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Le vedove nere cecene storia di una catastrofe

• da La Repubblica del 8 settembre 2004, pag. 45

di Adriano Sofri

Ecco che tutti si sono messi in cerca dell’Islam moderato. Col lanternino, perché quasi ciascuno dice che ci sia, dove sia nessuno lo sa. Neanch’io, ma mi pare di sapere che cosa sia il suo più prezioso equivalente, e dove sia. Dove fosse, piuttosto. Era nell’Afghanistan monarchico, prima. In Bosnia, prima. In Cecenia, ancora poco fa. È in Turchia, chissà se ancora abbastanza a lungo da scuotere le pensose autorità europee. È in Iran, ancora mimetizzato dai chador. È nelle donne che vanno a testa alta nelle strade di Algeri, in Khalida Messaoudi che l’ha tenuta alta anche nei giorni delle teste mozzate, e ora si è compromessa, secondo gli schizzinosi, andando al governo. A meno che si intenda quel pugno di personalità intellettuali laiche e anche religiose che aspirano a una riforma della loro legge e della loro fede e pagano con la galera un amore per la libertà, e meriterebbero di diventare i nostri eroi, a meno di quelle testimonianze inermi, l´Islam moderato non è che la gente di nascita musulmana che vive prendendosi una libertà personale, di pensare, di parlare, di abbigliarsi e pettinarsi e radersi, di votare, di scegliersi per amore. Questo è l’islam moderato in cui bisogna riconoscersi, oltretutto perché ci assomiglia, assomiglia alla parte migliore di noi. Mentre facciamo chiasso attorno alla fata morgana dell´Islam moderato, quello vero, quel modo di vita e di convivenza, ci scompare sotto gli occhi.

Lo sprofondamento cominciò nell’Iran di Khomeini, che presentò il suo lugubre conto sciita all’occidentalizzazione forzata dei Pahlavi. Poi è continuato, seguendo quell’oscillazione forzata del pendolo. Nell’Afghanistan dei talebani, suscitato dall’invasione sovietica. (Chi ha voglia di ricordare, oggi, che i capi degli indipendentisti ceceni erano in prima fila nell’Armata Rossa in Afghanistan?) Oggi, a Kabul almeno, qualche breccia si è aperta nella grande galera in cui i Taliban avevano sigillato donne e bambini. In Bosnia si lasciò che l’odio razzista e urbicida facesse fuoco così a lungo da spalancare campi di addestramento ed edifici di culto fanatico a Iran, Arabia Saudita e altri disinteressati finanziatori. E non era facile, se si ricordi che riparo della convivialità cosmopolita ed europea era Sarajevo, e che i musulmani di Bosnia sono diversi dai cristiani jugoslavi solo per l’accidente storico di una conversione religiosa. La Cecenia di pochi anni fa vedeva concorrere tre modi di governo sociale: la legge laica dello Stato, la legge patriarcale tradizionale del teip, la legge coranica. L’ultima era la meno influente, e solo qualche maniaco auspicava l’avvento della sharia.

L’Islam ceceno era recente, e messo al servizio di una causa nazionale e anzi transnazionale, come quella dell’autonomia del Caucaso del Nord. Era famosa la Cecenia, nei trattati etnologici, per la diffusione di confraternite iniziatiche dell’islam mistico, la Naqshbandiya, la Qadirya, niente a che fare col wahabismo ? che arriva a far proselitismo coi soldi, assai prima che con la dottrina. Del resto quando arrivavate in Cecenia, e andavate in cerca di sufi adepti di Naqshbandia e di Qadirya, a meno che aveste il fiuto affinato di un vecchio professore di storia delle religioni, stentavate a trovarne le tracce. L’Islam fu richiamato in servizio nella mobilitazione contro l´impero sovietico che si disfaceva, ma il presidente Dudaev sfotteva i neofiti fasciati dalla benda verde mandandoli ad arruolarsi nella marina del Caspio. Nella prima guerra cecena ? la prima di questi dieci anni, che ne hanno ospitate due e ne annunciano una terza - e dopo la sua conclusione, l´islam restò dietro alla rivendicazione nazionale, e gli arabi "afghani" come l´emiro Khattab erano pochi, sopportati dai loro ospiti d’arme, malvisti dagli altri. Alla fine il trentenne Shamil Basaev non sapeva ancora che cosa fare di sé: il più eroico patriota caucasico, il più temuto terrorista mondiale, il presidente della repubblica (primo ministro era già), il mercante di computer, il giocatore d’azzardo coi servizi russi, il contrabbandiere di petrolio, o chissà che altro. L’Islam era solo una delle sue devozioni, e più moderata di altre mondanissime. Assai più laico era Aslan Maskhadov, che era stato, come Jokhar Dudaev, un alto ufficiale sovietico, poi il comandante militare della resistenza antirussa, e nel 1997 il presidente regolarmente eletto della repubblica di Ichkeria. Era invece islamista bigotto, e legato a quei paesi del Golfo dove l’anno scorso i sicari di Mosca l’hanno assassinato, Zelimkhan Jandarbiev, e fu battuto di gran lunga nelle elezioni.

