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Bettinelli Ernesto - 1 marzo 1978
REFERENDUM ORDINE PUBBLICO COSTITUZIONE: (7) Concorso dei cittadini alla determinazione della politica nazionale, partiti politici e referendum
di Ernesto Bettinelli

SOMMARIO: Due questioni vengono essenzialmente affrontati nel corso del convegno, quella dell'istituto del referendum che progetti di legge comunisti, socialdemocratici, democristiani sottopongono a revisioni più o meno decise e il disegno di legge governativo in tema di ordine pubblico. Questi due temi vengono affrontati in relazione ai principi stabiliti dalla Carta Costituzionale.

("REFERENDUM ORDINE PUBBLICO COSTITUZIONE", Rispondono i giuristi. Atti del convegno giuridico organizzato dal gruppo parlamentare radicale - A cura di Ernesto Bettinelli e Luca Boneschi - Tascabili Bompiani, marzo 1978)

1. Una delle ricorrenti obiezioni che mi sono state mosse in diverse occasioni alla ricostruzione e alla sistemazione del referendum abrogativo (e più in generale degli altri strumenti di democrazia diretta), come istituto centrale e qualificante del modello democratico tracciato dalla Costituzione, è quella di essermi preoccupato poco di formulare una graduatoria delle forme di partecipazione popolare (più esattamente di esercizio della sovranità popolare) considerate dalla Carta.

Se prima di addivenire ad ardite conclusioni avessi diligentemente redatto una scala di valori e di funzioni, avrei potuto accorgermi di trovarmi in un ordinamento che si regge solidamente su una forma di governo rappresentativo sia pur condizionata da diffuse istanze di partecipazione popolare.

In questo contesto - mi rimprovera Giovanni Greca su "Democrazie e Diritto" (1) - pretendere di associare gli istituti di democrazia diretta alla democrazia rappresentativa ``in una funzione concorrente di caratterizzazione dell'ordinamento (democrazia semidiretta) equivale a non intenderli per quelli che sono e a porre, perciò, le premesse per un uso distorto e sostanzialmente negativo degli istituti medesimi. Laddove il vero problema consiste, invece, nella ricerca di un utile e positivo rapporto tra gli uni e gli altri che eviti paralizzanti contrapposizioni''.

L'Autore citato rende più dure le sue confutazioni richiamando alcune idee di Carlo Marx in tema di ``separazione tra stato politico e società civile'' e, quindi, sulla questione del potere legislativo come potere necessariamente rappresentativo (2).

E' chiaro che io non posso permettermi di replicare a Carlo Marx - e tanto meno al Marx delle "Opere filosofiche giovanili" - ma volentieri ragiono con Giovanni Greca e con quanti fondano il loro giudizio sulla ``eccezionalità'' del referendum abrogativo argomentando deduttivamente e storicamente dalla teoria dello Stato rappresentativo (3). Ove, beninteso, Stato rappresentativo nella sua configurazione contemporanea significa stato dei partiti e, per essere ancora più precisi, stato dei partiti di massa. Un'indagine scientifica sulla democrazia diretta sarebbe corretta solo se si entra in questo quadro, se in esso si cercano e si trovano i parametri di riferimento e di analisi.

Non mi rimane dunque che ``accedere al quadro'' per tentare di difendere le mie tesi massimaliste (4) sul valore di garanzia e di contrappeso del referendum abrogativo nel sistema costituzionale. E siccome si afferma che è errato, o per lo meno insufficiente, interpretare l'art. 75 della Costituzione in collegamento con il 2· comma dell'art. 1, marginalizzando la portata della norma costituzionale in materia di partiti politici, intendo in questa sede riproporre una lettura sistematica proprio dell'art. 49 della Costituzione coordinato con le disposizioni già richiamate e con quelle altre che in qualche misura contribuiscono a definire il modello costituzionale.

2. Sostenere che i partiti politici sono la più diretta espressione della sovranità popolare significa dire tutto e non dire niente. Più proficuo è rilevare quali sono i presupposti e le condizioni perché i partiti "siano" la più diretta espressione della sovranità popolare. In questa prospettiva si possono innanzitutto ricordare in breve alcune acquisizioni generali e particolari nell'esegesi dell'art. 49.

La norma non ha mero valore ricognitivo e descritto di una realtà preesistente all'entrata in vigore della Costituzione. Senza voler indugiare in riferimenti ai lavori preparatori (come è noto il testo proposto nella I Sottocommissione fu, sia pur dopo notevoli e vivaci discussioni e precisazioni, recepito nella sua sostanza dall'Assemblea), è tuttavia utile menzionare l'ordine del giorno votato a larghissima maggioranza della I Sottocommissione stessa, secondo cui si riteneva necessario che la Costituzione affermasse ``il principio del riconoscimento "giuridico" dei partiti politici e dell'attribuzione ad essi di "compiti costituzionali"''(5). Questo richiamo serve per confermare appunto il carattere funzionale della previsione della pluralità dei partiti politici nella Costituzione.

