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Boneschi Luca, Oliva Carlo - 3 novembre 1967
Politica anticlericale e diritti civili
Luca Boneschi e Carlo Oliva

SOMMARIO: La battaglia per i diritti civili deve essere in italia innanzitutto battaglia anticlericale, per la difesa di uno stato di diritto non ideologico in cui i rapporti fra i cittadini siano regolati solo dalla legge e non da altri valori. Gli ostacoli al pieno esercizio dei diritti costituzionali e civili: lo "stato di polizia", lo "Stato clericale", lo "Stato corporativo". I nuovi diritti civili.

(Fascicolo per il IV^ Congresso Nazionale del Partito radicale - Firenze 3-5 novembre 1967)

1 - Introduzione

La progressiva sprovincializzazione della nostra società fa nascere anche in Italia, nelle grandi masse lavoratrici, una più moderna ed esigente volontà democratica e laica. Mano a mano si stanno scoprendo agli occhi dei cittadini le tradizioni autoritarie di regime clericale che sorreggono l'attuale regime. Cresce continuamente l'insofferenza di chi si accorge, nella vita di ogni giorno, non meno che nell'attività politica, come i suoi diritti, quei diritti che pure gli sono a parole riconosciuti da tutta la tradizione democratica europea e dalla costituzione italiana, siano in pratica soffocati ed impediti dalla prassi e, troppo spesso, dalla legislazione. Nei rapporti familiari, in quelli di lavoro, nella scuola, ogni volta che si abbia a che fare con i poteri costituiti dello stato (polizia, burocrazia, organismi periferici, e simili), in campo religioso, nel campo dell'espressione e della cultura, esistono norme ed abitudini che rendono l'esercizio dei diritti del cittadino problematico e soggetto ad im

posizioni autoritarie.

Si tratta, come cercheremo di dimostrare, il più delle volte di forme e di abitudini che traggono origine da una concezione non laica dello Stato: in Italia, cioè da una concezione storicamente clericale.

Se originariamente, come ``stato laico'' si intendeva semplicemente ogni stato sottratto nei suoi organi all'ingerenza ecclesiastica, il concetto si è andato evolvendo, per influenza delle dottrine liberali, in quello di uno stato di diritto, non ideologico, che regolava sulla base esclusiva della legge i rapporti tra i cittadini senza imporre loro altri valori che non fossero appunto quello della reciproca convivenza.

In questo senso garantiva ai suoi cittadini soprattutto dei diritti: i diritti storicamente definiti come ``libertà'': di pensiero, di espressione, di stampa, religiosa (quest'ultima molto importante soprattutto perché matrice storica delle altre). Lo stato liberale classico, certo, garantiva tali diritti solo formalmente, senza preoccuparsi di cedere se l'esercizio delle forme de libertà che garantiva fosse storicamente possibile alle grandi masse. Così per popolazione in cui l'analfabetismo era ancora prevalente, la libertà d'espressione o di stampa aveva ben poco valore, così come la libertà di pensiero, di parola, di ricerca scientifica. In condizioni analoghe l'uguaglianza innanzi alla legge diventa una formulazione teorica, la libertà di coscienza e di cultura è praticamente ristretta alle "élites" partecipi dell'evoluzione intellettuale europea.

In tal modo il liberalismo europeo poteva svolgere, e in Italia svolgeva, una pura funzione di classe, non volendo o non sapendo estendere alla totalità dei cittadine il patrimonio ideale che usava soltanto in funzione teorica.

Questo secolo però ha visto un'evoluzione dello stato liberale, che, assumendosi via via i compiti dell'educazione popolare, dell'assistenza generalizzata ai cittadini nei momenti critici della loro vita (infanzia, vecchiaia, malattie eccetera), garantendo, nei limiti via via possibili, l'equità dei rapporti economici, e realizzando almeno alcune forme di ridistribuzione del reddito, eliminava via via questi ostacoli, e si configurava come lo stato in cui tutto potevano godere dei diretti civili.

Tale processo, di cui naturalmente abbiamo dato un'immagine schematica, in Italia, come altrove, fu fortemente condizionato dalla reazione fascista (che non per niente rimette in discussione ``le preoccupazioni della scuola liberale''). Ma se il fascismo, come tale, fu un fenomeno transitorio, e cercò di condizionare questo processo inserendolo in una struttura corporativa dello stato, altrettanto transitoria, non è stata transitoria la sua reale funzione storica: eliminando i presupposti laici dello stato liberale, restituiva possibilità di intervento alle forze clericali: in questo senso, non solo la Conciliazione tra Chiesa e fascismo appare come cosa perfettamente naturale, ma si capisce come allo Stato fascista ne sia successo uno clericale, ancor meno sensibile alle preoccupazioni di cui sopra.

Così se in uno stato moderno rivendicare i diritti civili significa lottare perché le libertà garantite da questi diritti vengano estese effettivamente a tutta la popolazione, in Italia la battaglia da compiere è soprattutto una battaglia anticlericale.

La lotta per i diretti civili in Italia incontra, a volte, come antagonisti, o sopravvivenze della legislazione fascista, o residui della struttura corporativa dello stato, ma l'avversario più forte, più pericoloso è rappresentato dalle forze clericali: Chiesa cattolica, partito confessionale, i suoi alleati e interessati sostenitori.

La costituzione italiana rappresenta, nel contesto storico in cui va inserita, un nobile tentativo di ristabilire, dopo la parentesi fascista, i diritti di libertà. Tentativo, diremmo, che non è rimasto dopo il fascismo, nelle mani dei clericali. L'influenza clericale, anzi, è già presente nella Costituzione, che contiene affermazioni a nostro avviso in contrasto con una concezione laica dello stato. Esse sono (a parte il caso macroscopico dell'articolo 7, su cui ci soffermeremo dopo, insieme all'articolo 8 sulle confessione acattoliche):

- l'articolo 17 in quanto, per i concetti di sicurezza e di incolumità pubblica rimanda alla legge ordinaria, che è rimasta quella fascista (ma pericolosi ci sembrano tutti i rinvii alla legge ordinaria, quando non altrimenti motivati);

- tutti gli articoli che rinviano ad un non meglio specificato ``buon costume'';

- l'art. 29, che riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio (il che è un assurdo logico, oltre che una negazione della libertà sessuale, come vedremo poi) e tutti gli articoli sul tema famigliare, che tra l'altro, discriminano allegramente i figli legittimi dagli illegittimi;

- l'art. 48 che introduce il concetto di ``dovere civico'', per il diritto di voto e lo limita in casi d'indegnità morale indicati della legge;

- l'art. 52 che, addirittura impone l'obbligo alla difesa armata come ``dovere sacro'' (non si capisce a quali fondi di sacralità attingendo).

Ma pur di fronte a queste norme ed ai concetti, vuoi fascisti, vuoi clericali, che esse introducono, restano tutte le norme che sanciscono i diritti civili in forma estremamente moderni: il diritto al lavoro, all'educazione, all'assistenza, il che rivela nei costituenti, una sincera preoccupazione di impegnare lo stato a rimuovere gli ostacoli che impediscono il godimento dei diritti da parte del cittadino.

Il guaio è che questi ostacoli, oltre che nello stato e nelle condizioni oggettive della popolazione, risiedono, come già abbiamo detto, o nella legislazione ordinaria o in inveterate abitudini degli stessi poteri dello stato. Cercheremo ora di esaminarli, e di indicare delle linee di azione politica per abbatterli, con l'avvertenza che questa relazione vuole appunto essere politica e non teoretica, e, partendo da quella che è la concreta attività del partito radicale, non ha pretese di sistematicità e completezza.

2 - Lo stato di polizia

Tra gli strumenti autoritari di cui ci si serve abitualmente in funzione liberticida, come è noto, è eminente quant'altri mai la legge di Pubblica Sicurezza, la cui presenza caratterizza come vero e proprio stato di polizia la nostra repubblica. E' infatti caratteristica di uno stato di polizia la tendenza a trasformare appunto in problemi di polizia e di ordine pubblico ogni aspetto della vita sociale: già il porre come massima autorità decentrata dello stato una figura come quella del Prefetto, il cui compito, secondo la legge, è prevalentemente quello di garantire l'ordine pubblico, deforma le funzioni attribuite a tutto l'esecutivo, in un senso appunto poliziesco.

