di Valerio OnidaSOMMARIO: Due questioni vengono essenzialmente affrontati nel corso del convegno, quella dell'istituto del referendum che progetti di legge comunisti, socialdemocratici, democristiani sottopongono a revisioni più o meno decise e il disegno di legge governativo in tema di ordine pubblico. Questi due temi vengono affrontati in relazione ai principi stabiliti dalla Carta Costituzionale.
("REFERENDUM ORDINE PUBBLICO COSTITUZIONE", Rispondono i giuristi. Atti del convegno giuridico organizzato dal gruppo parlamentare radicale - A cura di Ernesto Bettinelli e Luca Boneschi - Tascabili Bompiani, marzo 1978)
1. La legislazione di attuazione delle norme costituzionali sul referendum è nata sotto cattiva stella. Varata, a ventidue anni dall'entrata in vigore della Carta, più in omaggio alla necessità di assicurare alla DC e a una parte del mondo cattolico la possibilità di utilizzare l'arma referendaria nel momento della controversa introduzione del divorzio, soggetta ad aspre discussioni interpretative durante tutta la convulsa fase che ha preceduto il referendum del 12-5-1974, anche in seguito, e ancora oggi, è rimessa in discussione sotto l'ombra incombente di altri referendum le cui scadenze si vanno avvicinando. Questa connessione, che facilmente diviene strumentalità, fra dibattito sulla disciplina dell'istituto del referendum e specifiche vicende legislative e specifiche richieste di referendum non ha certo favorito un dibattito sereno e una considerazione distesa delle soluzioni migliori, dei difetti della legge, delle innovazioni proposte.
Non v'è dubbio che l'esperienza e il dibattito di questi anni hanno messo in luce non poche lacune, oscurità, incongruenze, difficoltà di applicazione dell'attuale testo della legge 352 del 1970. Come pure non sono poche e non poco autorevoli le voci degli studiosi che hanno sollevato seri dubbi di costituzionalità (alcuni dei quali a me paiono seriamente motivati) su talune disposizioni di essa.
Non si può quindi non concordare sulla opportunità o necessità di procedere ad una compiuta revisione della disciplina in questione. Ma, come ho detto, è anzitutto necessario cercare di discutere di questi argomenti fuori dalla pressione di contingenti interessi politici particolari, come quelli che possono spingere taluni o molti a considerare con timore o preoccupazione lo svolgimento prossimo di alcune consultazioni, o altri invece a desiderarle, e fuori da polemiche strumentali o di schieramento: andando al fondo dei vari problemi per cogliere il significato complessivo, in tema di politica istituzionale che hanno le varie proposte.
Non voglio affermare che le proposte oggi in discussione sono più o meno direttamente strumentali a intenti particolari relativi ai referendum già chiesti; non mi interessa, qui, cercare di capire se strumentalità c'è e quanta. Mi limito a constatare un clima, che ha quasi sempre caratterizzato questi dibattiti.
Lo sforzo che vorrei compiere è di valutare queste proposte per il loro contenuto oggettivo e per la tendenza complessiva che esse esprimono.
A questa considerazione analitica approfondita delle proposte invitano del resto gli stessi proponenti, in particolare i comunisti, che dichiarano esplicitamente di considerare i loro progetti come aperti ad ogni integrazione o modifica o critica, e altrettanto esplicitamente dichiarano, per quanto attiene alle proposte di modifica della Costituzione, di essere convinti che ``quando si intendono apportare cambiamenti nel sistema costituzionale, sono necessarie una larga conoscenza di opinioni, la formazione di un ampio schieramento di forze politiche che li portino avanti, il sostegno di un vasto movimento nel paese'' (relaz. pdl cost. n. 1577).
2. Come è noto, ci troviamo di fronte a due ordini di iniziative:
a) le tre proposte di legge costituzionale presentate alla Camere (democratica cristiana - Bianco e altri, del 2 giugno 1977, n. 1510; socialdemocratica - Preti e altri, del 4 giugno, n. 1514; comunista - Colonna e altri, del 30 giugno, n. 1577), il cui oggetto è limitato: nel caso delle prime due, alla modifica del numero di elettori che possono chiedere il referendum, e nella terza, oltre a questo aspetto, ad una innovazione circa la maggioranza necessaria per l'brogazione della legge sottoposta a referendum;
b) la proposta di legge ordinaria comunista (Colonna e altri) presentata alla Camera il 30 giugno, n. 1578, che modifica numerosi punti della legge 352. Va aggiunto che di recente si è parlato di intenzioni del governo di proporre a sua volta talune novità in materia; intenzioni peraltro finora non estrinsecate pubblicamente. Mentre tutt'altro carattere ha il dl presentato alla Camera il 29 Marzo scorso (n. 1308) tendente a regolamentare le operazioni di verifica della firma degli elettori che presentino richieste di referendum: proposta prettamente tecnica, e anche abbastanza razionale nel suo complesso, a parte dubbi marginali che anch'essa può suscitare. Su di essa non mette conto qui soffermarsi.
3. Farò comunque un breve esame dei punti salienti delle proposte più significative, (e mi scuso se dovrò essere un po' analitico e tecnico, ma l'argomento lo impone) per poi rapidamente introdurre alcune considerazioni più generali, al solo scopo di introdurre il dibattito.
Un primo punto è comune a tutte tre le proposte di legge costituzionale: la proposta di elevare a 1 milione il numero delle firme necessarie per la richiesta popolare di referendum abrogativo, nonché - per la proposta PCI e quella DC - anche quello delle firme necessarie per la richiesta popolare di referendum costituzionale.
La terza proposta socialdemocratica, per la verità più rozza e meno motivata delle altre, si limita ad elevare il numero per il referendum abrogativo, lasciando intatto quello per il referendum costituzionale. Su questo punto c'è da fare qualche considerazione di merito, e da porre poi il problema dell'applicabilità della nuova norma, ove mai dovesse essere approvata, ai referendum già richiesti.
Anzitutto, il "merito". Contro certi tentativi di presentazione riduttiva, la proposta di elevare il quorum non appare affatto una semplice proposta ``tecnica'', intesa ad adeguare la cifra scritta in Costituzione all'ampliamento verificatosi nel corpo elettorale. Essa è qualcosa di più e di diverso. Si sostiene che la proposta tende a rispettare la volontà della Costituente, tenendo conto del mutamento della realtà di fatto. Ma, se così fosse, anzitutto, non si comprenderebbe perché il quorum viene elevato "anche proporzionalmente" rispetto a quello attuale. Un semplice adeguamento alla crescita del numero di elettori (verificatosi in misura di circa il 45% dal 1946 al 1976) dovrebbe far giungere alla cifra di circa 725.000 firme: se si volesse poi mantenere il rapporto tra il numero degli elettori efficienti nel 1946 e quello degli elettori efficienti oggi, secondo la discutibile tesi dei proponenti DC, considerandosi tutti i voti validi, l'aumento è del 60%, tale che porterebbe la cifra a circa 800.000. F
issando la cifra di 1 milione, si sale quindi da una percentuale del 1,78%, in atto quando il testo costituzionale fu approvato (500.000 elettori su circa 28 milioni) ad una percentuale del 2,46% (1 milione su circa 40 milioni).