Dalla struttura dell'articolo si è poi rilevato come il soggetto della proposizione normativa siano ``tutti i cittadini'', ai quali viene attribuito il diritto di libera associazione in partiti politici al fine del concorso con metodo democratico alla determinazione della politica nazionale (6). Dunque, la ``strumentalità'' dei partiti politici rispetto al fine è abbastanza evidente, per cui si può considerare come a tutti i cittadini, e nemmeno tanto implicitamente, venga riconosciuto il diritto di concorrere alla determinazione della politica nazionale.

La strumentalità dei partiti (e il fatto che la disposizione non abbia mero valore ricognitivo) si evince anche da valutazioni lessicali. Si dice, infatti, ``in partiti politici'' e non ``nei partiti politici''. Tale risultato interpretativo è confermato e rafforzato da altro enunciato costituzionale fondamentale, laddove è prescritta la necessità dell'``effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica dello Stato''. "Organizzazione politica" è palesemente un concetto di sintesi che rinvia per la sua dettagliata precisazione alle norme successive sull'ordinamento della Repubblica e a quello sui rapporti politici.

I partiti politici sono "uno" degli istituti dell'organizzazione politica dello Stato e, nel medesimo tempo, se si accetta il combinato-disposto dell'art. 49 e del 2· comma dell'art. 1, "possono" essere forma di esercizio della sovranità popolare.

Devo ora motivare il ``possono'' e a questo scopo è opportuno ritornare all'analisi dell'art. 49 e al contesto logico, formale e storico in cui la norma si inserisce.

3. Come è noto, la dottrina nella sua prevalenza e soprattutto nei primi anni dopo l'entrata in vigore della Costituzione, si è affaticata nell'interpretazione della formula ``metodo democratico'' nell'intento di ricavare da essa - e questo da parte di una corrente che potremmo definire per comodità di destra - dei limiti all'organizzazione interna dei partiti politici (e di rivendicare quindi una loro regolamentazione legislativa con tutte le conseguenze pratiche che questo avrebbe determinato) (7). Contro una simile impostazione i pubblicisti di sinistra reagivano in una posizione di difesa, ribadendo come il ``metodo democratico'' fosse un limite ``esterno'': comportasse semplicemente l'obbligo per le formazioni politiche di non ricorrere a metodi violenti per l'affermazione dei loro principi programmatici e, più in positivo, di accettare come terreno di lotta e di confronto le istituzioni parlamentari (8).

Da una parte e dall'altra, simili interpretazioni si possono giudicare oggi come riduttive e comunque poco produttive, nel momento in cui si rinunciava a proiettare il modello e la realtà dei partiti politici nel modello e nella realtà dell'ordinamento.

Pretendere, in altri termini, di immaginare una struttura-tipo o un insieme di attività-tipo dei partiti politici, non calate appunto nel farsi delle istituzioni dello Stato era ed è un non senso.

Nell'art. 49 della Costituzione le espressioni ``associarsi liberamente'', ``concorrere con metodo democratico'', legate l'una all'altra, non possono prescindere dal fine della norma: la determinazione della politica nazionale da parte di tutti i cittadini. Il problema non era (e non è) dunque quello di estrarre dall'enunciato improbabili sanzioni giuridiche, ma piuttosto quello di "usare" la norma nella pretesa dell'attuazione del modello costituzionale nel suo complesso. Giacché lo sviluppo delle istituzioni e lo sviluppo dei partiti, nella loro organizzazione e nella loro presenza nella società, corrono insieme.

Inevitabilmente diversa è infatti - e un'indagine comparata di scienza politica e di diritto costituzionale lo confermano - la struttura dei partiti politici (e direi anche il loro modo di reagire alla società civile) in un ordinamento di democrazia classica centralizzata e in un ordinamento che si fonda sui (e applica i) principi delle autonomie e del decentramento (nelle sue varietà di "stato regionale e di stato federale") e che istituzionalmente riconosce altri canali di partecipazione politica oltre i partiti.

Ad esempio, laddove - come negli Stati Uniti - i gruppi di pressione hanno tale rilevanza pubblicistica da essere registrati (con gli oneri e gli obblighi che ne conseguono) presso il "Clerk" della Camera dei Rappresentanti e il Segretario del Senato, il ruolo e le scelte organizzative dei partiti ne risultano fortemente condizionati. E ancora, per rimanere al caso americano: di differente intensità appare la rappresentatività dei partiti negli stati federati ove sono costituzionalmente previsti istituti di democrazia diretta, quali il referendum, l'iniziativa popolare, il "recall" e via dicendo (9).

