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Di Pietro e i referendum guerra persa in partenza

• da Il Secolo XIX del 15 luglio 2010

di Paolo Armaroli

Tonino Di Pietro si è montato la testa. E sapete perché? Per il semplice motivo che si crede niente di meno che Marco Pannella. Il Pannella, sia chiaro, dei tempi migliori. Non già, tanto per intenderci, quello che si butta a sinistra come Totò, che non ha più nulla da dire. E, bilioso com'è, scaccia dal Paradiso terrestre di Radio radicale il suo direttore: quel Massimo Bordin che per anni gli ha fatto da megafono e adesso è divorato come tanti suoi predecessori dal novello dio Crono. Ma quel Pannella che, vivaddio, combatteva solo contro tutti. I suoi anni migliori sono stati quelli della cosiddetta solidarietà nazionale. Quelli del triennio 1976-1979. Allorquando Giulio Andreotti se ne stava da presidente del Consiglio sul ponte di comando di Palazzo Chigi. E quasi tutti i partiti - dai liberali ai comunisti, salvo la De che ovviamente votava a favore del governo - stavano nella stiva a remare come schiavi. Dapprima si vollero salvare l'anima non andando più in là di una benevola astensione. E poi, eccetto il Pli che piantò baracca e burattini, dettero pieno sostegno al divo Giulio. A riprova che il potere logora chi non ce l'ha, il Pci andò per suonarle nelle elezioni del 1979 e fu bellamente suonato. In tanto bailamme si distinsero due soli partiti. Relegati ai margini del sistema, fuori dall'arco costituzionale. Una bestemmia bella e buona in democrazia, che non può essere alla mercé dei soci fondatori. Da una parte i missini, qualificati, o meglio squalificati, come neofascisti. Dall'altra per l'appunto i radicali, considerati matti da legare. Già, perché in quegli anni che cosa mai ti combina il nostro Marco nazionale? Come un pistolero del Far West, impugna due armi micidiali. Per cominciare, l'ostruzionismo parlamentare, un ostruzionismo strategico più che tattico, condotto perfino su provvedimenti come l'eviscerazione dei polli e i lamellibranchi. E poi referendum a raffica. Due mosse che congiurano al medesimo fine, perché si propongono di dividere lo schieramento politico in due parti nette: ostruzionisti contro antiostruzionisti e i sì contro i no all'abrogazione di leggi per via referendaria. Andreotti allora sosteneva, perché soprattutto in quel torno di tempo gli tornava comodo, che se l'Italia si divide non si divide in due maya in mille pezzi. Pannella, precorrendo i tempi, ribatteva che è vero l'esatto contrario. Una tesi del resto che non fa una grinza in bocca a chi, come il leader radicale, ha sempre guardato con ammirazione alle istituzioni britanniche, fondate sul bipartitismo. A dispetto della faccia feroce, pronta a far sfracelli, Di Pietro non può abbandonarsi all'ostruzionismo in quanto i regolamenti parlamentari non sono più allo sbando come quelli di una volta. Salvo che per i disegni di legge di conversione, ormai il contingentamento dei tempi è una mannaia che non dà scampo. Per non parlare dei rimedi antiostruzionistici a disposizione del governo e della maggioranza. A cominciare dai maxi emendamenti sui quali il governo pone la questione di fiducia, che fa saltare tutti gli emendamenti parlamentari, e dalle sedute fiume, che raffreddano i bollenti spiriti. Non potendo imboccare questa strada, perché proibitiva, il leader dell'Italia dei valori ha optato per i referendum abrogativi. Per fare le cose in grande, ne ha promossi ben tre. E precisamente sulla privatizzazione dell'acqua, sull'energia nucleare e sul legittimo impedimento. Nel giro di pochi giorni, però, è montato un "giallo" in piena regola. Una settimana fa si era sparsa la voce che il numero delle firme raccolte era di gran lunga inferiore alle cinquecentomila prescritte. E perciò si era a un passo da un fiasco grosso così. Ma poi Di Pietro ha dato ampie assicurazioni al riguardo. A suo dire, tutto procede per il meglio. Scimmiottando Pietro Badoglio, anche per lui la guerra, o meglio la battaglia referendaria, continua. Fino al successo finale. Come che sia, alla fine la parola spetterà all'ufficio centrale per il referendum presso la Corte di cassazione, che dovrà pronunciarsi sulla regolarità delle firme raccolte. Ammesso e non concesso che tutto fili liscio come l'olio, dopo che succederà? Di Pietro riuscirà poi nelle votazioni referendarie a superare il quorum della metà più uno degli aventi diritto al voto? Benito Mussolini non avrebbe dichiarato la guerra agli Stati Uniti se solo avesse dato un'occhiata alle dimensioni dell'elenco telefonico di New York. Ecco, qualcosa di simile si potrebbe dire del leader dell'Ivd. Se avesse dato una sbirciata agli alti e bassi dei risultati referendari, più bassi che alti, forse non si sarebbe imbarcato in un'impresa più grande di lui. E allora diamoli questi benedetti numeri: quelli giusti. Dal 1974 a tutt'oggi sono stati votati ben 61 referendum abrogativi. Fino all'8 novembre 1987, i 14 referendum svolti hanno sempre raggiunto il quorum. Poi, qualche volta il quorum è venuto meno. Ma dal15 giugno 1997 nessuno dei 24 referendum votati ha raggiunto il quorum. Perciò ci vorrebbe un miracolo, stavolta. E Di Pietro, fino a prova contraria, non si è ancora attrezzato alla bisogna.



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