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Chiappetti Achille - 1 marzo 1978
REFERENDUM ORDINE PUBBLICO COSTITUZIONE: (9) Il referendum nel disegno e nella effettività costituzionale
di Achille Chiappetti

SOMMARIO: Due questioni vengono essenzialmente affrontati nel corso del convegno, quella dell'istituto del referendum che progetti di legge comunisti, socialdemocratici, democristiani sottopongono a revisioni più o meno decise e il disegno di legge governativo in tema di ordine pubblico. Questi due temi vengono affrontati in relazione ai principi stabiliti dalla Carta Costituzionale.

("REFERENDUM ORDINE PUBBLICO COSTITUZIONE", Rispondono i giuristi. Atti del convegno giuridico organizzato dal gruppo parlamentare radicale - A cura di Ernesto Bettinelli e Luca Boneschi - Tascabili Bompiani, marzo 1978)

1. Prima di iniziare lo svolgimento del mio intervento che dovrebbe riguardare unicamente l'argomento del referendum, vorrei rispondere a uno dei quesiti sollevati dalla relazione del professor Barile.

In particolare vorrei brevemente soffermarmi su una delle argomentazioni portate al fine di giustificare le nuove misure di polizia che si vogliono ora introdurre per la tutela dell'ordine pubblico. Vorrei fare solo un brevissimo appunto sull'affermazione secondo la quale la nuova misura preventiva dell'arresto dovrebbe ritenersi legittima, in quanto apparterrebbe allo stesso "genus" delle misure di prevenzione disciplinate dalla legge del 1956. Facendo un collegamento con la giurisprudenza della Corte costituzionale il professor Barile ha detto che, in sostanza, mentre non vi sono grosse differenze tra questa nuova misura e quelle limitatrici della libertà personale contenute nella legge Scelba la prima avrebbe un "fumus" di legittimità maggiore, in quanto adottabile in casi più tassativamente individuati.

Mi limito ad attirare l'attenzione sul fatto che il raffronto si basa su erronei presupposti, perché, se è vero che la legge del '56 elenca alcune misure di prevenzione limitatrici della libertà personale, essa le contrappone ad altre, quali la diffida ed il rimpatrio obbligatorio, che sono adottabili dalla autorità di pubblica sicurezza solo perché non intaccano la libertà personale. Al contrario le misure che limitano la libertà personale, quali il divieto e l'obbligo di soggiorno in determinati comuni, sono di competenza dell'autorità giudiziaria e solo per tale motivo sono considerate costituzionalmente legittime.

Resta dunque ancora da dimostrare quali misure preventive, limitative della libertà personale di un individuo che abbia creato una situazione di pericolo, possano essere adottate, anche se in via d'urgenza, dagli organi amministrativi di polizia. Cioè, occorre dimostrare che l'art. 13, 3· comma, della Costituzione consenta di ritenere legittima una misura di urgenza di polizia che anticipi non una sanzione penale, bensì un'altra misura preventiva da adottarsi da parte dell'autorità giudiziaria. E in proposito la giurisprudenza costituzionale non può essere d'aiuto, dato che non ha mai risposto a un quesito siffatto.

Va poi aggiunto che seri dubbi di legittimità sorgono in quanto appare incongruo attribuire alla polizia un potere provvisorio, di totale privazione della libertà personale (un vero e proprio fermo) al solo fine di anticipare meno gravi e drastiche misure preventive dell'autorità giudiziaria, quale, per esempio, il divieto di soggiorno.

2. Passando ora a quello che dovrebbe essere l'argomento principale di questo intervento, e cioè al referendum abrogativo, desidero precisare subito che è mio intendimento mantenermi su un piano di carattere generale, senza soffermarmi sui singoli opinabili aspetti delle proposte di legge pendenti, che vorrebbero ridurre l'utilizzazione del referendum. Mi atterrò quindi a considerazioni di carattere sistematico collegandomi, pertanto, all'ampia e bellissima relazione di Rodotà che mi sembra costituire la forma di risposta più idonea alle domande che questo convegno vuole porre.

Per quanto concerne, invece, gli aspetti di dettaglio, consentitemi di rinviare a quanto ebbi già ad affermare sul disegno di legge del Partito comunista (presentato al termine della scorsa legislatura e riprodotto senza modifiche nel disegno di legge comunista ora pendente alla Camera) per la riduzione delle possibilità di ricorrere al referendum abrogativo. Ho visto, d'altronde, con piacere che la quasi totalità del mio commento, pubblicato, lo scorso anno nella rivista "Il Politico" è stata trasfusa, quale commento del gruppo radicale, nel libro bianco che il partito radicale ci ha presentato a questo convegno (1).