La svolta venne nel 1999, quando Basaev e Khattab compirono la grottesca invasione del confinante Daghestan, isolata dentro quel paese, che è il più straordinario crogiolo di popoli e lingue al mondo, e conclusa di lì a poco con una ovvia disfatta. Fu il segnale che aspettavano il Cremlino e il delfino Putin, e i capi militari russi umiliati dalla sconfitta e decisi comunque alla vendetta. Da allora Basaev ha cessato di essere il redivivo Shamil, l’eroe della sua gente, e l’ha presa sempre più in ostaggio delle proprie gesta oltranziste. La sua gente, e i capi più prudenti, compreso Maskhadov, ostile al terrore contro i civili, desideroso di un negoziato e, da un certo momento in poi, di un’interposizione internazionale che disarmasse ambedue le parti, rinviando sine die la questione dell’indipendenza.

Mi è difficile ricapitolare la storia di una catastrofe, con l´animo dell´aderente alla minuscola e sempre più disperata confraternita dei difensori europei della vita e della dignità dei ceceni, frustrate Cassandre. Il distratto ascolto pubblico tende ad attribuire a questi pazzi di Cecenia una faziosità o una intransigenza che sono da loro lontanissime. E non solo perché amano la Russia. Essi sono realisti, misurati. Vladimir Putin ha messo insieme nel suo pugno forte l’eredità dello zar e quella del Kgb; ha costruito sulla sfida dell’annientamento della Cecenia la sua ascesa; ha manomesso televisione e stampa libere con i metodi più spicci (anche a non voler considerare la sequela di assassinii di giornalisti indipendenti); ha espropriato con gli stessi metodi la concorrenza degli oligarchi; ha imposto in Cecenia elezioni e referendum farseschi. Tuttavia Putin è il presidente della Federazione Russa (anche dei ceceni, sapete). Dopo la trionfale rielezione, non aveva più avversari che potessero fargli ombra: e perfino questa sua onnipotenza ha indotto noi, i pazzi per la Cecenia, e forse lo stesso Maskhadov, a sperare che Putin aprisse finalmente una trattativa nella quale non aveva niente da perdere, e tutti avrebbero guadagnato la fine della carneficina quotidiana di ceceni e di russi.

Non è successo, al contrario. L’abietta impresa di Beslan ha messo una pietra sopra ogni spiraglio di umanità. Ma già prima la speranza in un negoziato che isolasse Basaev era morta. Putin ha voluto rinnovare l’investimento nelle milizie squadriste di Ramzan Khadirov e in un nuovo presidente filorusso, Alu Alchanov, il quale si è premurato di dichiarare una guerra senza quartiere a Maskhadov, tornato nella morsa degli attentati di Basaev, e rassegnato a dare l´addio alla proposta di smobilitazione controllata dall’Onu. La proposta era stata sostenuta dai radicali e specialmente da Olivier Dupuis, e da adesioni significative nel parlamento europeo, benché del tutto inadeguate alla sua ambizione. Eppure, provate a ripensare, dopo che Beslan ha spalancato l’inferno del Caucaso davanti agli occhi del pubblico, all´importanza di episodi e segni che rimasero pressoché inosservati. Membri del governo Maskhadov in esilio, da lui autorizzati, come il ministro degli esteri, Ilias Akhmadov, o della sanità, il medico Umar Khambiev, che si pronunciano in favore della nonviolenza anche dove la resistenza armata sia legittimata dall´occupazione di una potenza militare schiacciante. Manifestazioni toccanti, come la partecipazione a un digiuno per l’ingresso delle donne nel governo provvisorio afghano da parte di civili ceceni profughi nei tristissimi campi dell’Inguscezia. Episodi di rottura aperta fra Maskhadov e Basaev. Segnali come questi avrebbero potuto eccitare la commozione e la premura dell’opinione e delle autorità europee, per non dire delle Nazioni Unite, così dolorosamente chiamate in soccorso. Non è avvenuto.

