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Donne mutilate, l'urlo di rabbia della miss nera
Waris Dirie: tutti i leader africani devono intervenire per fermare questo scempio

• da La Stampa del 18 settembre 2004, pag. 12

di Antonella Rampino

Uno scatto a colori, ma con sofisticato effetto black and white del calendario Pirelli 1995 edizione Terence Donovan. Un ruolo con Bond, James Bond versione Timothy Dalton. Poi la girl delle pellicole d'azione scrive una storia, la sua storia, ed Elton John le chiede di girarne un film. Le strade di New York tappezzate col suo profilo fiero e sottile, testimonial per anni delle linee Revlon dedicate alla black beauty. E poi, naturalmente, Vogue, Harper's Bazaar, Milano e Parigi in passerella.

Della sua vecchia vita, che appena dieci anni fa era per lei sorprendente e nuovissima, adesso che ha fondato un'associazione per i diritti delle donne d'Africa ed è "ambasciatrice di buona volontà" per le Nazioni Unite, restano tracce scarne ma inequivocabili. Gira col manager e la segretaria, che dicono capricciosi, ma la diva residuale che è in lei vien fuori quando la National, la più importante radio keniota, le accomoda il microfono sul coffee table, e istintivamente si tira su il colletto del vestitino di plumetis blu, che addosso a chiunque sembrerebbe uno straccetto, su di lei sembra tagliato da Saint Laurent. Waris Dirie è anche la dimostrazione che non è vero che "la rabbia è di un'altra razza", come per le molte altre africane che pure s'impegnano nella battaglia politica per i loro diritti, ma mantengono un atteggiamento dolce, se non sottomesso. L'orgoglio di Waris è una forma di "black pride", orgoglio nero: "Dove sono i leader africani, davanti al problema delle mutilazioni genitali femminili?".

La rabbia ha incisività tutta occidentale: "Se Dio avesse ritenuto che alcune parti del mio corpo erano inutili, perché le avrebbe create?". Oggi l'ex modella avrà 35 o 40 anni, inutile chiederglielo: non solo l'apparenza è giovanile, è che non vuol ricordarsi di sé, nemmeno di essere somala: "Io sono africana, e tanto basta". Waris Dirie è stata la prima donna approdata dal Terzo al Primo mondo a rivelare quel che lei, come tutte le donne che sono state sessualmente mutilate da bambine, non vorrebbe neppure raccontare a se stessa. Una testimonianza d'orgoglio che, poco meno di dieci anni fa, sollevò la cortina di silenzio. L'ostacolo numero uno delle mutilazioni femminili è che le donne non ne parlano. Lei lo fece col massimo clamore e con la massima discrezione possibile: scrivendo un libro che fu tradotto in 14 lingue. Raccontava la sua storia: "Sono stata circoncisa da una mammana quando avevo 5 anni. A 12 mio padre cercò di farmi sposare, in cambio di cinque cammelli, a uno straniero sessantenne. Attraversando da sola il deserto sono fuggita e ho raggiunto Mogadiscio, dove viveva una mia sorella, scappata anche lei alla medesima situazione. Non sapevo come vivere: ma lì avevo uno zio, che ha accettato di prendermi in casa, in cambio di pesanti lavori domestici. Quello zio mi passò poi a un altro zio, che mi richiedeva come cameriera perché ero diventata abbastanza brava: quando questi si trasferì a Londra, mi portò con sé. A Londra fu facile trovare un lavoro da Mac Donald's, e mettere da parte i soldi per affrontare un'operazione che mi togliesse almeno i forti dolori che avevo dall'età delle prime mestruazioni".

Waris è giovane, e molto bella, molto determinata: il salto nel mondo rutilante della moda, negli anni Novanta in cui le bellezza nere diventano trendy, le cambia la vita. Ma da allora e sempre lei porta sul volto una tragedia personale che è la stessa di 135 milioni di donne nel mondo. Sorride poco, si sottrae alle domande, scivola via davanti alle macchine fotografiche. Ma ha la forza di salire su un palco, a Nairobi per la Conferenza internazionale sulle mutilazioni genitali femminili convocata con l'aiuto di Unione Europea, Unicef, Open Society di George Soros, governo norvegese, Cooperazione italiana. "I have a dream", ho un sogno, dice Waris con l'orgoglio che aveva Martin Luther King: "Che tutti i leader africani decidano di mettere fine a questa pratica immonda, firmando il protocollo di Maputo, impegnandosi a proibire per legge le mutilazioni genitali femminili. E che questo sia solo il primo passo: in molti paesi della nostra Africa alle donne è impedito di esercitare i diritti fondamentali. Secondo la Banca Mondiale le africane producono l'80% e svolgono il 90% del lavoro ma in molti Paesi del continente non solo non hanno il diritto di voto ma non hanno nemmeno il diritto di proprietà, e usufruiscono solo del 5% delle ricchezze che pure la loro terra produce".



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