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Fini esce dal Pdl? Sarebbe ora!

• da Il Giornale del 19 luglio 2010

di Vittorio Feltri

 

Il Secolo d'Italia nel numero di ieri ha spiegato i motivi per cui Gianfranco Fini dissente da Silvio Berlusconi e dalla sua idea di partito. E per farlo ha mobilitato i pezzi da novanta dell'ex Alleanza nazionale: Italo Bocchino, Fabio Granata, Angelo Napoli, Benedetto Della Vedova, Pasquale Vespoli, Silvano Moffa, Roberto Menia, Flavia Perina, Antonio Buonfiglio e Filippo Rossi (che ha introdotto il tema: salvare il Pdl o mandarlo a ramengo?). Tutti gli autori sono concordi nel dire: così non si va avanti. E questo lo avevamo capito anche noi. Ciascuno di loro sviluppa un ragionamento, ma la conclusione è la stessa: o il Pdl diventa un partito tradizionale in cui ognuno dice la sua e vince chi l'ha detta meglio e raccoglie più adesioni, ovviamente nel rispetto delle minoranze e della dialettica interna eccetera; oppure, se rimane com'è, ossia un comitato elettorale dove tutti attaccano l'asino dove vuole il padrone Berlusconi, prima o poi si sfascerà perché i finiani non sono disposti a fare i servi. Chiedo scusa per la semplificazione un po' rozza, però qui si tratta di arrivare subito al nocciolo per non addormentare il lettore che immagino nonne possa più di beghe tra cofondatori e relativi pretoriani. E la prima volta che i dissidenti non si nascondono dietro a un dito. Ora almeno sappiamo come la pensano davvero: a loro questo Pdl dà sui nervi perché ha un leader forte che si rivolge direttamente al popolo onde ottenerne il consenso. Preferirebbero un «partito delle tessere» con tanto di sezioni locali, federazioni provinciali, congressini periferici e un congressone periodico dove spartirsi le poltrone e stabilire giochi e giochini. E siccome il «partito delle tessere» non ci sarà mai, perché disgusta il Cavaliere, fatalmente i colonnelli e gli appuntati del presidente della Camera se ne andranno per conto proprio e fonderanno qualcosa di nuovo, ignoriamo cosa, forse una bella o brutta copia di An. Particolari ininfluenti. Il dato che comunque emerge dal dibattitone organizzato dal Secolo è il seguente: o Berlusconi smette di fare il Berlusconi, e si adatta alle logiche dei partiti classici, ottocenteschi, oppure sarà scissione. Tertium non datur. Poiché è scontato che Silvio non accetterà mai di diventare un uomo politico vecchia maniera, non avendone le caratteristiche, dobbiamo allora ipotizzare che sia imminente una frattura nel Pdl. A questo punto, i finiani mi consentano alcune considerazioni elementari e alcune domande magari solo retoriche. Assodato che la personalità del Cavaliere non ha nulla di misterioso; accertato che sapevate bene quanto il suo partito gli somigli perché egli lo ha creato a propria immagine, come mai vi siete avventurati in un burrascoso matrimonio politico con Forza Italia? Non ditemi che vi eravate illusi di impadronirvi del Pdl e dilavare il cervello a Berlusconi. Non ci credo. Potevate rimanere nella casetta ex fascista e offrire una collaborazione alla maggioranza, come sempre avevate fatto da buoni coinquilini. Era ingenuo pensare di stravolgere le abitudini consolidate di Forza Italia, nella quale vigeva (e vige ancora tra gli azzurri) un galateo imprescindibile: prima norma, «per fortuna che Silvio c'è». Le altre regole sono coerenti con quella citata. L'importante è che il capo non si stanchi di andare in giro a raccogliere voti, perché nessuno è bravo quanto lui a farsene dare dagli italiani. Se al posto suo va in giro Bocchino, o lo stesso Fini, il Pd] precipita all'opposizione e addio poltrone per tutti. Il Pdl funziona perché non è un partito ma un contorno, il contorno di Berlusconi. Se togli lui dal timone, più che una barca restano il guscio di una noce e una ciurma allo sbando. Il premier ne è consapevole, quindi ai suoi uomini chiede solo di dargli una mano in sala macchine. Non ha bisogno di apparati burocratici, di una folta gerarchia, ma di gente fidata e moderata, anche nei furti. È inevitabile che qualcuno rubi, ma senza esagerare. Il successo di Forza Italia e del Pdl discende dal carisma del leader. Piaccia o no, è così. Nessuno quando si reca al seggio per le politiche cerca il nome di Verdini (con rispetto parlando) o di Scajola (parlandone da vivo). L'elettore dispiega la scheda, legge il nome di Berlusconi e lì traccia la croce. Perché il Cavaliere dovrebbe modificare l'assetto e le strutture di un partito che stravince? Per fare contenti Fini e la sua nuova fiamma, intesa come signora Tulliani? Per dare soddisfazione a Bocchino? Non c'è neppure ragione che il premier si affanni per identificare un delfino da preparare al trono. Da quando in qua uno - si senta o non si senta immortale - si preoccupa di cosa accadrà dopo di lui? Ci sarà il diluvio? E chissenefrega. Provvederanno i sopravvissuti a risolvere il problema. In politica il capo è frutto di una selezione naturale. Il presidente della Camera freme dal desiderio di essere il numero uno? Amen. Dimostri intanto di essere degno del secondo gradino. Uffa, quanta fretta. Tutti voi aspirate a un seggiolone più alto? Meritatevelo, anziché remare contro per imporre i vostri valori, tra cui è invisibile quello della lealtà. Non ce la fate a resistere in panchina? Andate. Andate in pace. E che la pantomima sia finita.


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