Si dice che la compiacenza verso Putin, così spericolata nel nostro Berlusconi, spieghi questa ottusità, nemmeno incrinata dall’evidenza di un genocidio. È vero, ma temo che prima ancora ci sia una più gratuita distrazione, l’abitudine a voltare la testa dall’altra parte, delle persone e delle autorità: ora una mano assassina ce l´ha afferrata, la testa, e ce l’ha schiacciata dentro il sangue degli scolari e delle madri e delle maestre di Beslan, e non ce la facciamo a tenere gli occhi aperti. I radicali hanno idee grandiose e forze poche: bisognerebbe prenderli sul serio, quando la loro sola disponibilità induce genti guerriere per tradizione antica, ma finalmente stanche di guerra, e consapevoli dell’impossibilità di vincere con le armi, a cercare un’altra strada. E´ successo con i ceceni, e anche con gli uiguri del Xinjiang cinesizzato, con i Montagnards vietnamiti, con altre minoranze combattive e spossate. La nonviolenza, che è la più difficile e strenua delle forme di vita e di lotta, non è autosufficiente: non lo è neanche, e Gandhi lo sapeva, rispetto al ricorso alla forza. Può farne a meno a condizione di cercarsi alleati non per calcolo militare o economico, ma per la solidarietà nella buona ragione. Senza il sostegno internazionale, e in particolare europeo (il Caucaso è la culla dell’Europa), la nonviolenza, che è la più ardua delle rivoluzioni dovunque, e tanto più in un piccolo e maschio paese di fieri guerrieri, è una irrisoria chimera. Ci vuole un’audacia senza pari per pronunciare dalla Cecenia dei signori della guerra, dei teip rivali, dell’odio antirusso, le parole del disarmo, della trattativa, del rispetto per i civili, della nonviolenza. Alcuni fra i capi ceceni lo ebbero, e non per un breve momento. Putin continuò a chiamarli terroristi e sgherri di Al Qaeda: ridicola pretesa, che gli serviva a esigere l’appoggio del mondo intero, nel momento stesso in cui dichiarava la Cecenia un suo geloso affare interno, suo e dei suoi mercenari e torturatori.

Nella minuscola e desolata confraternita di pazzi della Cecenia, ebbi da tempo una speranza ancora più disperata. Ero persuaso che la trattativa non si sarebbe aperta, schiacciata fra il terrorismo ceceno, ormai travestito dal jihad islamista, l’oltranzismo gangsteristico dei capi militari russi, l’indifferenza e il cinismo dell’Occidente. Oltretutto, la leggendaria unità cecena di fronte al secolare nemico russo era andata in pezzi. I resistenti moderati, come Maskhadov, sarebbero stati ributtati continuamente in braccio agli estremisti, che hanno dalla loro il vantaggio della spavalderia militare e della sfrenatezza morale, così da isolarsi dalla gente ma da sedurre le reclute sempre più giovani ed esasperate. Mi ero convinto che in Cecenia bisognasse sperare in una società civile pressoché inesistente, perché i superstiti di quel popolo decimato sono un volgo disperso senza nome e senza voce. Una società civile, in quella patria del valor militare, vuol dire una società femminile. Le donne cecene sono piegate a un regime patriarcale rigido, sul quale l’islamismo ha impresso un violento giro di vite. Ma sono fiere, colte e capaci di una forte libertà. Obbediscono ai loro uomini ? fin dai figli maschi neanche adolescenti - ma non con una sottomissione servile, bensì con una misteriosa superiorità, la docilità amorevole di sorelle e mogli e madri che sanno come gli uomini di tutte le età siano infantili e prepotenti, e non ci si può far niente: scherzarci su nelle cucine da cui i maschi restano fuori. Nei campi dei rifugiati, nelle cantine rovinate delle città, nelle case assediate dai sequestratori e dai razziatori, le donne vedono il consumarsi di una follia: a loro è riservata la debolezza del pianto, ma anche l’intelligenza delle cose. Gli uomini fanno la guerra. Se qualcuno ? l’Occidente, l’Europa, i volontari, gli amanti della pace, le madri russe - trovasse il modo di dare la parola alle donne cecene, ne troverebbe una capace di gridare su quel campo di rovine: "È tutta una pazzia", e mostrare il re nudo. Lo so, non succede. Vedo che cosa succede: un mondo che uccide i bambini ogni giorno, ma lo mette nel conto dei danni collaterali, ed ecco che passa a sterminare i bambini prendendo bene la mira. Non è successo che la sapienza e il coraggio delle donne cecene abbia trovato un altoparlante in cui gridare: "È tutta una pazzia". È successo, invece, che alcune tra loro abbiano preso un posto di nero spicco, cinte di esplosivo, spesso orfane o vedove o orbate di fratelli e figli, a volte incinte, e ora infine assassine suicide di bambini al primo giorno di scuola. Così le donne hanno reclamato la loro lugubre parte in tragedia. Oppure, bandite per aver subito l’onta dello stupro russo, sono mandate a purificarsene nella strage suicida.

Ci riguarda? Non ricordo una sola frase che l’Europa abbia saputo indirizzare alla gente cecena inerme, quando era sterminata, torturata, deportata, stuprata. Adesso possiamo lavarcene le mani. Possiamo dire che ormai è troppo tardi. Le donne cecene, erano loro l’Islam moderato, prima che se ne parlasse tanto. Adesso le donne cecene sono note al mondo come ragni spaventosi, vedove nere.



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