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"Al patibolo insieme alla verità"

• da La Stampa del 21 febbraio 2007, pag. 16

di Vinod K. Jose

Mohammad Afzal Guru, musulmano del Kashmir, è il principale accusato dell’attentato al Parlamento indiano del 2001. Nel 2004 la Corte suprema indiana l’ha condannato a morte. La sentenza, fissata per il 20 ottobre 2006, è sospesa in attesa dell’esito della richiesta di grazia inoltrata dalla famiglia. È detenuto nella Tihar Central Prison di Delhi. Un uomo sulla trentina, piccolo, molto dignitoso nel suo kurta bianco.

Di lei sono state date molte immagini, contraddittorie.
«C’è un solo Azfal. Sono stato un giovane idealista, un kashmiro influenzato, come tanti, dal clima politico dei primi Anni ‘90 e iscritto al JKLF (Jammu Kashmir Liberation Front). Sono passato dall’altra parte del confine (nel Kashmir pakistano n.d.r.) ma ho subito perso le mie illusioni e sono tornato per cercare di condurre una vita normale».

Cosa gliel’ha impedito?
«Non mi è mai stato possibile perché i servizi segreti in innumerevoli occasioni mi hanno preso e torturato senza pietà, con l’elettricità, immergendomi nell’acqua gelata o nel petrolio, soffocandomi con il fumo, in ogni modo insomma, e infine mi hanno messo sotto accusa, senza un processo equo, senza un avvocato, e condannato a morte. Le bugie della polizia sono state diffuse dai mezzi d’informazione. Forse per questo la suprema Corte ha parlato di “coscienza collettiva della nazione”. Per soddisfarla sono stato messo a morte».

Non ha avuto modo di dare la sua versione dell’accaduto?
«Mi chiedo cosa ne possa sapere il mondo di me. Mi è stata data forse la possibilità di parlare? Pensa che sia stata fatta giustizia? Le piace l’idea di impiccare una persona senza nemmeno dargli un avvocato difensore? O un processo equo? Questa non è democrazia, non crede?».

Come è stata la sua vita, prima di quest’accusa?
«Sono cresciuto in un periodo turbolento. Il popolo del Kashmir aveva deciso di affrontare la battaglia elettorale per risolvere la controversia sul destino della regione con mezzi pacifici. Si formò il Muf (Muslim united front, Fronte musulmano unitario) per rappresentare i musulmani kashmiri. Il governo di Delhi ne fu così allarmato da intervenire con violenza inusitata. I leader che si erano presentati al voto e avevano vinto con ampio margine furono arrestati, umiliati e incarcerati. Solo dopo tutto ciò hanno chiamato alla resistenza armata. Risposero migliaia di giovani».

Anche lei.
«Lasciai gli studi di medicina al Jhelum Valley Medical College di Srinagar e passai il confine. Solo per constatare che i politici pakistani nei confronti del Kashmir si comportavano esattamente come quelli indiani. Sono tornato indietro dopo poche settimane e mi sono consegnato, ho i documenti che lo dimostrano».

Aveva rinunciato alla lotta?
«Cominciavo una nuova vita: non potendo più fare il medico, divenni commerciante di attrezzatura chirurgica. Con i primi guadagni comprai un motorino e mi sposai. Ma non mi lasciavano in pace, nemmeno un giorno. Se c’era un attacco in qualsiasi parte del Kashmir arrestavano i civili e li torturavano a sangue. Per me, ex guerrigliero, era anche peggio. Ci tenevano in carcere per settimane, ci minacciavano con false accuse. Per tornare liberi dovevamo pagare. È capitato molte volte».

È stato torturato?
«Il maggiore Ram Mohan Roy del 22° Rashtriya Rifles mi ha bruciato i genitali con la corrente elettrica, spesso ho dovuto pulire le latrine del campo con i miei indumenti. Una volta ho dovuto dare tutto ciò che avevo per sfuggire al campo di tortura di Humhama. I capi erano D.S.P. Vinay Gupta e D.S.P. Davinder Singh. L’ispettore Shanty Singh, uno dei loro “esperti” mi ha tormentato per tre ore con l’elettricità, finché non ho accettato di pagare 100 mila rupie. Mia moglie ha dovuto vendere i suoi gioielli e il mio motorino. Ne sono uscito distrutto nel fisco, nella psiche e nelle finanze. Sono rimasto chiuso in casa per sei mesi, non stavo in piedi. Ho dovuto curarmi a lungo per tornare a un minimo di normalità…».

Veniamo all’attacco al Parlamento. Come è andata?
«Avevo imparato la lezione. Quando D.S.P Davinder Singh mi chiese di svolgere un “piccolo incarico” per lui, non pensai d’avere scelta. Mi disse che dovevo accompagnare un uomo a Delhi e trovargli un alloggio. Lo vedevo per la prima volta, ma, poiché non parlava kashmiri sospettai fosse un outsider. Mi disse di chiamarsi Mohammad (è stato poi identificato dalla polizia come l’uomo che guidò il commando di 5 uomini che attaccò il Parlamento. Vennero tutti uccisi dalle forze di sicurezza). A Delhi Mohammad e io ricevevamo molte telefonate da Davinder Singh. Avevo anche notato che andava a trovare diverse persone in città. Poi, dopo aver comprato un’auto, mi disse che potevo andarmene e mi regalò 35 mila rupie. Tornai in Kashmir per la festività di Eid. Stavo partendo da Srinagar in autobus quando fui arrestato, portato alla stazione di Parimpora e da lì al quartier generale della sicurezza e da lì a Delhi. Sotto tortura, dissi loro tutto ciò che sapevo su Mohammad».

Perché ha confessato?
«Insistevano che a organizzare l’attacco eravamo stati io, mio cugino Shaukat, sua moglie Navjot e S.A.R. Geelani. Volevano che lo dicessi in modo convincente ai media. Ho resistito. Ma potevo solo urlare quando mi dicevano che la mia famiglia era nelle loro mani e minacciavano di sterminarla. Sono stato costretto a firmare una confessione in bianco e ad ammettere pubblicamente la responsabilità dell’attacco, ripetendo quello che mi aveva dettato la polizia. Quando un giornalista mi chiese di Geelani risposi che era innocente. A.C.P. Rajbeer Singh mi redarguì davanti a tutti per questo. Erano sconvolti perché non avevo rispettato il copione: Rajbeer Singh chiese ai giornalisti di ignorare la risposta sull’innocenza di Geelani. Il giorno dopo mi concesse di parlare con mia moglie. Poi mi disse che se volevo rivederla viva dovevo collaborare. Accettare le accuse era l’unico modo: mi promisero che avrebbero alleggerito la mia posizione così dopo un po’ sarei stato rilasciato. Mi portarono in giro, a vedere i mercati dove Mohammad aveva acquistato diverse cose: creavano le prove. La polizia ha fatto di me un capro espiatorio per nascondere il suo fallimento, hanno imbrogliato tutti. A incastrarmi sono state la task force speciale del Kashmir e la polizia di Delhi. I media hanno fatto da cassa di risonanza, gli ufficiali sono stati premiati e io condannato a morte. Sono in isolamento. Esco di cella solo mezz’ora al giorno. Niente radio, niente tv. Anche il giornale mi arriva tutto strappato, per via della censura».


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