Quali sono i motivi che possono convincere che gli aspetti generali della questione siano molto più rilevanti di quelli relativi ai singoli profili di illegittimità che possono inficiare i progetti di legge costituzionale e ordinaria attualmente pendenti dinanzi al Parlamento? Direi che il motivo principale sta nell'incertezza in cui naviga ancora una buona parte della nostra classe politica quando si tratta di stabilire quale sia la collocazione e la funzione del referendum nel complessivo sistema costituzionale vigente. A seconda del tipo di risposta che si dà a questo quesito discendono impostazioni e interpretazioni che possono essere diametralmente opposte, che vanno da quelle punitive o riduttive nei confronti del referendum a quelle che, al contrario, vedono in quest'istituto il fulcro di un sistema rappresentativo ma adeguatamente corretto.

Di tale contrasto di posizioni si ha un palpabile esempio ove si consideri il tema di questo convegno: ``I progetti di limitazione del referendum... "sono compatibili con il modello costituzionale"?'' e lo si raffronti con alcune affermazioni contenute nelle proposte di legge in parola.

Si noti per esempio come si muova da una posizione diametralmente opposta l'iniziativa dei deputati democristiani Bianco ed altri (2) quando afferma nella relazione introduttiva: ``E' appena il caso di notare che la presente iniziativa non vuole essere una risposta diretta e immediata alla campagna per i cosiddetti `otto referendum' di cui si parla nella attuale polemica politica, "anche se indubbiamente tale programma referendario ha riaperto il problema del significato stesso di questo istituto costituzionale, della attuazione pratica dei principi in esso contenuti..."'' Altrettanto distante appare pure la posizione comunista nella relazione alla proposta di legge Colonna ed altri (3). Sembra ai proponenti di questa iniziativa che: ``il diritto dei cittadini a esprimere direttamente la propria volontà su determinate leggi "non possa e non debba essere visto in contrapposizione polemica con le assemblee legislative, né possa essere dilatato in maniera tale da stravolgere il sistema di democrazia rappresent

ativa e la sua stessa efficienza", come avverrebbe inevitabilmente se gli elettori fossero chiamati di continuo a molteplici consultazioni sui più svariati temi ed argomenti, "con pratica paralisi non solo delle istituzioni, ma della vita stessa del paese e conseguente svilimento dell'istituto medesimo del referendum.''"

Queste dunque, le due cause del contendere: secondo i promotori del presente convegno gli attacchi rivolti contro l'istituto referendario mettono in forse lo stesso assetto istituzionale previsto dalla Costituzione repubblicana; secondo i proponenti delle iniziative legislative esaminate, l'uso eccessivamente dilatato del referendum sarebbe in grado di mettere in forse l'assetto delle istituzioni democratiche rappresentative instaurate dalla Carta.

La prima posizione vede pertanto nel referendum e nel suo libero uso (sempre nel rispetto dei limiti, già gravosi, indicati dalla legge n. 352 del 25-5-1970) un momento particolarmente qualificante del sistema istituzionale costituzionale; talché ogni attacco all'istituto di democrazia diretta si risolve in un tentativo di destabilizzazione e di rottura dell'assetto strutturale del regime democratico.

La seconda posizione prende lo spunto da una interpretazione estremamente riduttiva del referendum, nell'ambito della quale quest'ultimo assume una rilevanza del tutto secondaria e, direi, non pertinente al livello delle strutture fondamentali dell'attuale regime istituzionale. Ne discende che la volontà espressa (e realizzata) dal Partito radicale di utilizzare il referendum come strumento operante in un dialogo, seppure polemico, con gli organi costituzioni rappresentativi venga considerata non come un tentativo di valorizzare uno "strumento costituzionale", accantonato per troppo tempo da coloro che avrebbero dovuto edificare quella ``costruzione'' istituzionale che la Costituzione ha progettato, bensì come un attentato a una ``costituzione'' diversa nell'ambito della quale il referendum non deve essere inserito, tra gli istituti essenziali o fondamentali.

3. Per risolvere questo contrasto di opinioni e quindi stabilire se siano costituzionalmente congrue le molteplici iniziative legislative intese a ridurre il ricorso al referendum abrogativo, occorre dunque svolgere in prevalenza un discorso che stia a monte delle iniziative stesse. Cioè, io credo che l'analisi debba partire da quello che era (e dovrebbe essere tuttora) il sistema istituzionale previsto dalla nostra Costituzione.