D'altro canto l'attribuire all'autorità di Pubblica Sicurezza delle facoltà di intervento nel settore dello spettacolo, dell'esercizio del diritto di riunione, del turismo, della stampa, del commercio eccetera, è aberrante per almeno due ragioni: prima di tutto perché sottrae alle competenti autorità statali e comunali (esempio: i ministeri dello spettacolo e turismo, gli uffici comunali, gli organi regionali e simili) la competenza della sorveglianza su settori che dovrebbero essere di loro attribuzione, e poi perché si basa sull'assunto stesso, tipico di uno stato di polizia, o meglio di uno stato borbonico, che i pubblici spettacoli, l'esercizio del diritto di riunione e di associazione, la stampa, la frequentazione di locali pubblici in genere siano occasioni particolarmente favorevoli per l'esercizio di attività delittuose.

L'ordine pubblico, in Italia, diventa in questo modo un concetto che si presta a moltissimi ampliamenti, che si risolvono a loro volta in limitazioni di quei diritti civili che la Costituzione invece garantisce. L'attività della polizia, in Italia, è regolata, si sa, da una legge fascista del 1931, soltanto limitata in alcuni punti da sentenze della Corte Costituzionale, che non ne modificano la sostanza, tanto è vero che le autorità di polizia continuano ad applicarla interamente. A questa legge il governo attuale ha proposto, come si ricorderà, una serie di emendamenti che dovrebbero adeguarla alla Costituzione, ma che in realtà, come si è ampiamente detto e scritto in occasione della discussione in Senato, non portano novità sostanziali, e anzi in molti punti, delineano ulteriori pericolosissimi poteri alle autorità di P.S. ed ai prefetti. Fin qua, cose note.

Ma la realtà della situazione è un'altra. Va infatti tenuto conto che la attività della polizia, specie nei confronti delle minoranze, è regolata da una prassi che rende inutili anche le poche garanzie poste dalla legge. Riteniamo inutile un'elencazione di tutti gli articoli vessatori o limitativi delle libertà civili e politiche (anche perché dovremmo dar lettura quasi integrale del testo di legge). Ci limitiamo perciò ad indicare i casi più significativi di vessazione, attingendo soprattutto alla nostra esperienza personale di militanti radicali.

La polizia applica spesso due criteri diversi per identiche manifestazione. Facciamo un esempio pratico: se un ``uomo sandwich'' gira per le strade reclamizzando un qualsiasi prodotto incontrerà, al massimo, qualche vigile urbano che gli chiederà la licenza pubblicitaria. Qualora il cartello rechi scritte politiche (specie anticlericali o antimilitariste) non soltanto il portatore verrà immediatamente denunciato, com'è ``giusto'', per un qualunque reato di vilipendio contro una qualunque autorità dello Stato italiano o estero, ma verrà anche immediatamente preso e portato in questura, ivi trattenuto per due o tre ore con la scusa di controllare i documenti, e successivamente mandato a casa, senza cartello e senza che gli sia stato redatto verbale alcuno (e quindi senza diritti di difesa). Lo stesso sistema viene usato nel caso di distribuzione di volantini: e nulla conta che i volantini siano stati o meno regolarmente notificati alla questura, e rechini le indicazioni sullo stampatore o sul cilclosilatore, v

essatoriamente richieste delle stesse autorità. In questo modo viene completamente soffocata la libertà di espressione e di manifestazione, perché, con la scusa degli accertamenti, le manifestazioni della minoranza, vengono regolarmente impedite anche se, per ipotesi, rispondono pienamente alle richieste stesse della legge e della prassi di P.S.

Ricordiamo comunque che la polizia ritiene di avere il diritto di autorizzare in alcuni casi e vietare in altri (anziché limitarsi, comi dovrebbe, a prenderne atto), lo svolgimento di manifestazioni politiche, previa una obbligatoria comunicazione anticipata.

Abbiamo dovuto assistere, in questi ultimi mesi, ad una recrudescenza di queste vessazioni da parte della polizia. Ad esempio: tutti ricorderanno come a Peschiera un pacifista inglese sia stato fermate e rimpatriato, perché, sedendosi da solo sulla strada prospiciente il carcere militare, ``ingombrava la sede stradale''.

Sempre a Peschiere è stato vietato un comizio dei pacifisti radicali, perché l'autorizzazione era stata chiesta per telegramma e non recava firme autografe. Lo stesso è successo a Sarnico, mentre a Vicenza si è giunti al punto di fermare un ragazzo che girava per la città indossando una maglietta con la scritta ``Pace nel Vietnam''. Gravissimi cadi di abuso di potere di dono verificati, nel corso dell'ultimo anno, nei confronti dei cosiddetti ``capelloni'', per i quali si è adottata una presunzione di colpevolezza illimitata: se uno ha i capelli lunghi sta certamente facendo qualcosa di illecito. Per non dire della vera e propria guerra che a Milano è stata condotta nei confronti della ``tendopoli'' di via Ripamenti, un accampamento di capelloni situato in un terreno privato regolarmente affittato, sul quale, per evitare rappresaglie, erano già in corso di installazione le attrezzature igieniche, richieste dai regolamenti vigenti per i campeggi. I frequentatori della tendopoli sono stati, per mesi e mesi, so

ttoposti a vessazioni di ogni genere: fermi, retate, fogli di via, intimazioni, finché la Pubblica Sicurezza stessa ha circondato il campo, ne ha evacuato a forza gli abitanti, ed ha proibito il proseguimento della vita associata su di esso. L'autorità comunale di Milano ha finito l'opera, inviando alcune lanciafiamme, che a formale titolo di disinfezione (ma in realtà seguendo un tipico rito purificatorio) hanno arso e distrutto tutte le suppellettili e i generi personali forzatamente abbandonati in loco.

Abbiamo detto che le nuove norme di P.S. comportano alcuni veri e propri peggioramenti. Il caso più macroscopico è quello del fermo di polizia che non solo non viene abolito, ma decisamente peggiorato per quanto riguarda i casi in cui è consentito ricorrere a questo istituto, e mediante l'introduzione di criteri soggettivi, come quello de ``persone la cui condotta faccia fondatamente ritenere che stiano per commettere un delitto'', o ``manifestano un comportamento concretamente pericoloso per la pubblica sicurezza e la moralità pubblica''.

Né si trascuri il caso dei prefetti, cui il T.U. di P.S. delega amplissimi poteri. L'art. 2 del T.U., che attribuisce al prefetto, in casi d'urgenza o grave necessità pubblica, il potere di ``adottare i provvedimenti indispensabili per la tutela dell'ordine pubblico e della sicurezza pubblica'', già dichiarato incostituzionale dalla Corte Cost. (sentenza 26 del 27.5.1961), è praticamente ripreso dal progetto governativo, salvo un rinvio (art. 69) alla facoltà del Governo di dichiarare lo stato di pericolo mediante d.l., in casi di calamità pubblica, rinvio che è privo de senso alcuno, dal momento che i poteri del Governo sono stabiliti dalla Costituzione e altro non fa che avallare l'articolo successivo, che lascia al prefetto tutti i suoi vecchi poteri.

Appare dunque chiaro che, attraverso le leggi e la prassi della polizia Italiana, ci troviamo ad operare in un vero e proprio Stato di polizia, con una autorità che già applica restrittivamente le norme di legge, e che può da un giorno all'altro disporre di poteri che sfuggono a qualunque definizione o a qualunque controllo. In particolare nei confronti delle minoranze politiche di sinistra è attuata una prassi che altro non è se non un colpo di stato continuato. Né gli organi di governo, che tanta sollecitudine pongono nel presentare progetti di riforma, che altro non riformano se non le parole, se ne preoccupano minimamente.

E' tipico della mentalità burocratica che contraddistingue i nostri governanti pensare che l'adeguamento alla Costituzione debba avvenire attraverso marginali modifiche di articoli di legge, senza preoccuparsi del fatto che le autorità di P.S. non rispettano nemmeno le leggi fasciste. In realtà l'adeguamento della legge alla Costituzione dovrebbe avvenire automaticamente, ed è anche una grossa responsabilità delle opposizioni il non fare della Costituzione uno strumento di lotte, ed invece - acquistando una mentalità legalistica - accettare l'applicazione vessatoria di leggi incostituzionali.