Si osserva, però, che oggi le condizioni per la raccolta di firme sono per certi versi più facili. La tesi è opinabile: sia perché la moltiplicazione degli strumenti di comunicazione, e quindi dei messaggi che raggiungono i cittadini, può rendere anche più difficile, anziché più facile, l'aggregazione e il successo di iniziative; sia perché, quando nel 1947 si fissò la cifra di 500.000 elettori, si aveva presente una situazione nella quale si riteneva che solo i grandi partiti organizzati nel paese avrebbero avuto la possibilità e l'interesse a utilizzare lo strumento referendario (e da questo punto di vista si affermava che non sarebbe stato difficile raccogliere le firme). Mentre oggi la congruità del quorum andrebbe valutata in rapporto alla maggiore articolazione assunta dalla società, e quindi alla capacità e possibilità di promuovere tali iniziative non già solo da parte di grandi forze organizzate, ma anche da parte di minoranze esterne e marginali rispetto al sistema di tali forze. Ritorneremo, più t
ardi, su questo punto.
Ma chi ha detto, poi, che la volontà della Costituente fu nel senso di stabilire un numero che rapresentasse una certa quota - che proporzionalmente non dovrebbe variare - dell'elettorato?
Se si sanno leggere gli atti della Costituente, si constata solo che l'iniziale proposta di Mortati per il referendum costituzionale contemplava il numero di 500.000 elettori per l'"iniziativa" della revisione costituzionale; che tale cifra fu assunto nella proposta Perassi, relativa al referendum costituzionale facoltativo, approvato dalla Sottocommissione, mentre venne respinta una proposta di Nobile che avrebbe voluto fissare la cifra di 1 milione; che in sede di discussione sul "referendum ordinario" (si trattava allora di quello sospensivo, poi caduto) - essendosi prima partiti dalla considerazione di rapporti percentuali (1/20 o 1/40 degli elettori) -, poi fu fatta propria da Mortati, e accettata dalla Sottocommissione; di stabilire cioè una cifra fissa, anziché percentuale, e precisamente la stessa cifra già stabilita per il referendum costituzionale: 500.000 elettori; mentre una proposta di Fabbri di fissare la cifra di 300.000 elettori non venne approvata. La scelta della cifra fissa anziché percent
uale non fu dunque fatta a caso; e del resto, come è noto, dove si volle tener conto del futuro progressivo mutamento nel numero di elettori, ai fini cioè della composizione delle Camere, la Costituzione si riferì a un dato ``mobile'' anziché fisso (1 deputato ogni 80.000, un senatore ogni 200.000).
Ma c'è un'altra osservazione da fare. Non è vero che, in termini di facilità di utilizzo dell'istituto ristabilendo la proporzione iniziale (che peraltro, come si è detto, oggi si vorrebbe in realtà elevare), nulla cambierebbe. E' facile intuire, infatti, che, quando si debbano raccogliere adesioni di un numero elevato di persone, - in un tempo assai breve, come è nel nostro caso - la facilità di trovarle non cresce proporzionalmente con il numero complessivo dei potenziali aderenti (nel nostro caso gli elettori). Al di sopra di certe cifre, le difficoltà aumentano più che proporzionalmente. Donde anche la scarsa persuasività di ogni paragone con ordinamenti di Stati in cui il numero di elettori è molto più ristretto che in Italia.
Dunque, perché si vorrebbe oggi elevare la cifra stabilita dall'art. 75 (e dall'art. 138) della Costituzione mentre per altre cifre (ad esempio, numero di elettori per l'iniziativa legislativa popolare, numero di voti necessari per concorrere alla ridistribuzione dei resti alle elezioni della Camera) non si propongono variazioni, nonostante la crescita degli elettori, o addirittura tali cifre sono state abbassate di recente (numero di elettori che debbono presentare le liste per l'elezione della Camera - ove non si tratti di partito o gruppo presente in Parlamento - portato rispettivamente, nel minimo, da 500 a 350 per la Camera: art. 1 legge 23-4-76 n. 123)?
E' vero che nella proposta DC si accennava all'opportunità di rivedere anche altri quorum (fra cui quello per concorrere alla distribuzione dei seggi alle elezioni politiche). Ma quello del referendum viene giudicato ``il problema... più urgente i più importante, perché mette in gioco la stessa funzione del Parlamento e - al limite - lo stesso carattere essenziale del regime parlamentare''.
Non siamo, allora, in presenza di un generale tentativo di razionalizzazione ``tecnica'' delle cifre, ma di un'iniziativa specificamente diretta a rendere più difficile la richiesta e lo svolgimento di referendum, motivata agitando lo spettro dell'orgia di referendum che potrebbe travolgere il regime parlamentare. Si va dunque al cuore del problema, e diventano decisive le considerazioni che fra un momento accennerò su aspetti più generali della questione.
4. C'è poi ancora, come ho detto, il problema degli effetti che avrebbe la nuova disciplina su eventuali procedimenti referendari in corso all'atto della sua entrata in vigore.
L'on. Colonna in un'intervista a "Paese Sera" del 18 settembre smentisce qualsiasi connessione fra le proposte PCI e i referendum già chiesti; e ricorda che il procedimento di revisione costituzionale, per la sua lunghezza, richiede almeno 6 mesi, onde i referendum promossi dai radicali si sarebbero già svolti da un pezzo quando la modifica entrasse in vigore. Eppure il problema resta, perché le proposte di leggi - quella dell'on. Colonna e le altre - non dicono nulla circa la loro applicazione nel tempo, e perché non è detto che, soprattutto nella sciagurata ipotesi di uno scioglimento anticipato delle Camere, con conseguente slittamento dei referendum già chiesti, non si ponga anche in concreto la questione. Su questo credo si debba essere molto chiari; teoricamente, forse, nulla impedirebbe, sul piano costituzionale, di sancire in questa materia una disciplina retroattiva, cioè applicabile a referendum già richiesti. Ma appunto di retroattività si tratterebbe; e una simile scelta costituirebbe una grave s
correttezza politica, perché non v'è dubbio che con il deposito delle firme si è chiusa una fase del procedimento, si è prodotto un effetto - l'attivazione delle ulteriori fasi - che non dovrebbe venir meno in forza di uno "jus superveniens", che disciplini in modo nuovo la fase già chiusa (quella della richiesta di referendum, quanto ai requisiti). I sottoscrittori hanno consolidato un loro diritto a vedere regolarmente svolgersi la consultazione salvo il venir meno dell'oggetto della stessa.
Per questo credo che l'eventuale modifica costituzionale, se conforme al testo che oggi abbiamo di fronte, dovrebbe interpretarsi come non applicabile ai referendum per i quali già sia stata depositata la richiesta con le firme di almeno 500.000 elettori, ma che ancora non sono stati indetti. Per altro verso, però, il silenzio delle proposte su questi problemi di diritto intertemporale - che finirebbero per essere risolti dalla Corte di cassazione - non può non preoccupare.