4. Il modello costituzionale del nostro Paese prometteva e tuttora formalmente promette - in una norma dei principi fondamentali - il riconoscimento delle autonomie locali e il ``più ampio decentramento amministrativo'' dei servizi che dipendono dallo Stato e, più in generale, ribadisce questa sua promossa con l'affermazione di adeguare i ``principi e i metodi della sua legislazione alle esigenze delle autonomie e del decentramento''.

Non è qui il caso di commentare il valore e la portata di queste proposizioni: basti rinviare al bel saggio di Giorgio Berti sull'art. 5 nel "Commentario della Costituzione" (10). Voglio solo mettere in risalto il filo che unisce questa situazione con l'art. 49 della Costituzione; e non è solo un filo logico e sistematico, è anche un filo storico.

Nella fase precostituente, come si sa, l'organizzazione dei partiti politici e la rivendicazione delle autonomie nelle amministrazioni locali hanno trovato il loro punto di convergenza nell'esperienza dei CLN nell'Italia settentrionale. Esperienza che, come ha scritto Ernesto Ragionieri "costituisce il primo segno di una nuova concezione del potere che si avanza come risultato della rivoluzione democratico-antifascista in atto: un potere democratico non distaccato dal popolo che ne è l'emanazione, ma posto "direttamente sotto il suo controllo", non più elemento periferico di un potere esecutivo centrale, ma autonoma capacità delle masse lavoratrici di affrontare e di risolvere nell'autogoverno i problemi della convivenza civile e, insieme, della produzione e della distribuzione della ricchezza'' (11).

Il progressivo e veloce ridimensionamento e l'esautorazione dei CLN - ridimensionamento ed esautorazione dovuti anche alla ``prudenza'' di Togliatti che vedeva in questo organismi ``istituti eccezionali e contingenti'' che non potevano sostituirsi alle istituzioni tradizionali (12) - furono probabilmente una delle cause determinanti per il recupero e ricostruzione del blocco conservatore e che non poco incideranno verso l'inattuazione dell'art. 5 della Costituzione e dello stato regionale. (Il primo ``slittamento'' elettorale della storia costituzionale italiana disposto dal Governo risale al luglio del 1949, quando si rinviò "sine die" l'istituzione dei Consigli regionali).

5. Omogenea e complementare alla concezione dello stato regionale e decentrato è la previsione nel modello costituzionale della democrazia diretta, da valutarsi come uno dei presupposti essenziali per la formazione delle ``autonomie politiche''. E' veramente singolare che quanti sono orientati alla valorizzazione degli elementi di democrazia nella nostra Costituzione, non si siano mai sforzati di cogliere questo aspetto nell'interpretazione degli istituti referendari o dell'iniziativa legislativa popolare. E' sempre prevalso un parametro di analisi di tipo liberale, statico. Il referendum, in altri termini, è stato sempre inquadrato come un "diritto elettorale aggiuntivo" attribuito "ai singoli", in una visione atomistica dei poteri dei cittadini considerati, nel frangente in cui esercitano i diritti relativi alla democrazia diretta, come un insieme anonimo, quasi occasionale. Non si è mai tentato di proporre una versione dinamica e proiettiva dell'esercizio del referendum, per scoprire dietro la facciata de

i 500 mila firmatari di una richiesta abrogativa dei soggetti collettivi, delle formazioni sociali dotate di identità ben precise con delle pretese che non si esauriscono nelle svolgimento della consultazione elettorale, ma che continuano ad oprare in un contesto politico organico (13).

Eppure non è casuale, ad esempio, che nel primo comma dell'art. 75 il diritto di richiesta di referendum sia riservato a 500 mila elettori "o" a 5 Consigli regionali. Esiste un rapporto di coerenza tra questi soggetti, proprio perché le autonomie politiche e le autonomie territoriali sono espressione di una stessa ideologia. Il fatto che il costituente abbia voluto legittimare i Consigli regionali a farsi promotori di referendum abrogativi - senza altri limiti di materia che non siano quelli del 2· comma dell'art. 75 - vuol dire aver pensato il decentramento territoriale non in maniera semplicemente amministrativa, ma "politica" nel vero senso della parola; giacché si è riconosciuto il potere delle regioni di concorrere alla determinazione della politica nazionale attraverso l'impiego di uno strumento, quale il referendum abrogativo, che permette un controllo, sia pure su specifici punti, dell'indirizzo politico del Parlamento. E quando si dice Parlamento, evidentemente si dice "partiti di maggioranza". Part

iti che non è affatto escluso non possano essere gli stessi in maggioranza anche in uno o più dei consigli regionali promotori di richieste abrogative. Non pare in effetti estraneo al disegno costituzionale ipotizzare che la politica nazionale sia la sintesi non solo del confronto e della conflittualità tra formazioni politiche diverse, ma anche di un rapporto dialettico tra le articolazioni territoriali degli stessi partiti.

