di Gianfranco SpadacciaSOMMARIO: La relazione del Segretario del Pr Gianfranco Spadaccia al XVII Congresso del Partito radicale di Napoli (31 ottobre, 1, 2, 3 e 4 novembre 1976). La denuncia del compromesso storico e della incapacità del Pci di essere partito d'alternativa. Per battere queste tendenza è necessario al ricorso ai referendum popolari.
(NOTIZIE RADICALI n. 182, 15 novembre 1976)
"Compagne e compagni,
questo è forse il primo congresso della storia del Partito Radicale in cui la relazione del segretario può essere una relazione di sintesi o di proposta, il congresso straordinario di luglio scorso pur nel suo svolgimento caotico e nelle sue conclusioni affrettate, l'ampio dibattito che si è svolto nelle assemblee di associazione e nei congressi regionali, le cose scritte e pubblicate in preparazione di questo congresso, le lotte di questi mesi, quelle del Partito e quelle dei nostri compagni deputati in Parlamento, mi consentono di non appesantire i lavori con una lunga relazione di informazione e di analisi. Questo il primo contributo che per mio conto posso dare al migliore e più serrato svolgimento dei lavori perché il maggior numero possibile di compagni abbiano la possibilità di esprimersi e di partecipare al dibattito nelle commissioni e in assemblea. Su queste mi riservo successivamente di presentare precise proposte di ordine dei lavori, già discusse in segreteria e in Consiglio Federativo. Voi sape
te che la proposta centrale che sottopongo al congresso è che il partito si mobiliti nella prima metà del 1977 per portare un nuovo decisivo attacco al regime sul terreno della libertà e dei diritti civili, utilizzando lo strumento costituzionale dei referendum abrogativi. Credo che questo possa e debba essere l'obiettivo unificante di tutti i radicali, l'impegno prioritario e unitario dell'intero partito, dei partiti regionali, delle associazioni, dei movimenti federati secondo lo spirito del nostro statuto.
Un anno di lotte dure
Usciamo da un anno che è stato indiscutibilmente un anno di successi, di lotte dure e difficili, ma ancora una volta positive e vincenti per il partito. Nelle elezioni il partito ha sfondato quel muro del suono che è rappresentato per ogni forza nuova dalla difficoltà di convincere gli elettori che il consenso espresso con il voto non si disperderà. Siamo tutti in grado di valutare quale enorme strumento essenziale di lotta abbiamo conquistato con la modesta rappresentanza parlamentare strappata il 20 giugno. Organizzativamente il partito è più che raddoppiato per numero di iscritti, di sostenitori non iscritti, di associazioni radicali, di partiti regionali costituiti e operanti, mentre nuovi movimenti federati stanno costituendosi e affermandosi accanto a quelli già esistenti.
Politicamente i radicali hanno dimostrato con le lotte di questi mesi che il loro partito resta quello della non violenza, delle azioni dirette autogestite, della disubbidienza civile, un partito libertario autofinanziato, autogestito.
Dunque se adottassimo una ottica che non abbiamo mai avuto e che abbiamo sempre rifiutato, potremmo dirci soddisfatti; ma sarebbe l'ottica fallimentare del gruppuscolo chiuso in se stesso che si preoccupa della propria crescita e dell'aumento del consenso interno alle proprie posizioni e ai propri programmi. Ma se la nostra ambizione deve rimanere quella che è stata in questi anni, l'ambizione cioè di creare il partito dell'alternativa, di creare e costruire la componente socialista e libertaria della sinistra italiana, allora l'ottica con cui dobbiamo guardare la situazione del partito è del tutto opposta, non possiamo essere soddisfatti, dobbiamo essere preoccupati, la sproporzione tra i mezzi e il fine è enorme, il cammino da percorrere è estremamente accidentato e irto di difficoltà, siamo ancora una cosa piccola piccolissima, rispetto al grande obiettivo che ci proponiamo. Non possiamo dunque neppure per un momento estraniarci dalla realtà del paese, dei processi politici in atto e dei loro pericolosi s
viluppi.
Confronto con il PCI
Abbiamo il dovere di confrontarci, oggi più che mai, con la strategia del partito Comunista, non per spirito polemico o settario, non per anticomunismo, come stupidamente ci rimproverano, ma al contrario perché siamo convinti che non debbano essere disperse le grandi speranze di rinnovamento e di alternativa che si sono espresse dal 13 maggio in poi nell'aumento del consenso elettorale comunista.