5. La seconda modifica costituzionale, proposta dal solo PCI, tende ad affermare che la legge sottoposta a referendum è abrogata solo se la proposta stessa è approvata dalla maggioranza assoluta degli aventi diritto al voto, assorbendo così nella maggioranza il quorum oggi richiesto per la validità del referendum abrogativo.
L'affermazione, contenuta nella relazione, secondo cui le deliberazioni assunte a maggioranza dalle Camere ``sono considerate manifestazioni di volontà di tutti i rappresentanti del popolo'', onde sarebbe ``del tutto ovvio che una decisione che formalmente è di tutto il corpo elettorale possa essere posta nel nulla solo se contro di essa si esprime almeno la maggioranza degli elettori'', non persuade affatto. Togliamo il velo di viete finzioni giuridiche, come quella che attribuisce a tutto il Parlamento, e attraverso esso a tutto il corpo elettorale decisioni assunte da una maggioranza parlamentare (non so quanti parlamentari che si trovano o in passato si sono trovati in posizione di minoranza gradirebbero sentirsi in qualche modo corresponsabili di decisioni che non hanno condiviso e anzi hanno magari aspramente combattuto).
La realtà è che esigere la maggioranza assoluta per l'abrogazione della legge sottoposta a referendum significherebbe far giocare l'astensionismo elettorale - che può avere com'è noto le più diverse motivazioni oltre che le schede bianche e nulle - tutto e solo a favore della conservazione della legge. La quale, magari colpita da un numero di sì all'abrogazione anche notevolmente superiore al numero dei no, e delle schede bianche, resterebbe tuttavia in vigore. In pratica, calcolando una percentuale di votanti pari al 90% degli aventi diritto - quindi molto alta - l'abrogazione richiederebbe che a suo favore si esprimesse positivamente ben il 56% dei votanti!
Sembra un "favor legis" davvero eccessivo. Un premio all'inerzia, al limite al qualunquismo, e una mortificazione della volontà della parte del corpo elettorale che si rende più attivo.
Si noti che all'Assemblea Costituente inizialmente si era stabilito un quorum per la volontà del referendum pari a soli 2/5 degli elettori. E ciò non senza opposizioni, facendosi rilevare, fra l'altro, da oratori comunisti che ``fissando un quorum per il referendum, bisognerebbe fissarlo anche per le leggi elettorali'' (Grieco) e che ``non si comprende perché un deputato eletto col voto del 30% degli elettori debba essere riconosciuto come capace di esprimere la volontà di un determinato raggruppamento della popolazione, mentre poi, quando il 30% di quel gruppo popolare esprime direttamente la sua volontà, questa non dovrebbe avere valore'' (Terracini, II Sc. 17-1-47).
Si noti ancora che, forse per un malinteso spirito di geometria, la proposta comunista applica la stessa regola al referendum costituzionale in cui l'astensionismo verrebbe a giocare "contro" la conferma della duplice manifestazione di volontà della Camera a maggioranza assoluta, poiché la legge non potrebbe essere promulgata se non conseguisse l'approvazione della maggioranza degli elettori, quale che sia il numero dei votanti (mentre oggi, come è noto, l'art. 138 non richiede nemmeno un quorum di partecipazione). Questa modifica, per il referendum costituzionale, può risultare un'ulteriore garanzia di non modificabilità della Costituzione, al di fuori dell'accordo di una larga maggioranza parlamentare: ma non si spiega certo con la motivazione innanzi ricordata - che i proponenti danno, con riguardo al referendum abrogativo, alla rinnovazione proposta.
6. E veniamo alle innovazioni proposte dal PCI alla legge ordinaria. Mi pare che i punti salienti siano cinque:
a) il divieto di presentare richieste di referendum abrogativo prima che siano trascorsi tre anni dall'entrata in vigore della legge;
b) l'esplicita affermazione che una modifica sostanziale della legge fa cadere il referendum;
c) il potere attribuito al Presidente della repubblica di rinviare fino a sei mesi il referendum quando sono all'esame delle Camere provvedimenti legislativi riguardanti la materia oggetto della richiesta di referendum;
d) la sospensione dell'iter del referendum per il periodo in cui l'efficacia della legge è sospesa;
e) il nuovo modo di computare la maggioranza, per cui l'abrogazione si avrebbe solo nel caso che i SI' prevalgano sul totale dei NO e delle schede bianche.
"La prima proposta" - il periodo bianco o la moratoria di tre anni - merita di essere considerata a parte. Non è un idea nuova.
Nel Progetto di Costituzione all'Assemblea Costituente si prevedeva che il referendum abrogativo non potesse chiedersi nei confronti di leggi vigenti da meno di due anni. Proponendosi però da taluno di sopprimere il referendum sospensivo o preventivo sulle leggi ordinarie, pure previsto nel progetto, il Presidente della ``Commissione dei settantacinque'' osservò che, se veniva soppresso tale istituto, automaticamente decadeva anche il limite dei due anni per il referendum abrogativo, essendo tale limite connesso all'esistenza dell'altra ipotesi di referendum, in quanto - come disse Ruini - ``si riteneva che, se il popolo non aveva esercitato la facoltà accordatagli per il referendum preventivo e sospensivo, dovesse lasciarsi un certo lasso di tempo, poiché potesse ricorrere a quello abrogativo'' (A.C., 16/10/47). Come è noto il referendum sospensivo venne soppresso col voto, non solo dei comunisti, dei socialisti e dei liberali, ma degli stessi democristiani. Invece il referendum restò, nonostante il voto co
ntrario dei comunisti e socialisti. A questo punto fu lo stesso comitato di redazione a proporre la soppressione del limite dei due anni. La soluzione fu contestata dai liberali, che proponevano di mantenerlo e anzi di estenderlo a cinque anni, e dai comunisti e socialisti che proposero (emendamento Fausto Gullo 16/10/1947) di stabilire che il referendum abrogativo non potesse essere più chiesto trascorsi sei mesi dall'entrata in vigore della legge (un principio, dunque, del tutto opposto a quello che allora da altri e oggi dal PCI si fa valere, secondo cui si dovrebbe attendere una congrua sperimentazione della legge prima di poter provocare su di essa il voto popolare). Gullo ritirò il suo emendamento, aderendo a quello dei liberali che chiedevano la moratoria di cinque anni dall'entrata in vigore della legge prima di poter chiedere il referendum: ma, a scrutinio segreto, questa proposta rimase soccombente, e cadde anche il termine dei due anni previsto nel progetto.
Analoghe proposte, come è noto, vennero avanzate senza successo in sede di elaborazione della legge 352 e anche in seguito, mirandosi a scongiurare o ritardare il referendum sul divorzio.
Oggi la proposta ritorna nel testo del PCI: una proposta che suscita seri dubbi sia di legittimità, sia di opportunità. Per quanto riguarda la legittimità, è stato esattamente osservato che, nel silenzio dell'art. 75, appare difficile introdurre in sede di ``modalità di attuazione'' una sospensione dell'esercizio del diritto di referendum.
