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Giorello Giulio - 31 dicembre 1987
Europa: un vuoto da riempire
di Giulio Giorello

SOMMARIO: La creazione di una dimensione politica trasnazionale è sollecitata dalla necessità di riempire il vuoto europeo e cioè l'incapacità dell'Europa comunitaria d'incidere nelle grandi questioni che scuotono il nostro pianeta. (Notizie Radicali n· 302 del 31 dicembre 1987)

Penso che molte delle cose che avrei detto sono già state espresse molto bene da chi mi ha preceduto. Quindi vorrei limitarmi ad un ordine di considerazioni che tocca il tema -che è già emerso- della contrapposizione tra ciò che è locale e ciò che è globale, tra ciò che è la realtà del nostro ambiente circostante (in senso proprio, quasi fisico), e strutture più amplie e maggiormente articolate. Mi sembra che la proposta del documento che voi avete ricevuto (quella di L. Strik Lievers) e lo stesso tema di questo nostro incontro colgano un'occasione molto precisa, cadano in un momento particolarmente significativo, a pochi giorni dal »grande incontro tra Stai Uniti e Unione Sovietica di cui si è parlato, e, anche, dopo che le prime retoriche hanno ceduto ad una valutazione più calma e più adeguata degli eventi. Dico questo perché qualcuno ha avuto -direi giustamente- la buona occasione di richiamare come si collochi, tra le strategie di gestione mondiale, (sia degli Stati Uniti che dell'Unione Sovietica), qu

ello che -appunto- è il »vuoto europeo . Vuoto che, quasi per legge fisica, rischia sempre di essere inglobato nell'una o nell'altra compagine. Lo denunciava, secondo me in maniera molto coraggiosa, -anche se io non condivido il suo quadro concettuale- recentemente, in un articolo, Augusto Del Noce. Mentre altri hanno messo in luce (mi pare Gilas in un intervento) quanta ambiguità ci sia ancora, anche in questi grandi nuclei di primi accordi internazionali, soprattutto quando una delle due potenze in campo gioca sul doppio ruolo, da una parte di rappresentante del movimento operaio (quindi di portatrice dei valori del movimento operaio) e, dall'altra, invece, di protagonista di una politica imperialista di grande potenza (che non è certo venuta meno con l'avvento di Michail Gorbaciov); una politica che non è venuta meno con questi tentativi di ristrutturazione, perché sono sempre ristrutturazioni in cui manca il rispetto della democrazia politica. Questo punto mi sembrava importante ricordarlo proprio in un

mondo che va scoprendo (o che va acquisendo) quella che io chiamo »l'esperienza della non linearità della crescita , cioè il fatto che molti dei processi sociali, economici, scientifici con cui abbiamo a che fare sono processi non lineari; voglio dire processi in cui piccoli cambiamenti iniziali possono avere conseguenze grandi e incontrollabili, e, viceversa, certe ingegnerie di intervento possono, per piccole fluttuazioni, rivelarsi completamente inadeguate e quindi inutili. Abbiamo avuto negli ultimi tempi molti tangibili esempi di che cosa siano la non linearità della crescita, i limiti del cosiddetto »progresso , le conseguenze perverse dell'innovazione tecnologica. Non parlo solo di Chernobyl che ne fu ovviamente un esempio molto chiaro. Proprio questi problemi -non linearità dello sviluppo, difficoltà quindi di previsioni razionali, e pericoli della stessa azione efficace (cioè pericoli insiti nella stessa riuscita di una tecnologia avanzata)- sono stati richiamati autorevolmente in modo significativo

da Karol Woytyla, per esempio, in un discorso del 25 marzo '87, a vent'anni dalla »Populorum progressio , quindi a vent'anni da un documento in cui si esprimeva un tutt'altro modo di concettualizzare la modernità, le sue dinamiche e i suoi conflitti interni ed esterni. Conflitti interni ed esterni perché, se da una parte basta guardare all'impresa scientifica e all'aspetto soprattutto tecnologico (quindi dell'innovazione tecnico-sociale) per rendersi conto della complessità dei processi -e qui complessità ha un senso ben preciso, come dicevo prima, il senso di processi non ben controllabili per il loro carattere non lineare e per le loro conseguenze perverse- dall'altra, esiste l'altro asse che è stato richiamato prima da Manconi, l'asse nord-sud. Assistiamo oggi ad una serie di reazioni alla modernità, che sono reazioni di grandi maggioranze o di interi popoli e che creano quelle che una volta -con un linguaggio forse adesso desueto- si chiamavano contraddizioni molto gravi. Io parlerei, piuttosto, di tens

