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Amato Giuliano - 25 maggio 1977
12 maggio: divieto legale?
di Giuliano Amato

"Abbiamo chiesto a Giuliano Amato, costituzionalista e membro della redazione di "Mondoperaio", di voler essere editorialista ospite sulla questione di legittimità del divieto della manifestazione del 12 maggio a Roma".

SOMMARIO: I provvedimenti contenuti nell'articolo 214 del testo unico di P.S. operano una sospensione dei diritti della Costituzione. Alcuni costituzionalisti considerano l'articolo abrogato dalla Costituzione. In ogni caso tutti i giuristi sono concorcordi nel ritenere che per operare un sospensione della Costituzione è necessario un provvedimento del Governo di cui diviene direttamente responsabile davanti al Parlamento.

IPer queste ragioni è stato molto grave prevedere questa sospensione attraverso un atto del prefetto.

(ARGOMENTI RADICALI - BIMESTRALE POLITICO PER L'ALTERNATIVA - anno I, n. 2, giugno-luglio 1977)

Voglio premettere che personalmente non ho difficoltà a ritenere opportuno, in una situazione come quella romana di fine aprile, il divieto di tenere riunioni e manifestazioni in pubblico. Non so quanto sia d'accordo con me la Rivista che mi ospita, ma arrivo a dire che questa opportunità mi pare esistesse anche nei confronti di manifestazioni organizzate da movimenti e gruppi notoriamente non violenti. Il rischio delle infiltrazioni è sempre elevatissimo e sarebbe utopistico pensare ad un servizio d'ordine della stessa polizia inteso a prevenirle.

Questo non mi esime dal chiedermi come un divieto del genere possa essere adottato e che cosa esso rappresenti per la libertà di riunione espressamente regolata nel testo costituzionale.

La Costituzione non prevede che la libertà di riunione possa essere indiscriminatamente sospesa per un certo periodo di tempo. Essa stabilisce che delle riunioni in luogo pubblico debba essere dato preavviso e che le autorità possano vietarle per comprovati motivi di sicurezza e di incolumità pubblica. Una disciplina così congegnata fa pensare che, in base alla Costituzione, le autorità possano agire soltanto di rimessa, rispondendo con singoli divieti a singoli preavvisi; non che abbiano anche il potere di vietare prima del preavviso e in via generale.

Un potere del genere è pertanto "extra ordinem". Dobbiamo essere consapevoli del fatto che prevederne l'esercizio significa dar luogo ad una sospensione, sia pure parziale e limitata, della Costituzione. Ciò non significa che la cosa sia pregiudizialmente inammissibile ed esclusa. La necessità è sempre stata intesa, dai costituzionalisti, come un presupposto idoneo a consentire la stessa sospensione della Costituzione. Ma in quale modo e con quali forme?

Il governo, per quel che ne sappiamo, ha scelto la strada, contestatissima ma già collaudata (anche se per provvedimenti di minore portata), dell'art. 2 del Testo unico di pubblica sicurezza. Il divieto perciò, contrariamente a quanto a molti è sembrato, non l'ha adottato il Ministro degli Interni, bensì il prefetto di Roma. L'art. 2 dice infatti che "il prefetto, nel caso di urgenza e per grave necessità pubblica, ha facoltà di adottare i provvedimenti indispensabili per la tutela dell'ordine pubblico e della sicurezza pubblica".

Si tratta - come si vede - di una disposizione dal contenuto molto ampio, che consente di fare di tutto e di colpire perciò qualunque libertà costituzionale, anche al di fuori dei casi e dei presupposti indicati dalla Costituzione. Proprio per questo negli anni '50 i prefetti guidati da Mario Scelba la usarono molto contro le manifestazioni, il volantinaggio e la distribuzione della stampa dei comunisti. E sorsero controversie a non finire, parendo a molti che dopo il 1948 un potere così vasto i prefetti non lo potessero avere. Della cosa per due volte si è occupata la Corte Costituzionale. La prima volta, nel 1956, essa disse che l'art. 2 era in linea di massima legittimo e che non toccava a lei accertare se i prefetti lo usavano nei limiti consentiti dalla Costituzione. La seconda volta, nel 1961, fu molto più restrittiva e disse che la norma si poteva salvare solo se la si intendeva come non derogatoria rispetto ai principi dell'ordinamento e alle garanzie della Costituzione.