Sul piano dell'opportunità, sembra chiaro che per le questioni sulle quali è più facile che venga deciso un referendum - questioni che presumibilmente, spesso, dividono il paese - il trascorrere del tempo può forse mutare i rapporti di forza, ma non far venire meno la tensione polemica dovuta al dissenso radicale di una parte del corpo sociale su un dato argomento di rilievo. Si noti inoltre che potendo il Parlamento sostituire la legge su cui si è chiesto il referendum, ma conservandone, se non la sostanza, il significato di fondo o di principio, la moratoria dei tre anni potrebbe estendersi ad un tempo assai più lungo, ove si acceda all'idea che, in caso di sostanziale modificazione della legge, il referendum non ha più luogo, e si consideri che la legge modificata potrebbe essere considerata una legge nuova ai fini del decorso del termine.
7. Altre tre innovazioni proposte dal PCI (caducazione del referendum in caso di modifica sostanziale della legge; potere di rinvio fino a sei mesi; sospensione del referendum in caso di sospensione dell'efficacia della legge) sono accomunate dall'essere ispirate all'interto di armonizzare il più possibile l'impiego dell'istituto referendario e l'attività legislativa del Parlamento. In materia, come è noto, la legge n. 352 contiene solo il disposto dell'art. 39, secondo cui al referendum non si dà corso in caso di abrogazione della legge. Sono noti i dissensi interpretativi e i dubbi di legittimità suscitati da questa norma.
A me non pare persuasiva la tesi di quelli che chiamerei referendisti ad oltranza (e so qui di essere in dissenso, con colleghi e amici presenti), secondo i quali, in presenza di una richiesta di referendum, il Parlamento dovrebbe astenersi dal legiferare nella relativa materia e rimettersi al voto popolare. Non si comprende perché il Parlamento nell'esercizio della sua attività legislativa, non possa e non debba tener conto per abrogare o modificare date leggi, anche delle istanze che possono provenire dalle richieste di referendum. Più precisamente non si comprende perché le forze politiche, se sono convinte che la legge vada abrogata, e che il paese sia nella sua maggioranza per l'abrogazione, non possano procedervi per via parlamentare, come ogni giorno fanno per tutte quelle istanze che tendono a ottenere nuovi interventi legislativi. Né si vede con quale utilità la semplice richiesta di referendum dovrebbe provocare una sorta di congelamento dell'attività legislativa - magari già in corso sull'argoment
o.
La richiesta di referendum nel nostro sistema parlamentare ``corretto'' può avere invece anche quella funzione di stimolo nei confronti del Parlamento, o più precisamente dei partiti parlamentari, che il PCI sottolinea. Del resto, che altro rappresenta, ad esempio, la richiesta di abrogazione di varie norme del codice penale Rocco, se non uno stimolo affinché le forze politiche progressiste procedano finalmente a quell'opera di pulizia della legislazione penale fascista che da gran tempo avrebbero dovuto fare e che spesso hanno proclamato di voler fare? Più in generale, mi sembra del tutto corretto cercare di creare raccordi fra referendum e attività del Parlamento, secondo l'ispirazione che - come si è detto - caratterizza le proposte del PCI.
Mi sembra insostenibile e astratto invece contrapporre il corpo elettorale che si esprime nel referendum, al Parlamento, quasi fossero due poteri o due forze tendenzialmente in antagonismo; sia perché è sempre lo stesso corpo elettorale che si esprime nel referendum e nell'elezione delle Camere, sia perché l'orientamento e la volontà del corpo elettorale non si formano al di fuori dell'opera di influenza e di indirizzo di quegli stessi partiti, gruppi di opinione, strumenti di comunicazione, che pur determinano o condizionano l'attività e gli orientamenti del Parlamento. Ragionamenti basati su concettuali distinzioni fra un popolo titolare della sovranità e alcune volte anche del suo esercizio, e un Parlamento rappresentante o delegato, che altre volte eserciterebbe quella sovranità; o ragionamenti fondati su ostacoli presunti che si verrebbero a creare per una permanenza del potere nel delegato (il Parlamento), quando il delegante (il popolo) si accinga ad adottare direttamente una decisione, mi sembrano de
l tutto astratti, viziati da formalismi tipici dei giuristi.
Qui non è questione di applicare i principi della delega o del mandato. Il problema è di considerare nella sostanza che rapporto vi sia fra espressione di volontà popolare nel referendum ed espressione di volontà degli organi rappresentativi. Il referendum non può essere visto come un'alternativa alla democrazia dei partiti. Certo è però - e qui sta il motivo per cui non persuadono le opposte tesi di coloro che dal carattere fondamentalmente rappresentativo del sistema deducono una visione riduttiva e ``diffidente'' del referendum - che referendum ed elezioni sono due strumenti diversi, nei quali sicuramente operano in linea di massima le stese forze politiche e sociali, ma diversi sono i rapporti fra elettori e partiti, diverse le motivazioni che possono caratterizzare l'orientamento degli elettori. Il controllo dei partiti sugli orientamenti popolari nel referendum non manca (lo si è visto il 12 maggio 1974), ma è certo meno stretto e meno rigido il controllo dagli stessi esercitato sull'opera del Parlamen
to e sull'orientamento dei cittadini in sede in elezioni. Proprio per questo il referendum può avere una funzione non solo di deterrente e di stimolo, ma anche di controllo, correzione e, se del caso, di sostituzione nei riguardi dell'attività degli organi rappresentativi. In una società complessa, in una democrazia articolata i processi decisionali sono molteplici e non univoci; le modalità con le quali il popolo manifesta la sua volontà sono diverse. E devono esserlo: pena la riduzione della democrazia rappresentativa a un sistema nel quale il mandato politico ed elettorale si trasforma in una delega a ``fare politica'' rilasciata a corpi ristretti e a caste professionalizzate e burocratizzate o che rischiano di essere tali o come se ci fosse una sorta di divisione del lavoro per cui i comuni cittadini, avendo altro da fare, lasciano ogni reale potere di decisione a quei corpi ristretti, e questi si sentono investiti quasi di onnipotenza, rispetto alla quale il tentativo di creare una dialettica più estern
a e più libera - come può accadere con un referendum - viene avvertito come una indebita intromissione in terreno altrui (l'atteggiamento del ``ragazzino lasciami lavorare'').
8. La filosofia di fondo, dunque, delle proposte comuniste che stiamo esaminando non è scorretta, ma appare unilaterale: e sicuramente fortemente sbilanciati i contenuti oggettivi delle proposte.
Vediamole partitamente:
a) caducazione dell'iter del referendum in caso non solo di abrogazione, ma anche di modifica sostanziale della legge. E' la traduzione in norma scritta dell'interpretazione già oggi prevalente dell'art. 39 della legge n. 352. Non pone rimedio però al rischio di incertezze in sede applicativa. Incertezze peraltro forse inevitabili anche in presenza dell'attuale testo, dal momento che, almeno nel caso di abrogazione espressa della legge, il referendum non può non cadere, e nulla può impedire al Parlamento, il giorno dopo, di introdurre una nuova disciplina più o meno diversa dalla precedente: salvo, naturalmente, il controllo di costituzionalità anche sotto un eventuale profilo di sviamento di potere, e la possibilità di rinnovare la richiesta di referendum.