ioni che si incanalano secondo linee di separazione che aprono processi, anche qui, di difficile controllo. Faccio subito un esempio: il tentativo di acquisire le tecnologie dell'occidente, senza acquisire quel tipo di valori che hanno interagito con la crescita tecnologica dell'occidente, che si configura -come in casi recenti- come acquisto di tecnologia bellica (il caso della guerra Iran-Iraq insegna). Ci sono altri casi di questo genere che, appunto, ci devono far pensare che le democrazie dell'occidente sono in qualche modo un'isola in conflitto, come dicevo prima, o in tensione con larghe maggioranze escluse dai processi di modernizzazione e da quella stessa revisione della modernizzazione che adesso la sociologia etichetta con il termine di post-modernismo o post-industrialismo. E senza contare che, oltre le maggioranze di estranei all'esterno, esistono anche numerose minoranze all'interno, negli stessi paesi europei, nei paesi ad alto sviluppo industriale; ci rendiamo conto -e pace per certi schemi i

nterpretativi di carattere sociologico, filosofico o filosofico-politico, pace cioè agli schemi di Weber o agli schemi di Karl Marx- che elementi di frattura, per esempio, etnico-linguistica, di recupero di tradizioni, di rimando a scenari religiosi o di altro tipo, producono -diciamo così- l'effetto di amplificazione in quelle minoranze che sono state sacrificate dal processo di modernizzazione. Strik Lievers evocava prima il caso di questi stati nazionali europei (che forse è meglio chiamare »regionali , non foss'altro di fronte ad aggregazioni ed esperienze più ampie, come possono essere, per certi aspetti, sia l'Unione Sovietica che gli Stati Uniti), che la formazione di questi »Stati regionali , e fortemente centralizzati, ha comportato una serie di emarginazioni che oggi riemergono spesso in modo drammatico: è inutile versare delle lacrime di commozione ipocrita sulle vittime dell'esercito di liberazione irlandese o dell'Eta o di altri movimenti che usano lo strumento della lotta armata e della violenz

a politica per affermare i loro diritti e dimenticare, nello stesso tempo, che cosa ha significato, per varie popolazioni e per varie minoranze, la creazione di questi stati moderni di cui ancora qualche decennio fa il pensiero politico europeo andava così fiero. Chi non ha letto sui manuali, chi non ha succhiato -diciamo così- col latte della mamma, questa idea che lo Stato è uno dei momenti più alti di eticità? Abbiamo dunque a che fare con processi, che chiamavo prima non lineari, che vanno dai conflitti locali, i quali possono avere però delle conseguenze, sul lungo periodo, molto pesanti anche per sistemi che sono soprattutto sistemi democratici, alla complessità delle sfide che vengono ai paesi europei da altri paesi (appunto Manconi prima richiamava la tensione nord-sud come elemento significativo), e che dovrebbero farci riflettere sul fatto che le aspirazioni -come vogliamo chiamarle?- a trattare gli uomini come portatori di valori, e quindi a rispettare l'altro in quanto portatore di valore (se vog

liamo essere nella grande tradizione kantiana che Maffettone evocava prima), o il cercare di tradurre le indicazioni di un'etica pubblica in mosse di ingegneria istituzionale -se vogliamo scendere più sul concreto- difficilmente oggi si potrebbero staccare da queste interazioni tra locale e globale di cui parlavo prima. Pensiamo a problemi che sono stati evocati qui, come quello delle rappresentanze (o delle cittadinanze), quello della solidarietà (che è stato uno dei più grandi problemi sentiti dal Pr, non foss'altro, ma non solo, nella campagna contro lo sterminio per fame), o tutti i problemi legati all'ambiente e alla sua conservazione. Se un problema, per esempio, di riforma elettorale difficilmente si può trattare senza il confronto con altre istituzioni europee, lo stesso in altri termini si può dire per molti problemi di solidarietà che toccano aspetti concretissimi (per esempio: che cosa significa una tassazione ottimale, una tassazione equa?), oppure relativi alla conservazione e difesa dell'ambien

te. Problemi di quest'ordine difficilmente si possono trattare in un ambito che non sia almeno europeo, anche proprio per considerazioni banali: se mettono una centrale nucleare a pochi chilometri dal confine italiano, in Francia ad esempio, e se l'informazione sulle centrali viene gestita in modi diversi dallo Stato francese e dallo Stato italiano (non foss'altro perché nella politica francese il nucleare civile è molto meno staccato dallo sviluppo delle tecnologie militari di quanto sia, invece, nel nostro paese), è abbastanza ovvio che noi, comunque, rimaniamo coinvolti, perché è ben noto che gli atomi non sanno bene che cosa sia una frontiera, e quindi tendono a migrare con una certa velocità da un confine all'altro. Con questo vorrei dire, quindi, che i temi di controllo emersi in questo primo giro di opinioni sono temi che, necessariamente, hanno un aspetto transnazionale, proprio per la inadeguatezza o la chiusura del restare dentro -intellettualmente- nei propri confini, in un mondo in cui tecnologia