Rileggiamoci, compagni, quelle parti delle analisi contenute nelle mozioni degli ultimi due congressi di Milano e di Firenze, laddove dicevano che le cause della crisi economica del paese erano innanzitutto politiche, che non si risolveva la crisi economica se non si aggrediva e non si rompeva l'assetto di potere, l'assetto corporativo su cui si regge il potere di classe nel nostro paese, che i sacrifici di questa crisi sarebbero stati pagati dalla classe operaia e dalle classi più deboli e indifese, che nessuna ideologia classista o rivoluzionaria o estremista poteva eludere questa realtà, che proprio per questo la sinistra che rappresenta le classi sociali che sono chiamate a sostenere i maggiori sacrifici non poteva illudersi di risolvere e superare la crisi in cogestione con le forze e con gli interessi che ne erano e sono responsabili.
Confrontiamo quelle analisi con quanto sta accadendo in questi giorni nel paese. Amendola ha ragione quando dice che la classe operaia deve far sua la lotta all'inflazione. Ma Amendola ha torto, sbaglia, illude la classe operaia e fa sbagliare il suo partito quando dice che questa lotta può essere affrontata vittoriosamente da sinistra con l'attuale politica di alleanze del suo partito. La contraddizione da questo punto di vista nella relazione di Berlinguer tra l'analisi della situazione economica, politica, sociale e istituzionale del paese, che potrebbe essere sottoscritta da qualsiasi radicale, e le proposte politiche che seguono quell'analisi non potrebbe essere più stridente.
Berlinguer, Longo Amendola
Lo stesso Berlinguer ha poi definito angosciate le considerazioni che Longo ha fatto nel suo intervento al Comitato centrale. Io non credo che Longo sia facilmente incline agli stati d'ansia e d'angoscia. Penso piuttosto che nel suo intervento abbia voluto dare drammaticamente espressione a preoccupazioni e dubbi che esistono in tutta la sinistra e non solo nel PCI ma soprattutto tra le masse popolari. E credo che più nelle polemiche con Amendola e con Peggio, questa preoccupazione si sia espressa soprattutto nella constatazione, amara e drammatica perché vera, che la DC non ha mutato in nulla il suo modo di governare nonostante l'astensione comunista. Noi diciamo che per cambiare il modo di governare è necessario attuare la Costituzione, eliminare finalmente le leggi, gli ordinamenti, la prassi corporativa autoritaria, clericale e fascista.
Ma per fare questo sarebbe necessario credere profondamente nella democrazia politica, nel confronto democratico, nel paese e nel Parlamento.
E invece si è seguita la strada degli accordi al vertice, ieri fra i partiti del cosiddetto arco costituzionale, oggi tra i partiti del cosiddetto "arco democratico" svuotando della loro sovranità le assemblee elettive e dei loro diritti i singoli parlamentari. Sarebbe stato necessario seguire la strada dell'unità, o almeno del confronto e del dialogo a sinistra, fra tutte le forze della sinistra, invece si è seguita la strada delle macchinazioni a sinistra delle forze che sono ritenute scomode e che si ritiene possano intralciare i propri disegni politici. Sarebbe necessario, come noi da anni chiediamo e sollecitiamo, un confronto, un dibattito nel Paese interno a un programma comune della sinistra di profonde trasformazioni economiche, sociali o istituzionali, e invece con mesi ed anni di ritardo si ha tutt'al più qualche incontro bilaterale PCI-PSI sui problemi dell'emergenza. Sarebbe necessario affrontare con chiarezza i problemi centrali, i nodi fondamentali dell'assetto di potere dell'attuale regime e
invece le libertà e i diritti civili sono considerati il terreno privilegiato del compromesso con la DC, con la Chiesa, di fatto con tutti i corpo separati dello Stato, che sono i veri bracci esecutivi del regime, e con tutte le grandi corporazioni del potere.
Non tradire le speranze di alternative nel paese
Stiamo verificando proprio oggi che esiste un nesso inscindibile fra la politica e dei diritti civili e la politica di trasformazione economica e sociale della società e dello Stato. La prima è condizione della seconda. Se si trascura questo nesso se si pretende di ignorarlo, l'Italia del sottosviluppo culturale e civile prima che economico e sociale non potrà essere sconfitta. Le grandi speranze alternative della maggioranza del Paese, quella di già attuale ma soprattutto quella molto più ampia ancora potenziale rischia di tramutarsi in disillusione e disperazione e di investire l'intera sinistra. Proprio mentre i costi sociali della crisi diventano gravissimi e si traducono in disoccupazione per gli operai delle fabbriche in crisi, in inutile attesa della occupazione per i giovani, in un sempre più grave massacro di classe per gli emarginati sociali e civili del Paese; in condizioni intollerabili per milioni di donne, il processo di corporativizzazione della vita pubblica si estende ad ogni livello e viene
aggravato nelle strutture produttive dei meccanismi assistenziali della cosiddetta "riconversione industriale", il capitalismo di rapina saccheggia il patrimonio pubblico e la ricchezza nazionale, le forze che hanno determinato la crisi puntano proprio sulla crisi per ricreare le loro forze e mantenere il loro potere. La sinistra ha di fronte a sé le stesse scelte e le stesse occasioni che le si presentarono e anni fa come e come trenta anni fa rischia di compiere scelte sbagliate che varranno poi per un'altra generazione e di perdere poi un'altra occasione storica. Nei prossimi due anni si deciderà l'assetto istituzionale che lo Stato avrà nei prossimi 30 anni. Oggi come allora la scelta è se ricostruire lo Stato corporativo, autoritario, nella sostanza fascista, dietro la facciata di un adeguamento soltanto formale alla Costituzione e portare a compimento quella rivoluzione democratica di cui anche Gramsci e Togliatti hanno parlato e di cui anche il PCI parla.