Sempre in tema di legislazione e di codice penale, un altro dei motivi che rendono particolarmente limitato il godimento dei diritti civili, è l'assurdo mantenimento nel C.P. dei reati di vilipendio, ingiuria, offesa ai pubblici poteri, tutti reati basati sull'arcaica, autoritaria, imbecille idea secondo cui il potere costituito deve difendersi con sanzioni da eventuali attacchi diffamatori. Manifestazioni - dicemmo - oltre che di imbecillità, di autentica debolezza da parte dello Stato. Tralasciando i casi di vilipendio di cadavere, di tombe, e simili - che in questa sede non ci possono interessare - e tralasciando anche (benché forse varrebbe la pena di parlarne) l'art. 724 che punisce chi bestemmia contro la Divinità, o i Simboli o le Persone venerate nella Religione dello Stato (che dovrebbe essere automaticamente decaduto per la mancanza asserita di una religione dello stato) vorremmo accennare ai vari oltraggi previsti e puniti dal Codice Penale, a pubblico ufficiale, a pubblico impiegato, eccetera: g

li articoli che li regolano sono veramente pieni di incongruenze: si punisce più gravemente l'offesa che consista nell'attribuzione di un fatto determinato, rispetto all'offesa generica, o magari si crea una graduatoria di valori fra i veri pubblici poteri, attraverso un décalage di pene più o meno gravi comminate a seconda che si tratti di pubblico impiegato, magistrato, pubblico ufficiale e così via. E, assurdità fondamentale, dagli articoli del nostro C.P. risulta essere un reato più grave l'insolentire l'autorità piuttosto che l'ostacolarne la funzione.

L'esistenza di tali articoli, e comunque di tutti i successivi, che puniscono in modo estremamente lato l'ingiuria e la diffamazione, si risolve in una grava limitazione della libertà di critica e d'espressione, anche perché la prassi giurisprudenziale ci ha abituati al fatto che il criticare l'operato di un ministro può diventare vilipendio (si ricordi il telegramma a Tambroni, nel quale si protestava per certe dichiarazioni del ministro all'atto dell'arresto di Ghiani e Fenaroli: il mittente è stato appunto condannato per vilipendio). Ricorderemo poi l'apologia di reato, in cui si incorre regolarmente ogni volta che si chiede non solo l'abolizione dell'art. 553, che punisce la propaganda anticoncezionale, ma anche ogni volta che si chiede la creazione di istituti democratici, non previsti dalla legge italiana.

Basta per l'elencazione di tutti i vilipendi puniti e previsti dal codice per dare un'idea del terrorismo giuridico cui siamo sottoposti e del profondo sonno in cui giacciono le forze di opposizione, che a più di vent'anni dalla liberazione, tollerano ancora l'esistenza di simili articoli.

Eccoli senza commento: vilipendio della nazione italiana (il reato si commette semplicemente gridando in luogo pubblico ``Abbasso l'Italia''). Vilipendio alla bandiera o ad altro emblema dello Stato (si vilipende la bandiera o altro emblema anche se si vilipendono i colori nazionali raffigurati su altro oggetto che non la bandiera) reato gravissimo la cui pena, secondo una norma del '56 è aumentata se il fatto è commesso da militari in congedo. E poi: vilipendio dilla Repubblica, delle Istituzioni Costituzionali e delle Forze Armate, che comprende anche il vilipendio del Governo e alla Magistratura. Vilipendio al Presidente della Repubblica. Vilipendio alla Religione dello Stato. Offesa alla bandiera di stato estero, al sommo pontefice, ai capi di stato estero. A tutto, insomma.

3- Lo Stato clericale

Ci sono poi tutti i reati di vilipendio alla religione, ai suoi ministri, ai suoi culti: il cui esame ci introduce però nella più generale tematica della libertà religiosa. Tema, per noi, di grande interesse: il caso della libertà religiosa è, infatti, tra tutti i diritti civili riconosciuto soltanto a parole, uno dei più clamorosi, e, per le considerazioni che permette di fare, esemplare. Dichiarata solennemente in almeno quattro articoli della Costituzione (nn. 3.8.19.20.), è poi apertamente contraddetta in parecchi articoli del codice penale (gli artt. 402/406, per esempio), nella legge sui culti ammessi (n. 1159 del 24 giugno 1929), nel suo decreto di applicazione (R.D. 28 febbraio 1930, n. 289), (leggi e decreti tutti che si avvalgono in genere di un'applicazione particolarmente illiberale da parte della magistratura). E' inoltre praticamente denegata nella pratica pratica quotidiana in ambienti chiave come quello della scuola, dove si perpetuano spesso abusi notevoli, e noti alle cronache. Quando si tr

atta di problemi di libertà religiosa appare particolarmente evidente quanta strada ci sia da fare per giungere anche in Italia ad avere uno Stato di tipo laico, quello stato laico nella cui esistenza le maggior parte delle forze politiche nazionali (tutta la sinistra e buona parte della destra conservatrice) ripongono ogni garanzia di libertà religiosa. E' qui il caso di ricordare come in Italia operi da anni, pur in mezzo a notevoli difficoltà, una Associazione per la Libertà Religiosa (ALRI), fondata da Gaetano Salvemini e presieduta oggi da Carlo Berutti, che da anni lotta per rendere noto alla pubblica opinione questo grave limite delle libertà italiane. Gli autori di questa relazione non sono estranei all'attività dell'ALRI, della cui documentazione e della cui analisi si sono serviti. Ma già il fatto che Salvemini avesse ritenuto necessario dar vita a una simile organizzazione, fa capire quale è il livello, in Italia, di questa che delle altra libertà civili è storicamente madre.

Non è necessario andar lontano per comprendere il motivo per cui un paese che aveva dato al mondo, in tema di libertà religiosa, un esempio di edificazione eminente quale la legge delle Guarentigie, sia oggi sceso tanto in basso. La rinuncia alla prospettiva laica, l'abolizione della legge delle Guarentigie stessa e la stipulazione del Concordato sono fatti fin troppo noti a quanti non temono di impancarsi in un tipo di problematica decisamente fuori moda. Ma vale la pena di fare qualche altra considerazione, e citare - magari a titolo di curiosità - qualche dato.

Il principio della libertà religiosa, va detto, è già denegato a priori dall'esistenza di un Concordato con la chiesa cattolica, dato che ciò crea una situazione di disparità con gli altri culti, e quindi un limite alla loro volontà. D'altro canto anche un regime pluriconcordatario, che estendesse lo strumenti del concordato ai rapporti con le altre chiese italiane, oltre che praticamente assurdo, sarebbe del pari indifferente alle garanzie di libertà religiosa. Il concordato è strumento capace di assicurare, se mai, la libertà ecclesiastica, la libertà di una chiesa di operare nello Stato: non una libertà religiosa, che si rivolge ai singoli, e non alle chiese. In realtà l'ordinamento italiano confonde sempre (accettando in questo un concetto d'origine nettamente cattolica) i due concetti. Il concordato e la legge sui culti garantiscono oggi, a due diversi gradi, la libertà della chiesa cattolica e delle altre chiede principali (queste ultimo con gravi limiti), cioè la libertà ecclesiastica. Nulla, se non q

uattro articoli della Costituzione, garantisce oggi in Italia la libertà religiosa individuale. Anzi, i predetti documenti contengono più punti esplicitamente lesivi di essa libertà. Sono, passandoli rapidissimamente in rassegna, i seguenti: del trattato tra Italia e Santa Sede gli articoli 1 (riconoscimento della religione cattolica a religione di stato); 8 (riconoscimento di prerogative sovrane alla persona del Pontefice); 21 (garanzia di interventi dello Stato Italiano ad agevolare lo svolgimento di Conclavi e Concilii, con immunità penale ai partecipanti); 23 (efficacia giuridica a gli effetti civile in Italia di sentenze ecclesiastiche circa religiosi). Gli articoli 8.21 e 23 (oltre ad essere, al pari dell'1, incostituzionali) configurano una vera e propria funzione di braccio scolare per lo stato.

Più ricco di tali norme liberticide il concordato propriamente detto. Sono: l'art. 1 (carattere sacro della città di Roma); 5 (stato giuridicamente inferiore di ecclesiastici appostati o irretiti da censura. Necessità di nulla-osta diocesano per l'assunzione di ecclesiastici in impiego statale); 8 (guarentigie ad ecclesiastici contro la legge penale); 29 (comma i: punizione da parte dello Stato di uso sgradito alla Chiesa di abito religioso); 34 (diritto matrimoniale); 36 (riconoscimento dell'istruzione religiosa cattolica come fine e coronamento dell'istruzione pubblica); 38 (necessità di nulla-osta ecclesiastico per la nomina di professori di ruolo nelle Università cattoliche parificate). L'art. 1 abolisce praticamente ogni libertà religiosa in Roma; l'art. 8 discrimina i cittadini sulla base dei principi religiosi; gli artt. 5 e 29 sono altri due casi della costituzione in braccio secolare dello stato; gli artt. 34, 36 e 38, al contrario, delegano alla Chiesa Cattolica poteri di competenza dello Stato, va

lidi anche per i non credenti.

