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"Schiave del sesso in Iraq e Afghanistan" nuovo scandalo per i contractors americani

• da la Repubblica del 19 luglio 2010

di Angelo Aquaro

 

La bambina irachena di dodici anni costretta a prostituirsi nel seminterrato di Bagdad mentre le guardie private americane fanno una colletta di pochi dollari e si mettono in fila. Le ragazze reclutate nell'est dell'Europa con la promessa di un lavoro come colf a Dubai e poi da lì dirottate e segregate nel cuore dell'Iraq. Le cameriere dei ristoranti cinesi di Kabul che dietro le lanterne rosse nascondono il segreto che conoscono tutti. L'ultimo orrore delle "guerre gemelle" che Barack Obama ha ereditato da George W. Bush ha il volto delle donne sfruttate nel nome di quell'altro idolo che divide l' altare con il denaro: il sesso. Ma otto anni dopo l'avvio della guerra al terrore il bilancio in questa battaglia è ancora più magro di quello raccolto dal Tigri a Kandahar: zero su zero. Gli ordini del presidente erano roboanti come i proclami della vittoria che non arrivava. E' severamente proibito a contractors o impiegati del governo di rendersi responsabili di traffici sessuali nelle zone di guerra. Chiunque si renda responsabile di traffici sessuali verrà sospeso dall'incarico. Chi verrà sorpreso in traffici sessuali verrà denunciato alle autorità. I risultati? «Non c'è neppure un processo aperto» dice l'ex detective di Human Rights Watch, Martina Venderberg. «Insomma non c'è volontà di far rispettare la legge». La vergogna è stata scoperchiata da un'inchiesta del Center for Public Integrity ripresa ieri dal Washington Post. E ancora una sotto accusa sono finiti i contractors della ex-Blackwater: il gruppo privato già tristemente famoso per le stragi di civili in Iraq. L'azienda gode di così cattiva fama che per tornare a lavorare oggi ha cambiato marchio e si chiama Xe Service. Racconta un'ex guardia che non vuole rivelare il nome per paura di rappresaglie: ho visto io stesso guardie più anziane raccogliere soldi mentre ragazzine irachene, tra cui bambine di 12 e 13 anni, si prostituivano. La guardia dice anche di aver riportato tutto al suo superiore ma che «nessun provvedimento è stato preso: mi rattrista anche parlarne». Non si rattrista affatto il portavoce dell'ex Blackwater, Stacy De Luke, che al Washington Post nega «con forza queste accuse anonime e senza prove: la politica dell'azienda vieta i traffici umani». Ci mancherebbe. Il caso delle lavoratrici dell'est che pensano di volare su Dubai e finiscono in Iraq è stato invece scoperto da una giornalista free lance. Qui l'organizzazione era molto più accurata. Un vero traffico organizzato da sub-contractors che lavorano per l'Esercito e per l'Exchange Service dell'Aeronautica: nome che dovrebbe indicare l'ufficio che si occupa di organizzare la ristorazione ma che evidentemente si occupa anche di altro. Appena atterrate le poverette vengono private del passaporto. C'è anche un prezzo per il riscatto: 1100 dollari. Una cifra enorme visto che si prostituiscono per pochi dollari. La fabbrica del sesso è ancora più solida in Afghanistan. Qui già quattro anni fa un centinaio di cinesi furono liberate in una serie di blitz che invece dei Taliban colpirono i bordelli. Ma il traffico è continuato. Con l'«acquisto» di una donna per ventimila dollari un manager della ArmorGroup, l'azienda che fino a poco tempo fasi occupava della sicurezza dell'ambasciata americana a Kabul, si vantava di poter organizzare un traffico redditizio. L'inchiesta partita da una soffiata è arrivata ai piani alti dell'Fbi. Ma qui si è fermata. I federali sostengono di non avere mezzi sufficienti. Nelle zone di guerra sono schierati una quarantina di agenti ma già hanno il loro bel daffare a occuparsi di truffe e corruzione. Ma gli attivisti dei diritti umani hanno un'altra spiegazione: la verità è che le autorità preferiscono chiudere un occhio. Dice Christopher H. Smith, un deputato autore di una legge antitraffico, per la cronaca repubblicano: com'è possibile tollerare che questa gente possa sfruttare le donne con i soldi che noi paghiamo? Ecco un'altra eredità di cui Obama dovrà occuparsi.

 


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