Occorre però intendere restrittivamente il concetto di modifiche ``sostanziali'', ad evitare il rischio di abusi fraudolenti. Da questo punto di vista dovrebbe essere affrontato anche il problema delle cosiddette modifiche peggiorative, cioè contrarie all'intento dei richiedenti il referendum. Anche se sono persuaso che il problema non possa presentarsi in pratica in dimensioni rilevanti e in casi numerosi, poiché non è facile pensare che le forze parlamentari giungano a mettere a punto - ad esempio - una disciplina legislativa più illiberale, modificando le proprie ispirazioni e impostazioni, al solo scopo di evitare un referendum con evidenti rischi di contraccolpi nel loro rapporto con la base elettorale. Piuttosto, a proposito della proposta comunista, bisogna dire che essa è lacunosa e contraddittoria, là dove consente un ricorso contro la decisione dell'Ufficio centrale per il referendum che dichiara non essere intervenuta abrogazione o modifica sostanziale, e non consente analogo ricorso ai promotori
nel caso di decisione opposta; e là dove estende il contraddittorio nel giudizio su questa materia al governo e ai gruppi rappresentativi in Parlamento, mentre ne esclude i promotori del referendum.
In ogni caso appare assai inopportuno lasciare che decisioni così delicate vengano prese da un organo, la Corte di cassazione, anziché essere affidate alla Corte costituzionale, eseguendo un'accezione estensiva del giudizio di ammissibilità del referendum ad essa demandato dalla legge costituzionale.
9. b) Rinvio fino a sei mesi del referendum nel caso in cui siano all'esame delle Camere provvedimenti sulla materia oggetto della richiesta del referendum.
E' stato giustamente osservato che questo potere introduce una via troppo facile per far slittare il referendum fino a un anno, data la rigidità dei termini temporali stabiliti dalla legge n. 352.
Il fatto che siano all'esame delle Camere provvedimenti sull'argomento non dà, fra l'altro, alcuna garanzia che esse, se fino ad allora non sono riuscite a risolvere il problema, vi riescano dopo il rinvio del referendum. Il Parlamento, come è stato giustamente notato, ha già tempo, e parecchio, per intervenire nelle materie sulle quali si inizia l'iter per la richiesta di referendum. Ammettere che il Parlamento non sia spogliato delle sue funzioni per il solo fatto che si è promosso un referendum non vuole dire che, ove la soluzione non maturi rapidamente fra le forze parlamentari, si debba loro concedere tempo, e ancora sempre più tempo, finché non sciolgano il nodo, inviando ad ogni costo la pronuncia popolare.
La realtà è - come l'esperienza insegna - che spesso i meccanismi delle decisioni parlamentari sono lenti e vischiosi; che l'inerzia e il rinvio sono pratica frequente; che si tende talora ad affrontare seriamente i problemi solo sotto lo stimolo di scadenza. Ora, non si vede proprio perché si dovrebbe incoraggiare questa pratica del rinvio e dei tempi lunghi. Certo, le esigenze della mediazione e degli accordi esistono: ma non possono prevaricare sull'esigenza che i nodi siano sciolti, per via parlamentare o, se non vi si riesce, per via di consultazione popolare. Questa innovazione proposta ha anche un altro aspetto assai discutibile: si affiderebbe cioè al Presidente della repubblica - come potere prevalentemente suo proprio o almeno anche suo, come risulta dal procedimento che contempla solo il parere dei Presidenti delle Camere e non la deliberazione del governo - un potere assai delicato e caratterizzato da eccessiva discrezionalità. Con questo si verrebbe a modificare pericolosamente il ruolo del Capo
dello stato, che nell'ambito dei procedimenti referendari è titolare, in base alla Costituzione, di soli poteri vincolati, dopo che la Costituzione respinge l'ipotesi del referendum preventivo arbitrale sulle leggi, referendum promosso appunto dal Presidente della repubblica.
Il potere che l'art. 37, ultimo comma della legge, oggi affida al Presidente della repubblica, e cioè quello di differire per non oltre 60 giorni l'efficacia dell'abrogazione dopo il referendum (potere che fra l'altro il PCI propone di sopprimere) è meno discrezionale e pericoloso. In realtà in questo caso la decisione è governativa: c'è la delibera del Consiglio dei ministri e la proposta del ministro competente. Così pure il potere conferito al Capo dello stato dall'art. 15, 3· comma, di differire un referendum costituzionale per consentire lo svolgimento contestuale ad altro, è assai più ``tecnico'' e meno rilevante di quello che la proposta del PCI vorrebbe ora attribuirgli.
10. c) Sospensione del referendum per il periodo di sospensione di efficacia della legge. L'anomalo istituto della sospensione viene qui previsto al solo evidente scopo di consentire al Parlamento di allungare ulteriormente il tempo a sua disposizione per intervenire. Ulteriore concessione alla esasperante lentezza dei processi di decisione politica, propria del nostro sistema. La proposta si presta a rilevanti dubbi di costituzionalità, non essendo affatto certo che basti sospendere l'efficacia di una legge per far cadere la legittimazione a chiedere l'abrogazione per referendum e a pronunciarsi su tale richiesta, proprio nella misura in cui la sospensione è qualcosa di diverso dall'abrogazione. L'istituto si presterebbe a peggiori abusi: sospensioni magari ripetute, sommate ad eventuali rinvii el referendum e a ``slittamenti'' imposti da elezioni anticipate, potrebbero protrarre all'infinito lo svolgimento della consultazione. La proposta sembra configurare in qualche modo gli interessi coinvolti nel refer
endum alla stregua di interessi individuali alla applicazione o non applicazione della legge anziché - come in realtà sono - interessi schiettamente politici diretti a ottenere una pronuncia popolare definita su un preciso tema legislativo.
Tra l'altro, la sospensione è in contrasto con il principio che ispira l'altra proposta della moratoria di tre anni, che dovrebbe consentire la sperimentazione pratica della legge (che qui invece viene sospesa) ed è in contrasto con le norme che tendono a evitare vuoti legislativi prevedendo il differimento dell'efficacia dell'abrogazione (qui infatti si prevede proprio la creazione di un vuoto legislativo per un tempo indefinito e illimitato).
11. E' vero che le due proposte ora esaminate (rinvio e sospensione) sono in certo modo compensate dall'abolizione di alcuni degli attuali limiti temporali apposti alle richieste e all'effettuazione del referendum: in particolare cadrebbe il divieto di depositare richieste di referendum nell'arco anteriore alla scadenza delle Camere e nei sei mesi successivi alla loro elezione (art. 31). Resterebbero però le disposizioni dell'art. 32, 1· comma (deposito delle richieste limitato al periodo 1 gennaio - 30 settembre); 34, 1· comma (effettuazione del referendum in una domenica compresa fra il 15 aprile e il 15 giugno); 34, 2· comma (interruzione dell'iter del referendum in caso di scioglimento anticipato della Camere). E' noto che su queste disposizioni, e su quella dell'attuale art. 31, sono state sollevate critiche fondate di legittimità.