Analoghe osservazioni possono farsi per gli artt, 2.3.6.7.8. della legge sui culti ammessi. Tutto il relativo decreto d'attuazione pone poi pesanti limiti (di tipo, stranamente, giurisdizionalistico) alla stessa libertà ecclesiastica delle chiese acattoliche, sottoposte a norme stranamente analoghe a quelle valide per gli enti di diritto pubblico. Così lo Stato può definire, sempre a sua discrezionalità, per consentire o meno l'apertura di luoghi di culto (art. 1, comma 2) e lo svolgimento di riunioni in detti luoghi (art. 2),, può definire, sempre a discrezionalità sua, la posizione militare degli addetti a militari di culto acattolico (art. 8); può sottoporre gli enti di culto alla sua tutela e alla sua vigilanza, predisponendo ispezioni e controlli (art. 13 e 14), può annullarne le delibere (art. 15), autorizzarli o meno all'acquisto di beni immobili, anche per interposta persona (artt. 16.17.18.19.), può richiedere informazioni sulla finalità delle organizzazioni ecclesiastiche (art. 20 comma 3) e può in

fine stabilire autonomamente quando sia più o meno il caso di permettere una istruzione religiosa acattolica nelle scuole pubbliche (le parificate comprese).

Ricordiamo che la legge sui culti ammessi, approvata il 24 giugno 1929 è, storicamente, se non formalmente, un capitolo degli accordi concordatari.

Ultimo disconoscimento legale della libertà religiosa, come già accennammo, sono gli artt. 402.403.404.405.406 del codice penale vigente, che prescrivono, in ordine ai reati di vilipendio, offese, turbamento di funzioni religiose, pene diverse se il reato è rivolto contro la chiesa cattolica e contro i culti ammessi. Sarebbe interessante addentrarci poi nella casistica giurisprudenziale dei reati di vilipendio (è considerato reato di vilipendio alla religione cattolica l'affermare che i dogmi sono inventati dai preti, e discuterne gli insegnamenti con argomenti culturalmente poco qualificati, e anche con argomenti in sé qualificatissimi ma esposti ad un pubblico privo delle basi culturali per comprenderli!).

Ci manca il tempo e la competenza per farlo, ma possiamo rinviare in materia a tutta la documentazione raccolta dall'ALRI in occasione di un suo convegno all'argomento dedicato.

Questo per la situazione, diciamo così, giurisprudenziale. Ma chi non sa poi quali e quanti altri abusi si perpetrano in materia, di quanti favori gode la Chiesa cattolica, di quanto grama sia la vita delle altre chiese, di come liberi religiosi e liberi pensatori non abbiano, per i loro convincimenti, garanzia alcuna di libertà?

Eventi che pressoché nessuno avverte come scandalosi, darebbero in realtà scandalo in ogni paese civile e modernamente laico: non sono solo i crocefissi nelle aule e nei tribunali, a scandalizzarci, né la trasmissione radiotelevisiva di rubriche religiose, sacre funzioni e sermoni preteschi pagati a spese degli abbonati, protestanti, liberi pensatori, buddisti o framassoni che siano. Ci scandalizza di più l'ossequio che alla città divina è quotidianamente tributato da esponenti della città terrena: le visite di omaggio al Papa di tre presidenti della repubblica su cinque (e uno dei tre è un cosiddetto laico colui che oggi è insediato in Quirinale) e di tutti i capi del governo; gli abusi che in favore della Chiesa ogni ministero è pronto a compiere, a mezzo semplice circolare, che vanno dall'esenzione di ore di lezioni in pro di alunni che evidentemente non si sentirebbero di soddisfare il precetto pasquale nelle ore pomeridiane fino alla remissione delle imposte sull'ingente patrimonio posseduto dalla Santa

Sede. Non parliamo delle vere e proprie persecuzione cui non sfuggono quelle chiese acattoliche (citeremo la ``Chiesa di Cristo'', e ``Congregazionalisti'' e o ``Testimoni di Jehova'' che non si sentono di adattarsi all'andazzo vigente.

Ci diamo soffermati a lungo sul problema della libertà religiosa non solo perché lo riteniamo, anche per via delle nostre personali esperienze ed interessi, problema centrale e fondamentale, ma perché ci sembra esso apra la via alla comprensione della reale situazione italiana in ordine a tutti i diritti civili. La Chiesa Cattolica non è oggi una semplice interlocutrice, sia pur privilegiata, dello Stato: i casi politici scaturiti dal Concordato ne hanno fatto oggi uno dei reali gestori del potere in Italia.

Non altrimenti di spiegano le imposizioni, le vere e proprie strumentalizzazioni che, anche caduto quel fascismo che, in cambio della propria sopravvivenza, aveva liquidato ogni garanzia laica, essa può oggi imporsi allo stato. Viviamo in una repubblica papalina, s'è detto, in uno Stato clericale. E se la Chiesa ha i suoi moti per impedire che in Italia si realizzi la libertà religiosa, essa ha più o meno altrettanti eccellenti motivi per opporsi alle altre libertà civili di cui tratta questa relazione. Non pensiamo, nonostante sia il caso di pensarvi sempre, al "Sillabo": pensiamo più modestamente a tutti i casi di autoritarismo che lo Stato clericale attua e realizza quotidianamente, per opera di una classe dirigente cattolica, e ai cattolici subordinata, approvata dalla chiesa, realizzatrice di una politica che nessuna riforma giovannea, nessuna ventata di spirito conciliare, ha saputo e potuto modificare di un millimetro. Noi non crediamo al mito giovanneo, e non ci appelliamo alla gioconda figura del pa

pa bergamasco contro la rigida prosopopea dal pontefice bresciano. Constatiamo solo che, dopo anni di dialogo e di concilio e di pellegrinaggi a Sotto il Monte, la gestione clericale dello stato italiano, continua imperterrita, aduggia e mortifica ogni manifestazione politica. Non entriamo in argomenti estranei ad una relazione politica: facciamo solo sommessamente notare che se è vero che la civiltà moderna è laica, se in Italia la civiltà moderna è ancora fantascientifica utopia, ciò deriva da quell'intrinseca debolezza laicista che caratterizza questa nostra società.

Ci troviamo infatti a vivere in una situazione contraddittoria, abbiamo una costituzione che permette di definire lo stato italiano come essenzialmente laico, (anche se vi sono - abbiamo visto - alcune concessioni a ideologie non laiche: l'art. 7, il concetto di buon costume e quello di ordine pubblico, definiti ambedue, come ``morale media''), e tuttavia buona parte della legislazione è ispirata a diversi principi, e per di più esistono grosse strutture di potere che fanno sì che in pratica lo stato italiano assuma un carattere ideologico. Abbiamo già visto il caso della legislazione religiosa: ricordiamo ora la legislazione familiare, la tutela che l'esecutivo esercita sulla morale pubblica attraverso le varie forme di censura, il condizionamento pratico cui tutti sono sottoposti nelle scuole, nell'esercito, esso dei riti della religione cattolica. Tutto ciò da altro non è causato che dal fatto che la Chiesa cattolica detiene sostanzialmente il potere politico perciò diciamo che siamo in uno stato clerical

e: è questa una dichiarazione politica, che richiede una battaglia, appunto politica e anticlericale.

Ecco perché la battaglia per i diritti civili deve essere prima di tutto una battaglia anticlericale: una battaglia che si prefigga in ordine alla libertà religiosa, la fine del regime concordatario, la denuncia degli accordi lateranensi (salvo il Trattato da sottoporre però ad energica revisione), l'abolizione della legge sui culti ammessi e del suo decreto di libertà religiosa (per tutti i culti cattolico incluso e per il non aderenti a culto alcuno, ma sempre senza obbligo di registrazione e tutela), e infine l'istituzione di una legislazione ecclesiastica unitaria, e opportuni richiami al diritto di libertà religiosa nella legislazione scolastica, inclusa quella, ancora a venire, sulle scuole parificate.

Ma una politica anticlericale va oltre la politica tesa a riconquistare in una prospettiva laica il diritto alla libertà religiosa: è lotta per la riconquista di un'autonomia civile e temporale in ogni campo: economico, finanziario, matrimoniale, della politica estera, culturale, e chi più ne ha più metta.

Una politica anticlericale è, a nostro avviso, indispensabile. Senza di essa ogni costruzione teorica di questo congresso rischia ignominiosamente di cadere.