Le nostre analisi sono giuste e confermate dai fatti ma anche le analisi sono in insufficienti, se non seguite da iniziative conseguenti, da una strategia politica corrente, dalla volontà di pesare su indirizzi politici e sui processi politici e di condizionarli, di imporre un nuovo consenso e con la non violenza le idee, le prospettive e i valori in cui si crede. Non si è una forza politica se non si riesce in questo. Meno che mai si può pretendere di contribuire alla formazione di una grande forza socialista e libertaria e alla costruzione d'una alternativa laica libertaria e socialista in concorso con il PCI e con ciò che di positivo rappresenta il PCI nella storia della sinistra del nostro Paese.
Le contraddizioni agiscono e possono esplodere sotto gli equilibri politici che si sono determinati dopo il 20 giugno e possono tradursi in nuovi passi avanti verso forme più dirette di cogestione di partecipazione comunista alla gestione del potere. Lo dimostrano i fatti di questi giorni, la lettera di Berlinguer, la risposta della DC. Manca con ogni evidenza il protagonista socialista, intendo il protagonista di un progetto alternativo, non per protagonista che partecipa al dibattito politico come forza secondaria, trattato come ospite e osservatore.
Possiamo fare in modo che questo protagonista socialista cominci ad affermarsi nei prossimi mesi ed anni soltanto se avremo fatto nei prossimi mesi fino in fondo il nostro dovere di antagonisti radicali del regime e dei suoi equilibri politici.
Ciò che era importante nella precedente legislatura diventa essenziale oggi. Dobbiamo immettere, con i referendum un meccanismo alternativo, di base, di democrazia diretta, costruito dalla volontà e dal consenso di centinaia di migliaia di compagni e compagne, di cittadini e lavoratori sotto gli equilibri politici che si stanno delineando, sotto le scelte che si stanno preparando. Dobbiamo obbligare tutte le forze politiche e in primo luogo il PCI con questo progetto e con questa volontà alternativa. Dobbiamo offrire sbocco politico generale a tutti coloro che lottano nel paese; in fabbrica, nei quartieri, nelle piazze nelle scuole. Ciò in cui siamo falliti ieri non può e non deve fallire oggi.
Una raffica di referendum contro la DC
Oggi ci conoscono bene e ci aspettano per chiuderci ogni possibile varco. Oggi sarebbe illusorio pensare di poter supplire ad un nostro nuovo insuccesso cogli errori dell'avversario come avvenne nel 1974 (referendum sul divorzio imposto da Fanfani) e nel 1975 (arresti di Adele Faccio e mio a Firenze per l'aborto) o con drammatiche iniziative non violente condotte quasi al limite del suicidio come Marco e molti di noi siamo stati costretti a fare dopo il 13 maggio 1974 o alla vigilia di queste elezioni politiche. Questa volta, se è vero che il partito è cresciuto, deve passare attraverso questa prova collettiva, concentrare e non disperdere le energie, battere gli ostacoli che ci saranno opposti.
Se nell'ingranaggio degli altri disegni e processi politici di normalizzazione saranno riusciti nel corso del 1977 a erigere una barriera alternativa non di uno e neppure di pochi ma di molti referendum, allora potremo pensare di aver creato una solida base per fare del partito radicale il protagonista indispensabile della rifondazione e della rinascita socialista e potremo cominciare ad agire non più e non soltanto come antagonisti del regime ma come protagonisti di un progetto alternativo. Col varco che ci saremo aperti potremo rafforzare e allargare le nostre lotte di liberazione: quella di liberazione femminile, sessuale e degli emarginati, quelle che riguardano le minoranze e quelle che riguardano le maggioranze, quella infine per liberare la democrazia politica dai ceppi delle lottizzazioni corporative e delle espropriazioni classiste e autoritarie e per aprire, attraverso questa via e non attraverso quella disperata e suicida della violenza rivoluzionaria, la prospettiva del socialismo.