L'art. 31 è anche oscuro. Che cosa vuol dire che non possiamo depositare richieste di referendum nell'anno "anteriore alla scadenza della Camere?" Una interpretazione letterale sembrerebbe suggerire che l'anno sia l'arco annuale (di 365 giorni) che precede immediatamente la scadenza; onde dovrebbero potersi depositare richieste di referendum nei primi mesi dell'anno solare anteriore a quello elettorale (prima che inizi l'``anno bianco''), con l'effetto che i relativi referendum dovrebbero tenersi nello stesso anno, e magari in coincidenza, con le elezioni, contro il proclamato intento di evitare tale coincidenza. Se per anno anteriore, invece si intende tutto l'anno solare precedente a quello elettorale, di fatto in ogni quinquennio abbiamo due anni nei quali non si può svolgere alcun referendum abrogativo (quello elettorale e quello seguente, poiché i sei mesi dopo le elezioni portano oltre il termine del 30 settembre). Il deposito delle richieste rimane impedito a sua volta per un anno e mezzo ogni quinqu
ennio.
L'art 31 merita quindi di essere cassato. Ma non si può contemporaneamente non affrontare anche il problema dell'art. 34, relativo allo scioglimento anticipato. Tutti ricordano le polemiche sullo slittamento del referendum sul divorzio del 1972 al 1974. Rileggendo oggi i testi di quella polemica, la tesi poi prevalsa del rinvio al '74, sorretta da un'evidente ragione politica, appare però un abile esercizio di equilibrismo formale per ottenere un risultato sostanzialmente abnorme, come è il ritardo di due anni nello svolgimento di un referendum chiesto quasi tre anni prima (autunno 1971). E' singolare che la proposta comunista, che pure per le elezioni ordinarie fa venir meno il divieto di coincidenza col referendum, taccia su questo problema, sul quale la necessità di una modifica della legge 352 appare più evidente.
12. E' qui in gioco il problema centrale della possibilità di far coincidere o di tenere a breve distanza le elezioni (anticipate o no) e i referendum. Su questo terreno, tra l'altro, se sono fondate le voci cui accennavo all'inizio, alcuni disegni concepiti a livello governativo porterebbero all'esasperazione l'attuale principio escludendo la coincidenza nello stesso anno di referendum e di elezioni amministrative e di elezioni per il Parlamento Europeo. E' da domandarsi quando mai si potrebbero, in tal caso, tenere i referendum.
Di passaggio, vale la pena di notare come appare contraddittorio da un lato voler ridurre le occasioni di votazioni popolari, facendo coincidere tutte le elezioni - amministrative - comprese quelle per i consigli circoscrizionali (e così dando un ulteriore pessimo contributo alla massificazione del fatto elettorale come rito a copione unico nazionale incentrato esclusivamente sui problemi dei rapporti di forza fra i partiti a livello nazionale), e dall'altro lato voler evitare la coincidenza fra referendum ed elezioni. In realtà, perché non si dovrebbe ammettere tale coincidenza?
Si è sostenuto (da Chiappetti) che lo svolgimento dei referendum subito dopo l'elezione delle Camere farebbe sì che il mandato conferito alle stesse ``fosse ridotto o comunque contestato per la parte che concerne l'oggetto del referendum, mentre si potrebbero verificare scompensi e disorientamenti nell'elettorato nello svolgimento delle elezioni''.
Il divieto temporale oggi esistente troverebbe dunque giustificazione e fondamento ``da precise esigenze costituzionali, connesse ai principi di incondizionata rappresentatività delle Camere e dei parlamentari, dell'assoluta pienezza del mandato parlamentare'' e così via.
E' un'opinione che non mi persuade. Il corpo elettorale ben può, a breve distanza di tempo e anche, anzi meglio, contestualmente, esprimersi sia in rapporto agli indirizzi generali, eleggendo le Camere, sia in rapporto a questioni specifiche.
Si eviterebbe così di trasformare quasi automaticamente ogni questione specifica in una scelta di indirizzo generale vuoi attraverso l'anticipo delle elezioni ``in sostituzione'' del referendum vuoi con l'attribuzione al referendum del significato e degli effetti di un "test" elettorale indiretto e, cioè, di una scelta generale di indirizzo e di schieramento (pur senza ignorare che ciò in parte avviene comunque, come si è visto nel 1974). Così come il Parlamento non è impedito nella sua attività legislativa dalle richieste di referendum, non si comprende perché l'espressione della volontà popolare nel referendum debba essere impedita e sostituita da una consultazione elettorale.
L'attuale disciplina per di più inquina il problema dello scioglimento anticipato, rischiando (come ben s'è visto) di fare di questo uno strumento non per bloccare una crisi politica insanabile, ma per rinviare il referendum: cioè, ancora una volta, per lasciare spazio alla politica del rinvio e dei tempi lunghi. La coincidenza delle due consultazioni, invece, può concorrere a superare situazioni di "impasse" tra le forze politiche, a impedire eccessive ripercussioni al loro interno, e sui loro indirizzi generali, delle decisioni su questioni specifiche (come ben dimostra il precedente del 1946, quando il referendum istituzionale consentì alla DC - con un elettorato per quattro quinti monarchico - di pronunciarsi come partito per la Repubblica e di candidarsi alla guida del nuovo Stato repubblicano).
13. L'ultima proposta del PCI concerne il computo della maggioranza. Le schede bianche non resterebbero, come oggi, prive di peso nella decisione, ma si sommerebbero ai NO, e solo se i SI' superassero la somma dei NO e delle schede bianche si avrebbe abrogazione. Anche questa è una vecchia questione.
All'Assemblea Costituente nella II Sottocommissione, l'on. Perassi prospettò l'opportunità di affermare espressamente che non si tiene contro delle schede nulle o bianche ai fini del risultato del referendum. E venne infatti adottata l'espressione ``maggioranza dei voti validamente espressi'', che è rimasta nell'art. 75 della Costituzione. In assemblea un emendamento del socialista Nobili Oro, che tendeva a richiedere la maggioranza ``dei partecipanti alle votazioni'', fu ritirato.
C'era un precedente, come è noto. In occasione del referendum costituzionale del 2 giugno si era discusso sul significato dell'espressione ``maggioranza degli elettori votanti'', sostenendosi da taluni che dovesse intendersi come maggioranza calcolata sul complesso di coloro che avevano preso parte alla votazione (anche se avevano deposto nell'urna una scheda bianca o nulla). La contraria soluzione, adottata anche dalla Cassazione, era sorretta, più che da discutibili argomenti esegetici dalla logica fondamentale di un referendum indetto per dirimere definitivamente, e una volta per tutte, la questione istituzionale, e che quindi non poteva rischiare di concludersi con un nulla di fatto.