Il senso della posizione della Corte - che fa testo ancora oggi - è molto chiaro: non è attraverso il potere di ordinanza dei prefetti che si può arrivare a sospendere le garanzie costituzionali. Questo non ha impedito che dal 1961 quel potere venisse ancora utilizzato. Ma lo si è fatto molto più raramente di prima e con gran pudore ed imbarazzo. Si è sempre stati consapevoli, da allora, di operare su un fondamento assai malsicuro. Il divieto di manifestare pubblicamente a Roma per 40 giorni è certamente la misura più grave che sia stata adottata dal 1948 nei confronti di una libertà costituzionale. E' sicuramente una sospensione della Costituzione. Averlo adottato con l'art. 2 (che mai era stato portato fino a questo punto) significa senz'ombra di dubbio essersi discostati dalla giurisprudenza della Corte Costituzionale. C'erano altri strumenti per farlo?

Il Testo unico di pubblica sicurezza del 1931, che com'è noto è quello ancora oggi vigente, conteneva una norma, l'art. 214, secondo cui "nel caso di pericolo di disordini, il Ministro dell'Interno con l'assenso del Presidente del Consiglio dei Ministri, e i prefetti, per delegazione, possono dichiarare, con decreto, lo stato di pericolo pubblico". Un illustre amministrativista, Aldo Sandulli, ha scritto che questa norma può ancora considerarsi operante e che incompatibile con la Costituzione è invece il successivo art. 215, secondo cui, sulla base dello stato di pericolo dichiarato ai sensi dell'art. 214, il prefetto può far arrestare chiunque. Tra i costituzionalisti invece prevale l'opinione, sostenuta da Costantino Mortati e da Carlo Esposito, che l'art. 214 sia stato abrogato dalla Costituzione e che il governo, per fronteggiare lo stato di pericolo pubblico, debba intervenire con decreto-legge, anche se intende adottare soltanto limitazioni e divieti specifici. Mortati precisa che un decreto-legge del

genere non avrebbe neppure bisogno di essere convertito in legge e che dovrebbe essere sottoposto al Parlamento per il solo giudizio di responsabilità. Non ci perdiamo comunque nelle dispute tra i giuristi. Quel che conta è che tutte le opinioni indicate richiedono per la sospensione della Costituzione (anche se limitata) un provvedimento del Governo di cui questo, in una forma o nell'altra, diviene direttamente responsabile davanti al Parlamento.

In questa prospettiva, il comportamento seguito in questa occasione appare molto grave e non basta a giustificarlo la oggettiva gravità della situazione che si doveva affrontare. Doveva essere proprio questa, caso mai, a suggerire al Governo una diretta assunzione di responsabilità, senza nascondersi dietro un potere del prefetto di fondamento assai dubbio. Oltre a tutto, dietro l'art. 2 ci si è proprio nascosti, perché si è adottata una decisione tanto drastica in una sorta di semiclandestinità. Il decreto infatti non risulta pubblicato e ne era soltanto prevista la notificazione ai partiti, alle associazioni e alle altre "persone interessate": si sospende la Costituzione e lo si notifica alle "persone interessate"?

Ma lasciamo andare. Che il Ministro dell'Interno sia passato attraverso il prefetto di Roma è servito a sottrarre la sua decisione (perché la decisione è stata sua) alla valutazione delle Camere. E si noti che da questa valutazione non avrebbe avuto nulla da temere per il tenore della misura che gli stava a cuore. Anche a non accettare l'opinione di Mortati che prima riferivo, un decreto-legge approvato dal Governo il 22 aprile e destinato a scadere il 31 maggio era di fatto immodificabile, perché si esauriva prima dei 60 giorni previsti per la conversione.

Alla leggerezza costituzionale del Ministro fa da "pendant" quella delle forze politiche maggiori, specie di chi in questi mesi ci ha tanto parlato della centralità del parlamento. Un'occasione come questa era più unica che rara per fare di tale centralità un tema non soltanto di discorsi; e per dimostrare quanto ripetutamente è stato scritto, e cioè che un modo nuovo e diverso dei partiti di stare nello Stato è quello di assumere ciascuno le proprie responsabilità in Parlamento, anziché raggiungere accordi e disaccordi nei paraggi delle istituzioni. A meno che tutti, questa volta, non abbiano preferito rifuggire dalle proprie responsabilità, nonostante nel merito fossero d'accordo.

Questa sì che sarebbe però una pericolosa doppiezza. Un carico troppo pesante per rovesciarlo, come invece si è fatto, sulle spalle del prefetto di Roma.

 
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