6. Dunque nel modello la funzione (e quindi la struttura) dei partiti politici si esprime in un tessuto fittissimo di autonomie locali e di autonomie politiche che, in ultima analisi, non sono il supporto e nemmeno semplicemente la naturale evoluzione di un regime liberale rappresentativo, ma qualcosa di profondamente diverso: sono le fondamenta di una "democrazia". Democrazia si può aggettivare in mille maniere: "progressiva, avanzata, di massa". Io ritengo più significante e più immediatamente percettibile - anche se ciò può evocare emozioni giacobine - l'espressione ``democrazia semidiretta'' che, del resto, risale ai costituenti. Ma evidentemente non è questione di termini.

Carlo Lavagna nel famoso saggio del 1952 ``Il sistema elettorale nella Costituzione italiana'' (14), ha dimostrato l'illegittimità costituzionale dell'adozione di quei sistemi elettorali che non consentono una rappresentanza rigorosamente proporzionale delle forze politiche, a tutela delle opportunità di azione politica delle minoranze. Per giungere a una simile conclusione, questo autore ha dovuto compiere un'indagine assai profonda e precisa delle caratteristiche del tipo di democrazia accolto dalla Carta. Democrazia che è stata schematicamente definita come ``permanente, sociale, ideologica, radicale, e proiettiva''(15). In un simile sistema il riconoscimento degli istituti di democrazia diretta, delle autonomie locali, così come di altri istituti garantistici - annotava l'insigne studioso nel 1952 - è funzionale all'esigenza di garantire ``il ricorso delle minoranze politiche, ancorché esigue, alla determinazione della politica nazionale e, quindi, una ulteriore e non meno significativa esclusione del co

ngelamento dei poteri nella maggioranza'' (16) (Non immaginava, forse, il Lavagna il valore che questa sua asserzione avrebbe mantenuto anche 25 anni dopo...!).

Dunque, anche nella ricostruzione del Lavagna appare chiaro il rapporto di reciproca dipendenza e integrazione che lega l'art. 49 della Costituzione agli altri istituti e principi costituzionali in tema di organizzazione territoriale e politica dello Stato e in tema di democrazia diretta, per l'affermazione di un pluralismo che non pare fuori luogo definire "esistenziale".

7. Ma, come si sa e come continuamente si rammenta, il modello del 1948 è rimasto solo un disegno. Dopo il 1· gennaio del 1948 c'è stato il 18 aprile, si è attuata una costituzione diversa: dall'"utopia" della stato delle autonomie si è approdati alla "realtà" di uno stato centrista oligarco-liberale, tanto che il giudizio espresso nel 1949 da Salvemini per cui il regime politico italiano vigente non era (e non sarebbe stato) altro che ``fascismo meno Mussolini, più la regione'' (17) peccava, per questa seconda parte, di ottimismo. Non è casuale che accanto alla mancata riforma (o meglio trasformazione) delle autonomie locali in uno stato regionale, fu congelata anche la democrazia diretta e gli istituti referendari in particolare, dei quali la sinistra rivendicava l'attuazione rendendosi perfettamente conto della loro funzione garantista, in quanto strumenti capaci di allargare le opportunità istituzionali di controllo sull'indirizzo politico della maggioranza centrista e conservatrice (18).

In un simile quadro, essendo "altra" la Costituzione vivente rispetto al modello - negato proprio nei sui principi fondamentali -, era chiaro che anche la funzione (e quindi, insisto, la struttura) dei partiti veniva a perdere il suo valore più essenziale e più innovativo: quello di far concorrere tutti i cittadini alla determinazione della politica nazionale. L'art. 49 nella costituzione "effettiva" veniva ad avere un ruolo declassato, significava nulla più che il riconoscimento della pluralità dei partiti politici in una situazione di continuità ideale con l'ordinamento "liberale avanzato" del 1919-22.

Nello stato centralizzato, nello stato senza autonomie territoriali, senza decentramento nella pubblica amministrazione, i partiti non potevano non mutuare un tipo di organizzazione e di chiusura verticale e verticistica, non erano più in grado di recuperare la breve ma intensa stagione di sperimentazione dei CLN, quando il diaframma tra società civile e società politica si era spezzato, nonostante i partiti stessi fossero non poco condizionati dall'esperienza appena vissuta dell'organizzazione clandestina e quindi estremamente gerarchizzata o militarizzata.

Quando parlo di partiti politici in generale, non mi riferisco solo ai partiti di maggioranza (per i quali il centralismo oligarco-clientelare e irresponsabile - al di là delle apparenze statutarie - era evidentemente strumentale all'occupazione del potere), ma mi riferisco anche alle formazioni della sinistra le quali "obiettivamente" non potevano avere un'organizzazione sostanzialmente alternativa, dati proprio i livelli di opportunità istituzionali di opposizione che il regime loro assegnava: quelli di un sistema rappresentativo puro. Né la realizzazione, peraltro tardiva, di alcuni istituti garantistici fondamentali - come nel 1955-56 la Corte costituzionale - era sufficiente a rimettere in discussione un simile assetto (pur avendo questo organo, soprattutto nei primi anni della sua attività, costituito un argine a un'ulteriore chiusura del sistema).