Quando l'Assemblea Costituente adottò nell'art. 75 l'espressione ``voto validamente espresso'' tenne certamente conto di quel precedente, e mi pare chiaro che abbia inteso escludere qualsiasi influenza delle schede bianche o nulle sul risultato del referendum, computandosi esse ai soli fini del "quorum" di partecipazione. Il problema fu sollevato di nuovo in occasione del referendum sul divorzio, quando da parte di alcuni settori cattolico-democratici fu prospettata la tesi di una posizione astensionista e si lamentò che non fosse possibile attribuire alle schede bianche questo significato non di abrogazione della legge, né di sua approvazione, ma di rifiuto, in qualche modo, della stessa scelta referendaria così come si era posta.
Emerge in questo caso chiaramente il rischio di risolvere questioni generali sotto l'impulso di interessi legati a una vicenda specifica. Se nel caso del divorzio qualcuno aveva potuto pensare che le schede bianche, non confluendo con i sì, potessero essere un modo idoneo per esprimere questa posizione intermedia, in un caso diverso (pensiamo ad esempio, all'aborto, dove sull'opportunità di modificare le norme attuali l'accordo è quasi unanime) la stessa soluzione potrebbe avere significato differente, traducendosi l'astensione - come appunto avverrebbe secondo la proposta comunista - in un voto che concorre a conservare in vigore la legge attuale.
La realtà è che il referendum è, per sua natura, una decisione di tipo dilemmatico. Ora, dare a priori alla scheda bianca lo stesso effetto giuridico di un ``no'' equivale non solo a contraddire l'art. 75 della Costituzione ma a manifestare un ingiustificato favore per la conservazione di leggi che, sottoposte al vaglio popolare, non ottengano a loro favore un voto espresso della maggioranza di coloro che si pronunciano in un senso o nell'altro. Se l'elettore vota bianco, il suo voto non può esprimere altro che la ``non scelta''. In sostanza, egli lascia che la decisione sia presa dagli altri. Se invece, secondo la proposta comunista, la sua scheda bianca si sommasse ai ``no'' agli effetti della conservazione della legge, il non voto diverrebbe un voto in una direzione precisa: una delle due fra le quali il referendum propone la scelta. Giustamente si è osservato infatti che chi vota bianco alle elezioni è come se distribuisse gli effetti del suo voto fra le liste in modo tendenzialmente pari (o meglio, prop
orzionale alla rispettiva consistenza elettorale); mentre nel referendum, dove l'alternativa è fra il sì e il no, adottare la proposta comunista significherebbe fa sì che l'elettore presente (poiché vota), ma incerto, concorra a mantenere in vigore la legge di cui si è chiesta l'abrogazione, non diversamente che se votasse ``no''.
14. Non è difficile avvedersi - e qualcuno lo ha già sottolineato - che in realtà le proposte del testo comunista sono tutte nel senso di rendere più difficile le richieste e l'effettuazione dei referendum (anche le proposte ``minori'' su cui non intendo soffermarmi: l'elevazione del numero dei promotori, il termine per la vidimazione dei fogli per le firme, la riduzione a un solo giorno delle operazioni di voto, sancita "solo" per i referendum e non per le elezioni).
Non siamo dunque in presenza di un progetto organico di riorganizzazione dell'istituto. Un simile progetto dovrebbe tener conto delle incertezze emerse nell'applicazione della legge attuale (tipica quella che si verifica nel caso dello scioglimento anticipato delle Camere) e tentare una reale valorizzazione dell'istituto, sia pure in chiave di raccordo e non di contrapposizione con l'attività parlamentare, tenendo conto anche delle esigenze di una dialettica polemica e sociale più ricca. Così, non si pensa affatto a introdurre facilitazioni nell'autenticazione delle firme (ci pensa in qualche modo il progetto ``tecnico'' del governo, che almeno prevede la possibilità per il segretario comunale di delegare per l'autenticazione impiegati del Comune); non si pensa a prevedere rimborsi delle spese sostenute dai promotori (magari condizionati al raggiungimento di risultati minimi); non si regola la propaganda radio-televisiva in occasione del referendum e l'accesso alla radio e alla televisione per i promotori de
l referendum; non si estende il termine jugulatorio di tre mesi per la raccolta delle firme (che diventerebbero 1 milione) (mentre l'art. 29 della legge n. 352 concede quattro mesi ai consigli regionali per le delibere di richiesta di referendum, e l'art. 49, 3· comma concede sei mesi per la sottoscrizione delle proposte di iniziativa popolare).
Il referendum resterebbe sempre un istituto destinato al non uso, oppure riservato alle grandi forze organizzate se e quando vorranno ricorrervi.
15. Le proposte del PCI esprimono dunque una precisa linea politica istituzionale: una linea di ostilità all'istituto stesso del referendum (in coerenza con l'antica ostilità, manifestata nei voti all'Assemblea Costituente, e nonostante ogni dichiarazione odierna di volerlo invece valorizzare), di tendenza al suo depotenziamento riducendolo a poco più di un potere di iniziativa, con margini amplissimi affidati poi, per la decisione, al Parlamento e cioè alle forze parlamentari e agli accordi fra di esse.
La polemica sulla compatibilità fra referendum e sistema parlamentare è vecchia. Ma non è sui termini della questione astratta che conviene ritornare. Nemmeno, io credo, ha senso cercare di raffrontare le tendenze espresse nelle proposte comuniste con un astratto modello costituzionale in ordine ai rapporti fra popolo, Parlamento e partiti, fra istituzioni della democrazia rappresentativa e istituzioni della democrazia diretta. Anche perché all'Assemblea Costituente il dibattito su questi punti fu in parte condizionato dal presupposto che le uniche forze motrici della vita delle istituzioni politiche, e gli unici utenti, per così dire, dei vari istituti democratici che si andavano profilando, sarebbero stati i partiti e in particolare i grandi partiti di massa organizzati nel paese. Lo mostrano i termini e le motivazioni del dibattito sul referendum preventivo o sospensivo sulle leggi, prima previsto nel progetto e poi concordemente abbandonato.
In realtà un modello costituzionale preciso in materia non esiste, e comunque non può essere costruito in maniera astorica, prescindendo cioè dalla realtà delle forze e dei caratteri della società in cui oggi la Costituzione opera. Ma una indicazione di fondo chiara emerge, questo sì, dalla Costituzione; ed è l'indicazione della tendenza verso la costituzione di una democrazia sempre più ricca, articolata e sostanziale; di una democrazia in cui il popolo (non un popolo astratto, una mitologica volontà generale, e nemmeno solo le oligarchie dirigenti, ma il popolo concreto, che vuol dire la gente, i gruppi sociali, le espressioni delle esperienze e delle aggregazioni sociali a ogni livello) dunque "conti", sia protagonista della politica, delle scelte che condizionano le sorti delle collettività e degli individui.