Senza di questa, al di fuori di questa, cosa rimane? Quale alternativa avremmo?
E' questo il senso dell'altra proposta che sottopongo al congresso, che il partito non si impegni per un solo anno per il 1977 in nessuna prova elettorale parziale, né universitaria, né di quartiere, né comunale o provinciale. Non è una proposta formale è una proposta che si affida al senso di responsabilità di ogni associazione e di ogni partito regionale oltre che alla valutazione politica del congresso. Non c'è in essa alcuno spirito elettoralistico nessuna sottovalutazione di ruolo che hanno le assemblee elettive locali e il decentramento amministrativo delle grandi città.
Gli obiettivi prioritari
E' una proposta che nasce dalla valutazione dello stato attuale di crescita del partito da quelli che ritengo debbano essere nel 1977 i suoi obiettivi prioritari. Esiste per noi una posizione di rendita elettorale, un piccolo spazio di rappresentanza e di potere che possiamo avere la tentazione di andare ad occupare. Se lo facessimo con le forze attuali del partito senza la preparazione derivante dalle lotte specifiche di base, senza programmi o con programmi improvvisati disperderemmo le energie e ci faremmo per la prima volta assorbire dai meccanismi abituali della vita politica italiana. Per la prima volta ci faremmo imporre l'attualità dettata dagli equilibri politici esterni invece di imporre al regime e alle altre forze politiche l'attualità delle nostre lotte e dei nostri obiettivi.
Per anni la nostra forza è dipesa dal fatto che siamo riusciti a confrontarci col regime su alcuni temi centrali della lotta politica, che eravamo gli unici a volere e a imporre e che erano suscettibili, se portati avanti con successo, di sconvolgere gli equilibri politici del regime, affermando e facendo fare passi avanti alla nostra strategia alternativa.
E' stato questo il significato della nostra politica complessiva dei diritti civili. Ma senza il divorzio prima e senza l'aborto poi, e le lotte che su queste siamo riusciti ad innestare, la politica radicale e il Partito Radicale sarebbero stati definitivamente sconfitti e travolti. A sinistra del PCI sarebbero certo rimaste alte forze che avrebbero potuto avere nel breve periodo successi politici ed anche elettorali, che avrebbero anche potuto dare la sensazione di supplire all'assenza di una forza radicale socialista e libertaria, ma che in realtà senza la strategia e senza la metodologia e l'azione non violenta del Partito Radicale non avrebbero avuto, come in effetti non hanno avuto e non hanno la possibilità di modificare la sinistra italiana e la sua politica e di confrontarsi con la strategia del PCI. Certo i rischi che il Partito Radicale e la politica radicale corre oggi sono diversi che nel passato.
Chi tentava ieri di abrogarci e di tagliarci fuori dalla lotta politica oggi non può più farlo. Oggi cerca di emarginarci in forme diverse spingendoci ad accettare il posticino che ci è riservato e che il 20 di giugno ci siamo conquistati all'interno degli attuali equilibri politici e parlamentari. Sono disposti ad accettarci purché restiamo al nostro posto, purché il partito stia al proprio posto e non pretenda di turbare gli equilibri politici e i grandi disegni strategici delle altre forze politiche, purché i nostri 4 deputati accettino in Parlamento i posti che gli altri gli hanno assegnato. Vediamo quindi che la battaglia dei posti ha un valore meno effimero di quel che si pretende di attribuirgli, ha un valore simbolico. Certo a queste condizioni il partito può anche sopravvivere come un qualsiasi altro partito del regime. Ma di partiti così ce ne sono fin troppi in Italia. Morirebbe invece e non riuscirebbe a vivere il partito che abbiamo promosso e voluto, quello che da antagonista radicale deve fin
da oggi cominciare a porre il problema e l'obiettivo ambito di diventare il protagonista della rinascita socialista e libertaria, il protagonista di un progetto alternativo socialista libertario di trasformazione della società e dello stato.
Ma per far questo non ci sono scorciatoie. Il protagonista socialista è una forza politica che riesce a proporre, a creare un senso di classe intorno a grandi e precisi progetti di conversione delle strutture produttive e soprattutto delle strutture improduttive, corporative e parassitarie che esistono nel paese. Dobbiamo e possiamo cominciare oggi a pensare a questo compito che non si improvvisa. Dobbiamo e possiamo cominciare a pensare di darci gli strumenti per affrontarlo. Ma sarebbe uno sforzo vano se nel frattempo ci fossimo disinteressati di ciò che avviene negli equilibri politici del paese, se ci fossimo disinteressati delle condizioni generali della democrazia.