Fornire delle giustificazioni oggettive al mancato decollo - mancato per lo meno rispetto alle ipotesi della Costituzione scritta - dei partiti politici, non può esimere dal pervenire a una conclusione: e cioè che i partiti stessi rispetto al modello dell'art. 49 e delle altre norme che, abbiamo visto, sono a esso complementari, hanno subito una caduta di legittimazione. Sono rimasti, cioè, sì centri di potere, centri di elaborazione politica, ma non veicoli di partecipazione politica diffusa. L'unica fonte di legittimazione rimanendo le elezioni: condizione necessaria, ma non sufficiente di legittimazione, sempre se si ha riguardo al modello.

Quanto affermato trova un riscontro puntuale nelle analisi sulla partecipazione politica nei partiti che negli anni '60 hanno affaticato una nutrita schiera di politologi e sociologi e che hanno dimostrato non solo il distacco dei cittadini dalle formazioni politiche, ma anche la marginalità del concorso degli iscritti nella conduzione e nel controllo degli indirizzi dei partiti di appartenenza (e questo anche se si è rilevato che l'intensità della partecipazione politica interna - o forse più esattamente del consenso - varia da partito a partito, con le punte più alte nel PCI) (19). Gli anni '70 in cui è scoppiata, con il cosiddetto ``disgelo costituzionale'' manifestatosi durante la fase del centro-sinistra, l'illusione di un recupero magari integrale del modello (20), non hanno inciso in modo rilevante nella direzione di una riconquista di legittimazione da parte dei partiti politici quali forme privilegiate di esercizio della sovranità popolare. E in effetti essi (e qui mi rivolgo in particolare ai parti

ti della sinistra storica) hanno perso delle occasioni forse irripetibili.

L'attuazione delle regioni non ha comportato il deperimento dello stato centralista, nel momento in cui non si è "contemporaneamente" provveduto a una radicale riforma della pubblica amministrazione e delle autonomie locali nel senso indicato dall'art. 5. Alla burocrazia dello Stato si è aggiunta una burocrazia regionale e questo ha contribuito sì a una crescita dei partiti, ma è stata una crescita essenzialmente clientelare e di cooptazioni tecnocratiche.

8. Eppure - e sono queste le occasioni perdute - con l'approvazione dello Statuto dei lavoratori e con l'entrata in vigore della legge n. 352 di timida attuazione dei referendum previsti dalla Carta, si sono creati spazi istituzionali importanti di autonomia politica. E questo perché con i provvedimenti citati si conferiscono ai cittadini concreti poteri di controllo capaci di favorire aggregazioni sociali e politiche: e nella fabbrica e nella comunità.

La pressione di queste autonomie politiche, come è noto, non è però riuscita, per le resistenze degli apparati, a conferire o a ripristinare quella legittimazione non episodica postulata dall'art. 49. Anzi, negli anni '70 i partiti politici hanno subito un non indifferente calo sia di partecipazione interna sia di presenza nella società, tanto che una vasta letteratura di quel periodo si è soffermata diffusamente ad esempio, sul ``ruolo di supplenza'' svolto dai sindacati (21) ai fini del concorso di masse non indifferenti alla determinazione della politica nazionale.

Una fiammata di ripresa della partecipazione nella vita interna dei partiti c'è stata - e anche questo dato è emblematico - proprio all'atto del referendum sul divorzio. Ci sono delle testimonianze significative in questo senso: quella dell'on. Nenni che ``meravigliato'' ebbe a dire che era dal '46 che non vedeva le sezioni del PSI così piene. Sarebbe a questo proposito interessante poter disporre di indagini precise sulla partecipazione nei partiti durante la vicenda del referendum sulla legge Fortuna-Basalini, per avere una ulteriore conferma dell'inscindibile nesso tra esercizio della democrazia diretta e concorso dei cittadini nei partiti politici verificato nella prassi. Concorso che acquista un peso determinante e positivo in una ``democrazia permanente e radicale'' (per ripetere la formula di Lavagna) o ``conflittuale'' come scoprono oggi i teorici della prossima stagione socialista. Ove, evidentemente, la conflittualità non appaia ancora una volta come una conflittualità politica delegata, ma sia dif

fusa ai vari livelli della collettività.

9. La denuncia della "conventio ad excludendum" nei confronti del PCI e la conseguente associazione di questo partito nella responsabilità della gestione del potere - permanendo inalterati i rapporti di classe - ha necessariamente prodotto un maggiore accentramento e verticismo dei partiti. In una situazione di ``dosati equilibri'', in cui non esiste una maggioranza nel senso proprio del termine e in cui l'indirizzo politico del governo subisce continuamente degli aggiustamenti (in un sistema di contrattazione permanente), il potere e la funzione degli apparati cresce enormemente e i partiti si confermano più come centri di elaborazione politica che come veicoli del concorso di tutti i cittadini alla determinazione della politica nazionale. In questa fase in cui è in corso una partita a scacchi (hobby d'élites in Italia) in cui i giocatori devono concentrarsi più per evitare lo stallo che per cautelarsi dallo scacco matto, il problema che preoccupa i partiti è quello dell'organizzazione del consenso (per la

sua gestione dall'alto) che non piuttosto quello di sottoporre a verifica i processi interni di formazione del consenso stesso in rapporto alle opzioni della società civile.