Lo stato anticlericale consiste per noi nello stato laico, basato sui diritti civili del cittadino, garantito nei suoi diritti di individuo autonomo, non sottoponibile ad imposizioni ideologiche né da parte dello stato, né da parte di chiese o altri corpi intermedi.

Nell'ambito delle battaglie anticlericali e per i diritti civili, assume grande importanza il problema del divorzio: esso va affrontato nell'ambito di una relazione sui diritti civili, non tanto perché lo si possa configurare un diritto di libertà in senso stretto, quanto perché la battaglia per il divorzio è oggi una delle battaglie essenziali per lo stato laico, è, appunto, una battaglia laica e anticlericale.

Ciò che oggi impedisce l'istituzione del divorzio in Italia, ripetiamolo pure, è esclusivamente il potere clericale. Tutte le obiezioni antidivorziste, prescindendo da alcune che si basano su motivazioni esclusivamente giuridico-formali (e quindi non accettabili in un dibattimento politico), quali per esempio le eccezioni di costituzionalità che gli antidivorzisti non smettono di proporre, sono obiezioni di marca clericale e confessionale. La prova più lampante di questo confessionalismo è stato l'inammissibile intervento di Paolo VI (discorso ai giudici rotali) contro l'introduzione del divorzio e precisamente in polemica con il voto della commissione affari costituzionali tanto più assurdo in quanto, alla negazione del diritto dello Stato italiano ad introdurre il divorzio motivata con i patti Lateranensi, corrisponde l'esplicita riserva alla Sacra Rota del diritto di annullare, anche con larghezza e generosità, i matrimoni. Generosità e larghezza di cui abbiamo visto valersi recentemente buon numero di es

ponenti del mondo del cinema e delle arti in genere. Basterebbero questi episodi cinematografici per autorizzare qualunque giudizio sulla serietà della Sacra Rota, e per condannare il sistema che rende l'annullamento del matrimonio un privilegio di censo.

Al contrario una società libera e laica non può non ammettere il divorzio se non altro come riconoscimento di un'avvenuta evoluzione dell'istituto famigliare e dell'esigenza non ignorabile di dare la possibilità di sanare tante situazioni familiari giunte a un punto di crisi. In questo ambito d'altronde diventano di grande rilevanza anche situazioni che sono di vera e propria mancanza di diritti civili: i casi di coniugi con diversa cittadinanza, il problema dei figli naturali, e del loro riconoscimento, la situazione delle coppie illegittime. Contrasta d'altronde con la concezione stessa di Stato laico la delega che attualmente i tribunali ecclesiastici hanno a giudicare in materia matrimoniale, conservando le loro sentenze ogni effetto civile.

Questa stessa osservazione fa giustizia dell'assurda proposta, avanzata purtroppo da ambienti che hanno il coraggio di definirsi laici, di istituire il divorzio solo per i matrimoni non concordatari, il che creerebbe due categorie di cittadini, con due distinte giurisdizioni, sulla base di una discriminazione religiosa. Ciò premesso bisogna sottolineare il valore politico della battaglia divorzista, che proprio in quanto battaglia contro di potere clericale ha la capacità di rompere l'attuale equilibrio politico, dato questo veramente nuovo perché si tratta di una battaglia che si è qualificata come francamente popolare.

L'accordo governativo per affossare i progetti di legge sul divorzio ha dimostrato chiaramente quale sia l'importanza di questa prima battaglia laica di massa, che si sviluppa e viene portata avanti dalla base nonostante certa freddezza, se non addirittura ostilità, dei dirigenti politici. Ci riferiamo non solo alle non mai sopite perplessità comuniste, portate avanti in nome del colloquio con i cattolici e delle pretese sistemazioni totali del diritto di famiglia, ma anche nella contraddittorietà dell'atteggiamento dei socialisti e alla totale sordità di quei repubblicani (ministro Reale in testa) che pur amando definirsi laici o riformatori, si oppongono con sotterranea pertinacia e con mentalità degna del peggiore clericalesimo all'introduzione della prima riforma laica della storia dell'Italia repubblicana, dimostrandosi insuperati campioni di trasformismo e di cadreghinismo congenito.

Di fronte a questi esempi di serietà politica diventa sempre più significativa l'esistenza di un organismo autenticamente unitario e autonomo come la LID, che va citata come originale esperimento politico di organizzazione di cittadini che portano avanti autonomamente le proprie istanze politiche.

La LID rappresenta oggi in Italia l'unico esempio efficiente di quei ``single-purpose movements'' che in Paesi di più consolidata tradizione democratica rappresentano spesso le voci più dinamiche e anticonformiste.

4 - Lo Stato corporativo

Le strutture autoritarie e clericale, dunque, caratterizzano oggi l'Italia in un senso che non è certo quello indicato dalla costituzione repubblicana: abbiamo visto quali siano gli estremi che ci autorizzano a definire l'attuale regime italiano come poliziesco, confessionale e quindi autoritario ed antidemocratico. Questi caratteri, a nostro avviso, sono confermati dalla sopravvivenza, in un settore importante della vita dei cittadini e dei lavoratori, di un vero e proprio relitto di quella corporativizzazione dello stato con la quale il regime fascista aveva cercato di inquadrare anche il mondo del lavoro secondo i propri schemi di potere: questo relitto che in regime ``democratico'' rivela purtroppo una sua insospettata violenza, è rappresentato dal sistema degli ordini professionali: a nostro avviso una delle più pesanti strutture autoritarie che condizionano e coartano il libero godimento dei diritti del cittadino. Ci sarebbe molti da dire su questo tema, a partire dalla constatazione per cui gli ordini

professionali sono, prima di tutto, antistorici: visto che oggi non ha veramente più senso il concetto stesso di libera professione, autonoma e quindi dotata di capacità di autodisciplina e di autogoverno, per non dire della capacità di emettere norme articolate al di fuori della categoria, di regolarne l'accesso in base a poteri di discrezionalità, di riscuotere tributi, comminare pene e sanzioni e via dicendo. Gli ordini professionali - cui queste potestà sono oggi delegate - accumulano una enorme massa di poteri, (e, tra parentesi, ingenti fondi, la cui utilizzazione resta pochissimo chiara). L'esistenza di tali curiosi organismi (cui non si vede perché non si riconosca il diritto di muovere guerra, stringere alleanze, battere moneta, promuovere tornei sportivi, ed essere rappresentati dall'ONU) non ha d'altronde base alcuna nel dettato costituzionale, che con l'art. 33 prescrive solo l'obbligo di un esame di stato per l'abilitazione all'esercizio di certe, non specificate, professioni.

E' veramente strano che questa presenza, pur pesantissima nella vita delle professioni, non sia stata avvertita come autoritaria e vessatoria. In Italia oggi esistono alcune decine di ordini professionali (servendoci di un annuario professionale ne abbiamo identificati una ventina), tutti più o meno formalmente sottoposti alla vigilanza di vari ministeri: vanno da quello degli architetti, a quello degli agronomi, di ragionieri, degli avvocati, dei notari, dei giornalisti, dei medici, dei veterinari, delle ostetriche, delle infermiere, fino a quelli degli spedizionieri doganali, degli ``attuari'' e molti altri ancora. La loro caratteristica essenziale è quella di regolare l'esercizio della professione, mediante il controllo sull'accesso alla categoria. Anche in categorie per entrare nelle quali la legge richiede titolo di studio, lauree o diplomi di Università statali, esami di abilitazione o di concorso (e spesso tutto questo insieme) l'esercizio della professione resta subordinato all'iscrizione all'albo pr

ofessionale. Iscrizione che, si badi bene, non è affatto automatica e fondata sui titoli di merito, ma è sottoposta a volte ad ulteriori esami, a volte alla previa esplicazione di periodi di praticantato (ossia in pratica alla discrezionalità o alla compiacenza di altri esercenti la professione), e in ogni caso subordinata al pagamento di balzelli, tasse e sopratasse, e, in certi casi, addirittura allo svolgimento di periodi di lavoro non retribuito. Il caso limite notoriamente è quello dill'ordine dei giornalisti: un ordine per iscriversi al quale è obbligatorio "non" essere liberi professionisti, in quanto al periodi di praticantato si accede previa firma di un contratto con un editore, e per essere iscritti all'elenco secondario dei pubblicisti è comunque necessario dimostrare di svolgere con continuità da almeno due anni lavoro retribuito alle dipendenze di una redazione di cui facciano parte almeno tre professionisti.