e scienza sono ormai, per definizione, delle costruzioni, in cui l'aspetto, l'apporto multinazionale o plurinazionale, nel bene o nel male, è più che evidente. Vorrei aggiungere un'ultima considerazione che riprende alcune delle cose che Strik Lievers aveva detto all'inizio presentando il documento. Un primo punto (che io ho trovato molto rispondente alle stesse ragioni personali che mi spinsero, al momento della campagna per salvare il Pr, ad aderirvi) è proprio l'attenzione alla violazione dei diritti o degli individui, o dei gruppi, o delle tradizioni che il Pr ha sempre fortemente tenuta viva nella sua storia soprattutto recente, e che a me sembra un elemento importante. Diceva Strik Lievers che non c'è solo il totalitarismo o i paesi a struttura decisamente o chiaramente totalitaria. Una lunga tradizione di pensiero (dal cattolico Pascal fino all'ebreo americano Michael Walzer) ha mostrato che la tirannia è ben più diffusa di quelle che sono le strutture totalitarie in senso stretto, poiché essa si ma

nifesta ogni volta che un individuo, un gruppo, una tradizione, occupa posizioni che non gli competono in una data sfera di attività, di beni, di risorse, sfruttando eccellenze, per altro legittime in altra sfera. Se questa definizione di tirannia funziona, è abbastanza semplice riconoscere che la partitocrazia attuale in Italia è una forma specifica e molto soffocante di tirannia. Lo constatiamo nel campo dell'informazione, nel campo dell'educazione nelle scuole, direi giorno per giorno nella nostra vita quotidiana. Ecco, allora io penso che la proposta - o almeno lo spirito sottostante alla proposta formulata in quel documento- di collegare la difesa dei diritti degli individui, delle tradizioni e del rispetto della loro diversità, con la flessibilità maggiore di strutture di respiro non solo italiano ma transnazionale (perlomeno europeo) sia un elemento estremamente importante. Lo sarebbe, secondo me, anche e proprio nel tentativo di costituire delle strutture difensive contro le troppe forme di tirannia

di cui si parlava precedentemente. Con un ultimo, ulteriore, vantaggio: quello di cominciare a riempire -o almeno di sforzarsi di riempire- il vuoto europeo di cui si diceva prima: se si ha paura che l'Europa sia al tramonto, nell'epoca dei grandi sistemi, bisognerebbe ricordarsi che questo è, innanzitutto, responsabilità degli europei stessi, cui si richiede, per prima cosa, una revisione dei propri quadri concettuali e del modo di concettualizzare il proprio ruolo nelle sfide che, appunto, la società è oggi chiamata ad affrontare. Una di queste sfide l'aveva già toccata Maffettone quando parlava della contrapposizione tra ordinamenti giuridici interni di una compagine nazionale e la cosiddetta anarchia internazionale. Un'altra sfida, secondo me non minore, è proprio quella del nostro molteplice, multiforme atteggiamento nei confronti della »invadenza della sfera scientifica in molti dei nostri comportamenti quotidiani, e delle conseguenze che chiamavo prima inaspettate e perverse della stessa innovazione

tecnologica, dove la difficoltà maggiore sembra proprio quella di riuscire a disporre non di una soluzione o di una previsione (perché si può oscillare tra le previsioni ottimistiche e quelle pessimistiche: pensare che si va all'esaurimento completo delle risorse come sosteneva il Club di Roma, oppure, invece, ritornare a forme di neo ottimismo), ma i l problema in realtà è quello di riuscire a muoversi secondo strategie flessibili nelle quali, appunto, l'abbandono di ogni ipotesi permetta il recupero degli investimenti fatti, proprio tenendo conto delle difficoltà delle situazione che chiamavo prima non lineari. Molte altre di queste sfide si potrebbero tenere presenti e, senza dubbio fa parte di queste sfide anche un tipo di etica, non soltanto nei confronti degli altri uomini, ma degli esseri viventi in senso più ampio; dovremmo guardare oggi con meno sussiego e con meno arie da popolo scettico e smaliziato a quelle tendenze che in altre tradizioni e in altri paesi stanno ora richiamando l'attenzione sui

diritti dell'ambiente, sui diritti dei vegetali e i diritti degli animali, e cioè su quella che John Passmore chiama la nostra responsabilità nei confronti della natura. Consentitemi di terminare (non è una provocazione) con la citazione di una frase a proposito di un grande combattente (ma non è una polemica contro il pacifismo). Quando chiesero al poeta John Milton come mai Oliver Cromwell era riuscito sempre vittorioso, la risposta di Milton fu che la prima vittoria Cromwell l'aveva conseguita su se stesso. Io penso che la prima vittoria che gli europei dovrebbero conseguire è, appunto, su se stessi, per aumentare la propria responsabilità e le proprie capacità di autocontrollo.

 
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