirazzista organizzato dall'Arci a Cecina. «Eravamo in 50 nella stessa stanza, divisi per nazionalità, c'erano anche 4 bambini. Si poteva stare all'aria aperta 15 minuti alla settimana. Abbiamo avuto malattie della pelle. Non ci davano medicine e ci dicevano: sei un animale, non ci interessa nulla dite, puoi anche morire». Succede a un ragazzo nigeriano, che tenta di ribellarsi e viene messo in isolamento, niente cibo né acqua. Dopo qualche giorno è raggiunto nella cella punitiva da un giovane eritreo, riacciuffato dopo una fuga. «Il mio compagno ha visto il nigeriano morire, ha chiamato le guardie, l'hanno lasciato lì tutta la notte, hanno preso il corpo il giorno dopo e l'hanno gettato». Botte coi bastoni di gomma alla conta del mattino, botte alla sera, botte a ogni cambio di turno dei secondini. Peggio ancora per le donne che vengono anche molestate. «L'acqua da bere finiva al principio della giornata, per lavarsi non ce n'era. Da mangiare solo riso e sale, anche per i bambini». Sembra una delle storie dell'orrore raccontate dai rifugiati eritrei passati per la Libia nel documentario di Dagmawi Yimer (con Riccardo Biadene e Andrea Segre) Come un uomo sulla terra. «Anche io sono stato detenuto a Bengasi, ma in un altro carcere - spiega Dagmawi -. Perché questo trattamento per noi del Corno d'Africa? Sanno che abbiamo i soldi, che ce li facciamo mandare dalla famiglia». Migranti in transito con migliaia di dollari da spendere per i trafficanti: prede ambite dalla polizia libica. Qualcuno riesce a scappare. T.D. racconta di avercela fatta, dopo sei mesi, e di aver raggiunto Tripoli. Evita così le violenze dell'agosto 2009 a Ganfuda, sulle quali ha raccolto numerose testimonianze e fotografie il giornalista Gabriele Del Grande (fondatore del sito Fortress Europe sulle vittime dell'emigrazione): sommossa dei detenuti somali, repressione con bastoni e armi da taglio, spari, decine di feriti, sei morti. In quei mesi T.A. sta preparando il viaggio verso l'Italia. Ci riesce lo scorso novembre, i suoi scafisti evitano Lampedusa (e i respingimenti) e lo fanno sbarcare nel ragusano. Ora ha un «permesso di soggiorno per protezione sussidiaria». E per tre anni, almeno, spera di stare tranquillo.



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