Queste norme creano automaticamente il numero chiuso: non si può diventare professionisti se non attraverso il praticantato, e il numero dei praticanti è proporzionale a quello dei professionisti (art. 35 del contratto di lavoro):

Esso è un caso limite, dicevamo, perché la Costituzione, che garantisce la libertà di stampa e di espressione (art. 21) non la sottopone ad alcun limite (salvo quello del buoncostume) né ad alcun accertamento di competenza. Una tale legislazione, al contrario, sottopone questo stesso diritto alla discrezionalità di chi controlla i mezzi d'informazione. Ed è - si badi bene - una legislazione recentissima, che peggiora di molto quella precedente. Fino al '62 chiunque godesse dei diritti politici poteva assumere la responsabilità della della direzione di un giornale: oggi lo può fare soltanto un giornalista iscritto nell'albo.

Esaminiamo pure la istruttiva e assurda storia di questo ordinamento: l'ordinamento professionale dei giornalisti è stabilito da una legga che porta il nome di ``legge Gonella'' (3 febbraio 1963 n. 69). Essa abroga la precedente legislazione (D.L. Lt. 23 ottobre 44, n. 302), che, a sua volta, sostituendo la legislazione fascista, affidava la custodia degli albi ad una commissione unica del Ministero di Grazia e Giustizia. Il bello è che la nuova legge Gonella richiama invita letteralmente le disposizioni della legislazione fascista che già aveva istituito degli ``ordini distrettuali'' (poi trasformati in ``sindacati unici'') prescrivendo l'obbligo dell'iscrizione all'albo del direttore responsabile e di tutti i professionisti, il possesso discrezionale di titoli culturali per l'iscrizione, la cancellazione o sospensione per motivi di perdita della cittadinanza e dei diritti civili, e le funzioni disciplinari dei comitati dell'ordine.

Ciò che mancava alla legislazione fascista ed è stato introdotto nel '63 era la necessità - cioè - di essere già sotto contratto per poter essere iscritto negli elenchi dell'albo e la regolamentazione restrittiva del praticantato.

Questo discorso, probabilmente, lo si può fare per ogni ordine. Del resto, per fare un altro esempio, la legislazione fondamentale relativa all'ordine degli avvocati e procuratori è anch'essa quella del periodo fascista (R.D.L. 27 novembre 1963 n. 1578), con modifiche integrative di poco valore apportate tutte nel periodo che va dal '40 al '47.

Basta scorrere l'elenco degli ordine professionali, per rendersi conto di nome il concetto di libera professione oggi sia del tutto anacronistico. Senza parlare dei giornalisti, dei quali abbiamo visto quale sia il grado di libertà professionale, è evidente che anche fra i ragionieri, gli architetti, i chimici, gli ingegneri, i periti industriali, la zona della libertà professionale se esiste, si va via via riducendo in maniera tale da rendere prevalente il dato del lavoro subordinato. In certi casi (ragioniere, perito, infermiere e simili) la libera professione va già del tutto scomparendo. Ma, si badi bene, questo discorso vale anche per i liberi professionisti ``classici'' come i medici e gli avvocati. Pensiamo ai medici: il lavoro ospedaliero e quello mutualistico non è forse diventato il dato prevalente nella professione sanitaria? E non parleremo dei medici direttamente dipendenti dello stato, nelle sue varie articolazioni: né insisteremo sul fatto che, nell'attuale situazione di espansione industriale

, le industrie medie e grandi si organizzano con propri gabinetti medici, mentre sono soltanto quelle piccole a valersi di ``liberi professionisti'' per l'assistenza sanitaria interna.

Il discorso può sembrare più difficile e più sfumato per quanto riguarda gli avvocati, ma non modifica affatto i suoi termini. Oggi non solo esistono ormai numerosissimi gli avvocati (iscritti in apposito elenco speciale dell'albo!) dipendenti da Enti e industrie, visto che tutte le industrie di medie e grosse dimensioni, si sono organizzati degli uffici legali interni, nei quali gli avvocati vengono retribuiti a stipendio fisso, o - al massimo - hanno stabilito ormai rapporti continuativi e fissi con i cosiddetti ``liberi professionisti''; ma non possono neppure essere considerati ``liberi professionisti'' tutti coloro che fanno parte dell'avvocatura dello stato; per non dire che dall'interno stesso dei grossi studi professionali si configurano ormai rapporti di dipendenza tanto per gli avvocati quanto (specialmente) per i procuratori.

Ma gli ordini professionali non solo sono anacronistici e assurdi: rappresentano una vera struttura corporativa, illiberale e vessatoria, soprattutto nella misura in cui subordinano l'esercizio dilla professione alla propria discrezionalità, magari mascherata con concetti quali ``tutela del decoro professionale'', ``governo della categoria'' e simili, che lasciano veramente il tempo che trovano.

Per questo abbiamo ritenuto necessario, nell'ambito di una relazione sui diritti civili, rivendicare il diritto alla libertà da queste strutture, autoritarie quant'altre mai, anche quando formalmente travestite con apparente democraticità.

5 - Lo stato laico in senso moderno: i nuovi diritti civili.

A nessuno sarà sfuggito il fatto che, fino a questo punto, abbiamo parlato spesso della Costituzione Repubblicana, auspicando l'adeguamento alle sue norme delle leggi, e - se ci è consentita l'espressione - dello spirito delle leggi. Anche se non abbiamo taciuto che non mancano dei punti, nella Costituzione stessa, che riteniamo indispensabile modificare e innovare, il quadro istituzionale del nostro discorso è stato fin qui quello della repubblica italiana, quale è uscita, con tante generose intenzioni di rinnovamento (e non ci interessa qui precisare quanto sincere, a livello della classe politica che ha raccolto l'eredità del fascismo, queste intenzioni siano state) dalla resistenza e dallo sfacelo dell'ultima guerra.

Questo quadro indica ovviamente anche una prospettiva politica: è il quadro unitario in cui ci sembra possano agire tutte le forze della sinistra italiana, tutte le forze - cioè - interessate a fare sì che quel rinnovamento, congelato sul massacro dalla presa del potere da parte dei clericali, possa finalmente realizzarsi, e non solo all'astratto livello delle istituzioni, ma in una dimensione capace d'investire tutto il complesso della nostra società civile.

E' questo il momento di rivendicare l'importanza e la capacità innovatrice di questa battaglia, importanza e capacità spesso ingenuamente disconosciuta da quante forze, pur vicine a noi nel rigore dell'opposizione al regime e nella capacità di un'impostazione contestativa, sono spinte da esigenze spesso meramente ideologiche ad una continua ricerca di soluzioni finali e definitive, in una sorta di purezza rivoluzionaria che vede con sospetto delle battaglie, come nostre, che accattano in partenza il sistema istituzionale dello stato borghese.

No, la politica dei diritti civili non è un politica ``riformista'', non lo è né per chi riserba al termine il valore negativo che tanto suoi abusi gli hanno fatto giustamente assumere, né per chi si limita invece a conservargli l'originario valore etimologico. Non lo è perché la lotta per i diritti civili non è una lotta che abbia come obiettivo una serie di riforme, forse auspicabili ma non decisive, tali da lasciare poi, un volta attuato, sostanzialmente immutato il sistema di potere e del governo. Le strutture autoritarie che una politica come quella che abbiamo cercato di definire incontra sul proprio cammino come logici e naturali avversari, sono appunto delle strutture, degli strumenti fondamentali attraverso cui si attua, nel nostro paese e altrove, il potere della classe dominante.

Lottando contro questo strumenti noi lottiamo contro il potere, e contro la classe che lo detiene. Ce lo prova il fatto che quelle forze originariamente di sinistra che, in una prospettiva, questa sì, grettamente riformistica, hanno creduto di poter accedere al governo senza lottare per modificare i rapporti di fondo dello sfruttamento e del potere di classe, sono stati coinvolti in una logica che li ha portati a frasi complici, in questi ultimi anni, di un tentativo d'ulteriore soffocamento dei già limitati diritti civili di cui godiamo. L'inasprimento delle leggi di polizia, il rinascere, sotto false vesti, delle strutture corporative, le nuove scandalose concessioni al potere clericale di cui abbiamo parlato sono fatti, è doloroso dirlo, recenti, dono e imposizione ai cittadini del governo cosiddetto di ``centrosinistra''.

Questo discorso potrebbe portarci lontano, e fuori dal tema di questa relazione. E' giusto, comunque, accennarlo, perché l'esatta prospettiva della politica che proponiamo, e l'esatta misura della sua enorme importanza.