Secondo me, assai indicative di queste tendenze neo-centraliste sono due leggi di estrema rilevanza costituzionale, proprio perché approvate immediatamente dopo il ``disgelo'' degli anni '70 (quando come ho già accennato taluno ottimisticamente ipotizzava il recupero del ``modello'') e in quanto queste leggi appaiono recessive rispetto alle caratteristiche del modello stesso: la legge sul finanziamento pubblico (e diretto) dei partiti e quella più recente sui Consigli di circoscrizione. Per quanto concerne la prima giova in questa sede semplicemente rilevare come tale provvedimento nella sua logica abbia recepito e quindi confermato e quindi rafforzato "un tipo" di organizzazione di partito politico: quello a struttura e a direzione oligarco-centralista. Vari elementi della legge provano questa affermazione. Basti solo considerare quelle disposizioni che presuppongono, e quindi impongono, per tutti i partiti, uno stretto vincolo sostanzialmente di dipendenza tra segreterie dei partiti e gruppi parlamentari.

I contributi "devono" essere trasmessi dal presidente del gruppo parlamentare al ``rispettivo'' partito e l'intera responsabilità della gestione finanziaria dei partiti stessi - anche per quanto concerne le loro articolazioni territoriali - è riservata in forma esclusiva ai segretari nazionali (22).

Con la legge n. 278 si sono, d'altro canto, in pratica ``normalizzate'' le esperienze spontanee di partecipazione e di controllo infracomunali organizzate attorno ai quartieri e la nuova disciplina - come ho già avuto occasione di annotare (23) - ha operato più nel senso di una moltiplicazione di centri di rappresentanza locale che nel senso di istituzionalizzare forme di ``controllo reale'' dei cittadini e delle formazioni sociali sulla politica comunale. I Consigli di circoscrizione sono stati pensati, soprattutto, come cuscinetti tra potere comunale e ``base'', idonei ad evitare il sorgere di tensioni e di vertenze foriere di incidere negativamente su equilibri politici da salvaguardare fino in fondo. L'assemblea, eventuale (in quanto da convocarsi solo su iniziativa dei Consigli di circoscrizione) è stata declassata a momento di pubblica discussione ``dei problemi inerenti alla circoscrizione'', e così pure le forme di intervento popolare immediato sono in quel testo - pur nella consapevolezza che si tra

tta di una legge-quadro - rigorosamente stabilite e delimitate; e la concomitanza delle elezioni dei consigli di quartiere con i consigli comunali (riaffermata oggi in alcuni progetti di legge) (24) non è casuale. Si vogliono evitare momenti di rottura, di contraddizione tra organi rappresentativi (anche se locali) e rappresentati. La mediazione come valore quasi assoluto viene ad occupare lo spazio del controllo in tutti i possibili centri di partecipazione (25). Contemporaneamente si consolida il partiti-ente e non nasce il partito-comunità.

10. Federico Stame ha descritto a mio avviso molto bene questo processo quando osserva che ``si attua così una progressiva socializzazione di tutti gli ambiti della cosiddetta società civile, in cui il sempre più esteso ed organico inserimento del soggetto nelle istituzioni sociali intermedie funziona sia come coefficiente di legittimazione del potere estraniato, che come restringimento degli ambiti nei quali è possibile la formazione organizzata del dissenso, concepito come formazione organica di opposizione politica. La democrazia, tendenzialmente, si prospetta così come il regime dove il conformismo sociale è la risultante di un processo di razionalizzazione della separatezza tra dirigenti e diretti, dove il fondamento della legittimazione è razionalizzato (non razionale)''(26).

In questa prospettiva si collocano, ad esempio, alcune affermazioni molto chiare contenute nella ``Proposta di progetto a medio termine'' del PCI, quando si legge che: ``lo Stato democratico deve fondarsi... su una corretta ripartizione di compiti e responsabilità tra assemblee elettive comunali, regionali e nazionali, legate insieme da una "direzione politica unitaria"'' e, più avanti, ``...In questo contesto i partiti devono "organizzare la partecipazione politica delle masse..."'' (27)

Ma questa concezione - occorre chiederci - è conforme al modello costituzionale che continuamente viene evocato come fine ultimo da realizzare? Alla sua ideologia democratica così come si è tentato di ricostruire? Ma è proprio vero che le assemblee elettive comunali, regionali e nazionali devono essere legate insieme da una direzione politica unitaria? E che i partiti devono organizzare le masse, o non piuttosto le masse che devono organizzare i partiti per esprimere la "loro" sovranità?