Lo Stato dei partiti si è consolidato e non ha senso parlare del popolo, del corpo elettorale prescindendo dal ruolo centrale dei partiti. Ma, a sua volta, la società è cresciuta, e si è arricchita di articolazioni, di movimenti, di luoghi di dibattito, di riflessione e di iniziativa collettiva. I partiti di massa non sono più gli unici interessati ad essere utenti collettivi, per usare ancora questa espressione, delle istituzioni della democrazia. Il problema è se si vuole o meno tener conto anche di questo nel delineare una prospettiva di politica costituzionale. Il problema è quello del tipo di forze cui si vuole consentire o facilitare o invece ostacolare l'azione, e del tipo di articolazione e di dialettica fra le istanze della società che si vuole costruire. Se si crede che i partiti, e in particolare i partiti in concreto esistenti e così come oggi sono, debbano essere sostanzialmente gli unici soggetti reali della partecipazione politica, debbano non solo poter svolgere fino in fondo il proprio ruolo
in ogni sede e momento nel quale si fanno scelte politiche, ma anche controllare strettamente, e in posizione per così dire monopolistica o assolutamente privilegiata, tutti i processi di formazione delle opinioni e del consenso; se si crede che la dialettica fra gli stessi partiti debba trovare il suo punto centrale se non esclusivo nel momento elettorale e nella vita delle istituzioni rappresentative, allora ne consegue necessariamente una ostilità per l'istituto referendum come tale, per le sue caratteristiche ineliminabili. Ne consegue una tendenza a ridurre le occasioni di diretto intervento popolare (referendum o elezioni) al minimo indispensabile, quasi come momenti, certo decisivi, ma per così dire parentetici e in qualche modo fonte di intralcio per l'azione di governo del paese.
Se invece si ammette che una democrazia articolata e pluralistica, secondo l'indicazione di fondo della stessa Costituzione, è e deve essere più ricca; che essa deve essere in grado di recepire il nuovo che emerge in varie forme dalla società; che è bene che anche i gruppi minoritari più o meno inseriti nel circuito decisionale intra-partitico debbano potersi esprimere; che la società civile deve poter porre le sue domande e le sue istanze ai partiti in modi anche diversi dalla semplice delega sulla base di indirizzi e programmi generali; che la stessa dialettica fra i partiti può avere anche momenti diversi dai confronti in sedi dove la regola è la mediazione e il compromesso; che i meccanismi decisionali classici possano conoscere (e conoscono) momenti di difficoltà che si traducono in ritardi, inerzie, incapacità di decisioni, rispetto ai quali una funzione di stimolo non puramente platonica, esercitata dalla società in forme diverse dal mandato elettorale, può avere un senso: se si ammette tutto questo,
dunque, la conclusione non può non essere opposta. E la valutazione delle proposte esaminate, che tendono - lo si è visto - a stringere l'area di effettiva possibilità di utilizzo del referendum, non può essere positiva.
Nell'attuale congiuntura politica tutto questo acquista particolare significato e rilievo. Tendere a chiudere o a ridurre gli spazi di dialettica fra società e istituzioni, in un momento in cui tale dialettica trova maggiori difficoltà ad esprimersi a livello dei tradizionali rapporti fra partiti, per il difficile e delicato equilibrio dell'accordo della non sfiducia (e per la partecipazione alla ``quasi maggioranza'', che ha stipulato questo accordo, della quasi totalità delle forze parlamentari) significherebbe andare in direzione esattamente opposta a quella ora delineata. Da parte comunista (di fronte alle critiche mosse agli attuali equilibri di maggioranza e di governo ispirate alla visione tradizionale del sistema parlamentare, di cui sarebbe elemento necessario la classica dialettica fra una maggioranza di governo e una opposizione che contiene e controlla) si è fatto osservare che ``la dialettica fra schieramenti in Parlamento si è spostata e tende a spostarsi ancora più - senza per questo sparire d
el tutto - sul rapporto fra assemblea-esecutivo-autonomie-società'' e che ciò rappresenta ``un arricchimento, non ...un impoverimento della dialettica''; che ``lo spostamento di una parte della dialettica sul rapporto governo-assemblea-autonomie-società apre la via maestra dell'arricchimento in direzione della democrazia come partecipazione attiva, della preminenza di contenuti, dell'allargamento delle basi di massa, e quindi avvia un processo di allargamento dei meccanismi oligarchici'', che ``proprio attraverso l'arricchirsi di nuove forme della dialettica'', e il suo parziale spostamento di cui si è detto, ``si arriva a superare la pericolosa dicotomia fra democrazia formale e democrazia sostanziale'', ``fra equilibri politico-parlamentari e coscienza diffusa nel paese'' (cito da un saggio di Luigi Berlinguer su "Democrazia e diritto", 1976 n. 3 - "Dialettica parlamentare e unificazione politica").
Ora, questo sforzo acuto di vedere con occhi nuovi le esigenze e i caratteri della situazione di oggi del nostro paese mal si concilierebbe con una politica che restringa, e non allarghi, gli spazi istituzionali della dialettica politica e sociale. Non credo certo che il referendum possa rappresentare una sorta di via italiana alla democrazia diretta e sostanziale, né tanto meno una panacea ai mali del Paese. Ma importa sottolineare il segno che deve avere in questo momento una politica istituzionale lungimirante. Non si può trascurare, nel momento in cui tende a valorizzare la dialettica istituzione-società, il fatto che, consolidato il sistema dei partiti, estesa la loro diretta influenza ad aree sempre più vaste della vita collettiva, fondato anche il sistema delle autonomie locali sullo stesso sistema rappresentativo e partitico presente nelle istituzioni dello Stato centrale, il referendum è invece uno strumento relativamente più sganciato dalle regole di funzionamento del sistema rappresentativo domina
te dalle esigenze degli equilibri intra-partitici e inter-partitici.
Il pericolo di paralisi delle istituzioni, che qualcuno, a mio avviso a torto, paventa come possibile risultato di un eccesso di referendum, oggi non deriva da un eccesso di dinamica politica. Deriva anzitutto dalla difficoltà di una situazione politica in cui il rinvio, lo stallo, la lunghezza dei processi decisionali continuano a essere fenomeni frequenti. In tale situazione, quello che viene classicamente indicato come il rischio del referendum in un regime parlamentare a pluralità di partiti, cioè il rischio di acuire le differenze, rendere più difficili gli accordi, ostacolare i compromessi e gli accantonamenti necessari per superare i contrasti ("il che, intendiamoci, è anche un rischio reale") può, in certe condizioni, essere però proprio il vantaggio di una forma di partecipazione politica che costringe ad uscire da una pura logica di mediazione e di accordo ad ogni costo, che mette in gioco forze diverse e meno prevedibili, che mette all'ordine del giorno del paese e delle forze politiche problemi n
uovi, o che esse trascuravano o che li mette all'ordine del giorno in tempi diversi da quelli di un calendario di governo e parlamentare deciso nel chiuso dei vertici istituzionali o partitici. Non credo che nessuno possa irresponsabilmente sottovalutare la necessità dello sforzo per trovare strade costruttive per risolvere i problemi del paese, e per risolvere a questo fine i problemi di direzione politica. Ma la democrazia dei partiti, che è una realtà ed è una grande conquista, proprio perché significa ampliamento della partecipazione politica, non deve trasformarsi in una sorta di ``democrazia guidata'', bloccando e sclerotizzando altri canali di espressione e di decisione, in una società che può e deve diventare sempre più ricca, articolata, capace di autogoverno.