Ma c'è un'altra serie di considerazioni da fare. Abbiamo parlato dei diritti civili che la Costituzione italiana garantisce ai cittadini, e che le autorità italiane invece negano loro. Benissimo. Ma è ora di dire che la logica dello stato laico - la grande, dirompente, rivoluzionaria logica del laicismo - va oltre la logica della Costituzione italiana, frutto, come ogni altra creazione politica, di un momento di compromesso e di equilibrio, specchio e risultato di una situazione storica che non è più quella di oggi.

La società italiana si è evoluta in misura tale che oggi è necessario riprendere quel discorso e quella logica. Ci sono dei diritti civili, dei diritti "tout-court", non affermati né previsti, talora magari esplicitamente negati, dallo strumento costituzionale, che è ora che siano assunti, come rivendicazione e tema di lotta, da quanti credono al valore ed alla necessità di una battaglia quale quella che proponiamo.

La Costituzione definisce, un po' assurdamente (sul piano dei vocaboli) la ``difesa della patria'' come ``sacro dovere del cittadino''. Non parla esplicitamente di difesa armata, ma l'articolo che contiene questa affermazione fa riferimento subito dopo alle forze armate, sì che - sul carattere di questo ``sacro dovere'' - non è lecito, purtroppo, avere soverchi dubbi.

Bene: cresce di giorno in giorno il numero dei giovani (e magari dei non più tanto giovani) che rifiutano, esplicitamente, di ``difendere la patria'', e di esercitarsi a tal fine, che rifiutano il servizio militare, che preferiscono la prigione al reggimento. Sono questi ``obiettori di coscienza'' dei nemici del nostro ordinamento costituzionale? O non è il loro esercizio, autoritariamente represso, di un vero e proprio diritto civile, analogo a quello che abbiamo fino a questo punto elencato?

Noi siamo persuasi dell'esattezza di questa seconda ipotesi: riteniamo anzi che quello dell'obiezione di coscienza sia il caso porse più lampante di quei diritti civili ``nuovi'', cui la nostra lotta deve tendere fin d'ora. L'obiezione di coscienza consta del diritto del singolo a non obbedire ad ordini che vadano contro i suoi convincimenti: è quindi una estensione della libertà di coscienza. Il rifiuto prescinde da un giudizio di legittimità sugli ordini ricevuti, fondato com'è sul riconoscimento della priorità assoluta della coscienza individuale rispetto all'ordine costituito (leggi comprese). Teoreticamente questo rifiuto comporta anche il rifiuto dei concetti sui quali è fondato ogni stato etico, perché nega la fondazione sociale di una moralità che si attui nell'obbedienza alla legge. L'obiezione di coscienza è, cioè, un caso di rifiuto di una concezione etica della legge.

Uno stato fondato innanzi tutto sul valore della libertà individuale (estrinsecata nelle libertà civili classiche - come abbiamo fin qui spiegato) non può non dare riconoscimento al valore estremo della libertà di coscienza, anche quando esso porta a rifiutare determinate istituzioni.

In questo senso l'obiezione di coscienza va intesa su vari livelli: essa si estrinseca infatti a gradi intermedi: come disobbedienza civile, come rifiuto del servizio militare, o rifiuto di pagare le tasse, o sciopero e via via fino all'insurrezione.

L'affermazione di questi diritti altro non significa che una limitazione dell'autorità dello Stato, cui si nega la possibilità d'intervenire in questioni concernenti la libertà di coscienza. Possibilità, d'altronde, sempre negata dal laicismo: di cui il diritto dell'obiezione di coscienza altro non è che un'applicazione. La battaglia per l'obiezione di coscienza è una battaglia ``laica''. Noi riteniamo che questo tipo di battaglia, pur potendo benissimo essere giustificata da una concezione anarchica, non è necessariamente una battaglia contro lo stato. Le democrazie moderne si fondano infatti proprio sul riconoscimento della libertà di coscienza (negato, invece, forse con più coerenza, da ogni forma di potere etico: gli stati totalitari, la maggioranza delle chiese, e di conseguenza gli stati clericali). Ove questo riconoscimento, ancorché affermato nelle costituzioni, non sia poi attuato nella legislazione, la battaglia per l'obiezione di coscienza viene a configurarsi come una battaglia civile che accetta

i presupposti costituzionali dello stato, ne approfondisce e chiarisce la logica, e intende ad essi adeguare la legislazione, negando giustificazione alle leggi che ad essi non si conformano.

Oggi parlando di obiezione di coscienza si intende soprattutto l'obiezione alla chiamata alle armi, ed al conseguente servizio militare. E' il caso più clamoroso oggi, e quello che ricorre più frequentemente. Esso si è verificato, in questi anni, sulla base di diverse motivazioni: religiose, morali e politiche. E' inutile farne la storia: vanno dal caso dei ``testimoni di Jehova'' che rifiutano la divisa perché sono già soldati di Cristo (il che significa un puro e semplice rifiuto dello stato); al caso, che è il più comunemente conosciuto, di chi rifiuta di collaborare personalmente alla guerra e ai suoi strumenti (e per ciò obietta anche in tempo di pace), senza però preoccuparsi della possibilità che altri possano darvi la loro collaborazione, fino a giungere al caso di chi obietta per lottare contro la guerra, alla quale rifiuta la sua collaborazione, proponendosi di contribuire così ad eliminare gli strumenti.

Quest'ultimo è il caso che qui più ci interessa e che chiameremo, per intenderci, ``obiezione di coscienza politica''. Chi obietta su questa base si pone il fine rivendicativo di sottolineare la necessità del riconoscimento del diritto civile all'obiezione stessa e di conseguenza il suo non è tanto un fatto personale di coscienza singola, quanto un fatto politico, che viene propagandato e fatto conoscere e su cui si richiede la solidarietà dell'opinione pubblica e delle forze politiche, e si pone contemporaneamente come esempio di azione concreta le strutture militari: è come forma di boicottaggio.

Il partito radicale, in quanto antimilitarista, vede, così, nell'obiezione di coscienza "anche" (e forse soprattutto) un mezzo di lotta contro le strutture militari, e in questo senso se ne fa sostenitore, ed assicura a "tutti" gli obiettori (compresi quelli mossi da motivi religiosi) il suo appoggio anche se, in quanto partito laico, non può assumere le motivazioni ideologiche: non può, per esempio, ``finalizzare'' e assolutizzare il concetto di nonviolenza.

Certo, in quanto antimilitaristi, non possiamo accettare la prospettiva di chi propone di risolvere il problema rendendo volontario il servizio militare. Osserviamo infine che, ovviamente, non ci sembrano adeguate le varie proposte di legge a tutt'oggi presentate alle Camere, in quanto tutte o limitano l'obiezione di coscienza ai casi di impedimento o morale o religioso (con esclusione della motivazione politica), o presuppongono che la fondatezza dei motivi dell'obiezione possa essere discussa da apposite Corti (nelle quali, secondo una proposta, entrerebbero i giudici militari). La nostra proposta antimilitarista, di conversione nelle strutture militari in strutture civili, risolverebbe certo il problema dell'obiezione al servizio militare. Ma proprio perché è una proposta antimilitarista, essa è già stata oggetto di una distinta ed apposita relazione a questo congresso.

Ritorniamo, quindi, a quanto dicevamo dianzi: i nuovi diritti civili ci impongono, come necessità, come esigenza, e come tema di rivendicazione, per via dell'evoluzione stessa del nostro sistema sociale. Altro non rappresentano se non l'adeguamento ai tempi di quei principi di libertà alla cui piena realizzazione ci sentiamo tutti impegnati, e nel cui pieno dispiegarsi noi vediamo il modello di quello stato laico e - appunto - libertario cui aspiriamo.

Libertà contro autoritarismo, affermazione del valore autonomo dell'individuo contro le strutture che intendono condizionarlo, umanesimo contro antiumanesimo, questo sono in definitiva le antitesi che danno un senso a tutta la nostra lotta, a tutta la nostra politica.

Si capirà quindi il motivo per cui abbiamo deciso di concludere questa nostra relazione soffermandoci brevemente su un problema che fino ad ora è stato considerato estraneo alla lotta politica e che pure rientra perfettamente nel quadro che stiamo tracciando.