Beninteso, le asserzioni di cui qui si dubita appaiono del tutto omogenee alla costituzione materiale, propria di una ``democrazia consociativa''; e non si contesta il diritto a coloro che credono in essa di operare per il suo consolidamento, e di ritenere che essa sia in ogni caso un "progresso" rispetto alla democrazia ``limitata'' del centrismo nelle sue varie sfumature. Quello che invece non pare corretto è proporle come attuazione del modello costituzionale: interpretare la norma dell'esercizio della sovranità dei cittadini come modo di sostanziale alienazione o delegazione di poteri a enti politici precostituiti.

E allora non mi pare così clamoroso concludere che l'enunciazione secondo la quale i partiti politici sono il ``canale'' privilegiato di espressione della sovranità popolare non è né vera, né verificata. Non era vera nella democrazia limitata della "convenzione ad excludendum" per l'inattuazione - come si è visto - del complesso dei principi strutturali delle autonomie politiche e territoriali. Non è vera oggi, perché il sistema della democrazia consociativa richiede, per sua natura, centralismo e consenso organizzato. In questo contesto il referendum - in quanto istituto di controllo che aumenta le opportunità istituzionali di opposizione delle minoranze marginali e che può determinare la formazione e l'aggregarsi nella società civile di autonomie politiche "non eterodirette" - diventa una pericolosa contraddizione.

Ma non si dica che questo istituto è (e deve essere) per sua vocazione strumento eccezionale di intervento in presenza di partiti politici - quali sono quelli che si sono realizzati in Italia in questi 30 anni di esperienza repubblicana - se, prima, non si danno risposte "istituzionalmente significanti" (e cogliendo il senso della questione) alle precise domande poste da Federico Stame nei "Quaderni Piacentini"(28): ``Chi mi garantisce che un accordo tra DC e PCI rappresenti l'84 per cento del popolo italiano, se non sono in grado di controllare la legittimità dei processi di formazione delle decisioni all'interno dei partiti?... Perché non ci è concesso di sapere se tutto l'elettorato comunista è d'accordo sul fermo di polizia, sulla condanna dell'iniziativa referendaria radicale?''

NOTE

1. N. 3, 1976, p. 572.

2. L'opera di K. Marx richiamata dal Greca è ``"Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico"'', in "Opere filosofiche giovanili", Roma 1971, pp. 131-135.

3. Cfr. sul punto, oltre all'autore appena citato, tra gli altri: De Marco, "Contributo allo studio del referendum nel diritto pubblico italiano", Padova 1974, pp. 126 e 125; Chiappetti, "L'ammissibilità del referendum abrogativo", Milano 1974, p. 41 (nella nota 94 altre indicazioni bibliografiche). L'autore da ultimo citato sembra però alquanto mitigare le sue conclusioni sull'``eccezionalità'' del referendum in uno scritto successivo: "Dubbi sulla legittimità di nuove limitazioni legislative del referendum abrogativo", in "Il Politico", 1976, p. 139 ss. Anche il Mortati valuta il referendum ``"forma eccezionale di legiferazione"'', ma nel medesimo tempo conviene come il suo scopo sia proprio quello di "alterare" il gioco parlamentare, in quanto strumento che ``deve essere inteso come arma messa a disposizione delle minoranze in parlamento, o di quei gruppi di elettori che ritengono non aderenti alla volontà del Paese determinate misure prese dalla maggioranza al potere o intendano provvedere a omissioni in

cui questa sia incorsa e perciò è ricolta a temperare l'arbitrio della maggioranza stessa'' ("Istituzioni di diritto pubblico", Padova 1976, pp. 837-838).

4. Cfr. "Il referendum come strumento costituzionale di iniziativa politica", in "Alternative", 1975, n. 5 p. 60 ss.; "Referendum abrogativo e riserva di sovranità", in "Politica del diritto" 1975, p. 305; "Colpo di mano contro il referendum?" in "Corriere della Sera" 24 novembre 1975 e da ultimo "I comunisti e il referendum" in "La Repubblica", 4 settembre 1976.

5. Ordine del giorno presentato dall'on. Dossetti: "Atti Ass. Costituente, I Sc. resoconti sommari", p. 412.

6. Tra i tanti, il Mortati, "op. cit." p. 868 e Crisafulli, "I partiti nella Costituzione", in "Jus" 1969 (I e II) p. 13.

7. Tra gli altri, Esposito, "I partiti nella Costituzione italiana", in "La costituzione italiana" (saggi), Padova 1954, p. 235 e Ferri G.D., "Studi sui partiti politici", Roma 1950 p. 133 e ss.