Le strutture autoritarie non si limitano a soffocare l'individuo nelle leggi, a precluderli il godimento di taluni diritti, a erigergli intorno barriere e legami. Oggi, soprattutto oggi, esse lo sanno condizionare dall'interno, sanno instillare nella sua stessa mente e volontà modelli, autoritari e dogmatici di comportamento, utili ai propri fini. Altri, nel corso del dibattito si soffermano sui problemi della libertà culturale, sul ruolo della scuola in queste operazioni di condizionamento, sul valore libertario di esperienze nuove per la nostra società e per essa estremamente salutari. Noi intendiamo qui fare qualche cenno a quello che ci sembra, in materia, uno dei problemi fondamentali e a quello che più attinenza ci sembra avere con il tema generale dei diritti civili.

Ci riferiamo, e non sembri strani, al problema della libertà sessuale. E' assurdo, ma la nostra società spinge il suo autoritarismo fino a sindacare sul diritto stesso dell'individuo a disporre liberamente del proprio corpo, a godere - come si diceva - dei piaceri dei sensi. Ritenendo essenziale, ai fini stessi della pubblica convivenza, un adeguamento generale ad una certa norma rigida di comportamento, anche, e soprattutto, in questo campo, lo stato italiano si permette di imporre a tutti i suoi cittadini, la morale sessuale corrente, vale a dire quella della Chiesa cattolica.

E' proprio un bell'esempio, questo, di stato laico: un esempio pericoloso anche in quanto non avvertito come tale dalle stesse forze politiche.

Ma che altro significa, se non esattamente quello che abbiamo detto, il fatto che la legge, e la Costituzione, italiana adottino e garantiscano un concetto di ``buon costume'' (esplicitamente riferito dalla giurisprudenza alla sfera sessuale), e che sulla base di questo concetto reprimano, censurino, coartino ogni forma di manifestazione di libertà in una sfera, come questa, che dovrebbe essere ben gelosa prerogativa dell'individuo? Non parleremo dell'umoristica clausola che, in nome di una concezione dei valori artistici che la legge non è certo tenuta a definire, e risale comunque a qualche secolo addietro, fa salve da questa tutela quelle manifestazioni che abbiano - appunto - un interesse artistico: il che trasforma "ispo facto" i giudici da applicatori della legge in studiosi di estetica. Basta il ridicolo di questa conseguenza.

C'è ben altro infatti. Il riconoscimento del matrimonio con un valore ben più che civile, assoluto - ché questo significa la sua definizione costituzionale di ``società naturale'' su cui si fonda la famiglia nei suoi effetti civili - è forse un riconoscimento possibile in uno stato che si pretende fondato al di fuori di valori ideologici particolari? La sua conseguenza diretta è il rendere praticamente impossibile, e comunque illegale, la vita sessuale fuori dal matrimonio: come infatti regolarmente avviene con la definizione di reato di un fatto quale l'adulterio (punito, oltre che a norma di codice penale, nella persona dei discendenti degli adulteri, che - in evidente omaggio ad una concezione sacrotribale del diritto - saranno opportunamente privati di parte dei diritti loro spettanti, come ben s'addice al maledetto frutto di amori non consacrati). E se l'intrattenere rapporti con individui non sposati non è un reato da codice penale, non mancano certo alla nostra società gli strumenti per punire una cos

ì deplorevole costumanza. La legge riconosce il concetto di ``onere familiare'' e commina, come è noto, mitissime pene ai parenti della donna, nubile e maggiorenne che ella sia, che puniscono con la pena capitale chi si sia avventurato a goderne i favori. E sarà sempre possibile accusare di ``violenza presunta'' chi si sia azzardato ad amare una minorenne, spingendolo così ad un matrimonio che non solo santifica amplessi e ne legittima la prole, ma (mirabile potere dei sacramenti!) estingue le condanne penali.

Lo stato ha molta fiducia nella famiglia, e sa che - nelle mura della casa avita - ben difficilmente avverranno congiungimenti illegali. Egli per parte sua si limita a proibire di fare all'amore all'aria aperta (reato di ``atti osceni in luogo pubblico'') e nei pubblici locali, alberghi, e locande compresi, dato che un vivo senso del pubblico decoro, e la paura della polizia, impediscono agli albergatori di accogliere coppie illegittime.

Ma nell'intimità stessa del matrimonio la legge italiana ha le sue ragioni da far valere. Le coppie sposate possono andare a letto senza temere troppo l'arrivo dei carabinieri, è vero, ma il codice penale, proibendo la divulgazione dei metodi anticoncezionali, fa quel che può per assicurarsi che gli sposi provvedano, più che a soddisfare la propria deprecabile lussuria, a fornire allo stato futuri cittadini. E crediamo che nel dettare al legislatore questo articolo del codice abbia contribuito, oltre alla "Machtwille" mussoliniana, il ricordo del diritto canonico, che vuole appunto la ``procreatio e educatio prolis'' come fine primario del matrimonio. Che dal diritto canonico, a termini concordatari, derivi poi la concezione del matrimonio indissolubile è cosa tanto nota, tra di noi, che non mette neppure il caso di ripeterla.

Parliamo in tono scherzoso, ma non sono questi problemi su cui scherzare. Il caso delle libertà sessuali è uno dei casi gravi di violazione antilaica dei diritti individuali, di diretta influenza clericale sulla legislazione, di fonte di amarezze di soprusi per tutti i cittadini. Una politica dei diritti civili che non si ripromette di spazzare via tutti questi odiosi soprusi sarebbe veramente qualcosa di assurdo, di monco, di contraddittorio.

Tanto più oggi, quando l'evoluzione della società civile ha portato gran parte della popolazione a sentire come contraddittorio e nocivo l'insegnamento che in tema sessuale da secoli i clericali le hanno impartito. Questa avvertita contraddizione sconvolge e deforma gli stessi valori della vita sessuale, sì che su questa deformazione la società industriale ha potuto impiantare un sistema di commercializzare dell'erotismo. Esso sistema è tutto basato proprio sull'assunto di chi considera desiderabile il frutto proibito: e quindi è una commercializzazione e un commercio di valori erotici deformati, corrotti, estraniati, il che dà origine poi ad una ancor più ottusa reazione sensoria, coinvolgendo il clericalismo in un gioco di contraddizioni continue, nel quale gli unici a rimetterci sono "more solito" gli individui, dilacerati da contraddizioni e opposte sollecitazioni tali da rendere loro impossibile e una confacente vita sessuale e, se per ipotesi la preferissero, una stessa vita di austera astinenza. Non è

con la censura che si combatte la commercializzazione dei valori umani cui stiamo assistendo, ma proprio con quella liberalizzazione del costume che, sul piano che qui ci interessa, deve partire dall'annullamento delle norme vessatorie che abbiamo ricordato.

Abbiamo già detto che nostra trattazione non si proponeva fini di completezza, ma si basava soprattutto sulla nostra esperienza politica di questi anni. Evidentemente l'arco dei diritti civili non si esauriscono qui: basta ricordare i problemi posti dalla condizione operaia nelle fabbriche, delle libertà sindacali e simili, sui quali altri partiti della sinistra stanno conducendo una battaglia parallela alla nostra. E noi stessi dovremo ampliare il campo dei nostri interessi, affrontando il tema che potremmo definire del ``diritto civile al lavoro'', che comprende sia il diritto ad un posto di lavoro, sia quello della sua conservazione, fino a quello - cui abbiamo sopra accennato - delle garanzie di libertà nel lavoro.

Questa è una proposta di dibattito, ma il quadro che abbiamo fatto ci sembra ben riassumere il senso delle battaglie radicali di questi anni.

Particolarmente noi riteniamo che la battaglia per i diritti civili riveli la sua vera dimensione e il suo vero significato di battaglia laica e anticlericale, quando affronta i temi posti dai diritti civili ``nuovi'': quando cioè rivendica la necessità di superare anche il dettato costituzionale, nella definizione sempre meno approssimata di uno stato integralmente laico e libertario: quando cioè porta in primo piano il diritto della libertà di coscienza, e quindi il rifiuto di istituzioni e leggi, via via fino, in determinate condizioni di autoritarismo, al diritto all'insurrezione.

Ciò dà l'esatta misura del valore che hanno anche le più tradizionali battaglie contro lo stato di polizia, lo stato corporativo e lo stato clericale: battaglie - lo ripetiamo - non riformiste, perché si rivolgono contro gli strumenti di potere della classe dominante, e cercano di creare i presupposti stessi per la costruzione di un nuovo stato e di una nuova società.

Noi radicali abbiamo già da tempo affermato che i contenuti di queste battaglie sono i contenuti attraverso i quali è possibile il rinnovamento della lotta di sinistra in Italia. Riteniamo quindi di poter indicare a tutta la sinistra il valore libertario e socialista di questa politica laica ed anticlericale per i diritti civili.

 
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