8. Cfr.: Predieri, "I partiti politici", in "Commentario sistematico alla Costituzione italiana" (diretto da Calamandrei e Levi), Firenze 1950 pp. 205 e ss. e Barile, "Corso di diritto costituzionale", 1962, p. 234; Mortati, "Istituzioni di diritto pubblico" (V ed.), Padova 1960, p. 688 e ss.; Basso "Il partito nell'ordinamento democratico moderno", in "Indagine sul partito politico" (a cura dell'ISLE), I, Milano 1966, p. 99 e ss.

9. Si può vedere Greco, "Democrazia diretta e referendum nell'ordinamento statunitense", in "Studi parlamentari e di politica costituzionale", 1971, p. 51 e ss. Sui rapporti tra partiti e gruppi di pressione in USA, si può tuttora leggere Roche e Levy, "Party and pressure groups", Harcourt, New York 1965.

10. A cura di G. Branca, Bologna-Roma 1975, p. 277.

11. In "Politica e Amministrazione nelle storie dell'Italia unita", Bari 1967, p. 192.

12. Lo ricorda A. Mattone, "I partiti di massa e le autonomie locali", in "Democrazia e diritto", 1976, p. 943.

13. In questi termini mi sono espresso in "Referendum come strumento cost. etc." cit. p. 66.

14. In "Rivista trimestrale di diritto pubblico", 1952, p. 849 e ss.

15. Cfr. p. 876.

16. "Op. cit." p. 857.

17. "Federalismo e regionalismo", in "Il Ponte", 1949, (V), n. 7.

18. Una proposta di legge per l'attuazione dei referendum previsti dalla Costituzione fu presentata alla Camera dei deputati nella II legislatura (doc. n. 2640) nel dicembre del 1956 dagli onn. Luzzato, De Martino, Targetti, Malagugini, Ferri.

19. Tra i tanti contributi in materia mi limito a ricordare le ricerche comparse in periodi diversi sulla rivista "Tempi moderni". Cfr. in particolare sui nn. 3-4 del 1958: AA. VV., "Partecipazione politica a livello di base"; sui nn. 8-9-10 del 1962: AA. VV., "La partecipazione politica e i partiti in Italia"; cfr. anche i nn. 23-24-25-26 del 1966: AA. VV., "Nuova classe dirigente e partecipazione". Importanti anche i volumi in materia pubblicati tra il 1967 e il 1969 a cura dell'``Istituto di Studi e ricerche C. Cattaneo'' di Bologna, nell'ambito di un'indagine sulla Democrazia cristiana e sul Partito comunista. Utile consultare inoltre i nn. 3-4 del 1966 dei "Quaderno di sociologia" e i nn. 1-2-3 dei "Quaderni di scienze sociali". Una bibliografia completa la si può trovare in "Sociologia dei partiti politici", a cura di G. Sivini, Bologna 1971.

20. Sull'attuazione della Costituzione negli anni del centro-sinistra e sulle prospettive di sviluppo del sistema politico nelle fasi successive, Cheli, "La Costituzione alla svolta del primo ventennio", in "Politica del diritto" 1971 (2) p. 167 e ss. e gli interventi di vari autori nello stesso fascicolo, dedicato al tema "Stato e tendenze delle istituzioni in Italia" (cfr. in particolare Amato, Pizzorno, Bassanini, Predieri e Onida).

21. Sul punto, Giugni, "Stato sindacale, pansidacalismo, supplenza sindacale", in "Politica del diritto" 1970, p. 46 e ss.; dello stesso autore, "I sindacati dalla politica delle riforme all'autunno rivendicativo", in "Politica del dir." 1972, in particolare a pag. 175. Si veda anche, più in generale, Pizzorno, "I sindacati nel sistema politico italiano", in "Riv. trim. dir. pubbl." 1971, p. 1510 e ss. e Girotti, "Partecipazione politica e crisi di legittimità" in "Il sistema politico italiano" (a cura di P. Farneti), Bologna 1973, p. 395 e ss.

22. Sulla rilevanza costituzionale della l. n. 195 del 1974 mi sia consentito rinviare al mio scritto: "La legge sul finanziamento pubblico dei partiti - Note critiche sui rapporti tra sistema politico e diritto dei partiti", in "Il Politico" 1974, p. 640 e ss.

23. "La normalizzazione", in "Critica Liberale" n. 3 1976, p. 46.

24. Ad esempio nel progetto presentato dal PRI, in questa legislatura, sul raggruppamento delle elezioni amministrative (Mammì e altri, doc. 1672 del 25-7-1977).

25. Sul punto cfr. il mio "Genericismo partecipatorio e controllo sociale", in "Politica del diritto" 1976, p. 527 e ss.

26. "Democrazia autoritaria e movimenti di libertà", in "Quaderni Piacentini", n. 62-63, aprile 1977, p. 9.

27. Alle pp. 104-105 del volume edito a Roma, 1977.

28. "Le seduzioni della democrazia autoritaria", n. 64, luglio 1977, p. 10.

 
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