A questo proposito, mi sembra un po' troppo semplicistico dire, ancora nel 1977, che la Costituzione abbia istituito un regime strettamente rappresentativo, quanto meno nel significato che tale termine sembra assumere nella frase della relazione al progetto di legge comunista che ho letto prima; ossia nel significato, sottinteso, che la rappresentatività del sistema si sostanzi nella realizzazione di un regime parlamentare in senso stretto. Ciò anche se l'affermazione dei deputati comunisti può apparire, per alcuni versi, apprezzabile, per il fatto di essere strettamente connessa al tentativo, svolto in questi ultimi anni dal loro partito, di valorizzare l'istituto parlamentare. Ma va chiarito subito che questo processo di valorizzazione deve essere realizzato contro quelle distorsioni dell'assetto costituzionale dovute alla perdita di rappresentatività degli organi politici causata dall'intermediazione dei partiti politici. Non deve di certo essere compiuto colpendo proprio il referendum, il quale, deve ess

ere utilizzato ai fini di un recupero della rispondenza dei meccanismi istituzionali rappresentativi alla volontà della maggioranza del corpo elettorale.

Richiamandosi ad esigenze di salvaguardia di un regime parlamentare "tout court", come dicevo, mi sembra oggi troppo semplicistico: poteva forse parlarsene fino a prima della prima guerra mondiale. Già nelle note costituzioni ``razionalizzate'' mitteleuropee dell'immediato dopo guerra, tra le quali primeggia quella della repubblica di Weimar, di oltre cinquant'anni or sono, il principio parlamentare puro era stato superato. D'altronde la crisi del regime parlamentare aveva avuto inizio già da tempo, anche se se ne parla, in termini di piena attualità, ancora oggi. Infatti, in via di grossa approssimazione, il regime parlamentare puro, ossia quel regime che è stato poi definito come l'espressione tipica delle oligarchie liberali europee dell'800, era entrato irreversibilmente in crisi alla fine del secolo a causa dell'inserimento nella vita politica delle grandi masse popolari.

La più ampia partecipazione ha fatto nascere il pluralismo politico, con la conseguente contrapposizione di parti politiche portatrici di ideologie o di concezioni di governo opposte e a volte perfino incompatibili tra loro e non risolvibili dalla istituzione parlamentare così come congegnata nelle costituzioni flessibili allora in vigore.

Con le costituzioni mitteleuropee entrate in vigore tra le due guerre mondiali si è tentato di ``razionalizzare'' il sistema parlamentare al fine di incanalare nei binari istituzionali le spinte politiche emergenti dai partiti di massa che si erano organizzati nel frattempo. Al loro fallimento e all'incapacità di alcuni altri ordinamenti, quale l'italiano, di adeguare alle nuove esigenze le superate costituzioni ottocentesche si fa risalire, in parte, secondo l'opinione più diffusa, l'avvento dei regimi totalitari nati tra le due guerre mondiali.

L'Assemblea Costituente è stata espressamente consapevole di questo concatenamento di cause e ha operato tenendo presente che la crisi dei regimi parlamentari (puro o insufficientemente corretto come nelle costituzioni ``razionalizzate'') debba essere affrontata onde evitare la degenerazione delle istituzioni democratiche. La Carta, infatti, contiene un progetto di struttura costituzionale nel quale il parlamentarismo puro è definitivamente superato attraverso una serie di meccanismi congegnati in modo tale da ingabbiare sotto varie forme l'azione del Parlamento.

Quali sono dunque i principi conduttori ai quali il costituente si è attenuto? E' indubbio che in un contesto siffatto il principio rappresentativo, che trova nel Parlamento la più rilevante modalità di espressione abbia tuttora una posizione basilare. Ma altrettanto basilare e "non secondaria o cedente" è la posizione del principio contrapposto, secondo il quale al Parlamento non può più essere affidata un'incondizionata posizione centrale di motore del sistema democratico; un principio, questo, dal quale emerge la identica essenzialità, ai fini della determinazione dell'attuale forma di governo, degli istituti parlamentari e di quegli altri che ad esso si "contrappongono".

Se esaminiamo il testo costituzionale da questo punto di vista, si vede come molte delle sue disposizioni possono essere lette in chiave - in un certo senso - antiparlamentare; di controllo, di arresto e di indirizzo dell'attività parlamentare e degli atti a questa conseguenti.

Non starò qui a ripetere considerazioni che sono di comune conoscenza nell'ambito della dottrina costituzionalistica, ma mi limiterò ad una semplice elencazione. Mi voglio riferire: a) alla rigidità dell'attuale costituzione che è stata introdotta per impedire al Parlamento di superare alcuni limiti, di derogare ad alcuni contenuti se non ricorrendo alla procedura particolare e gravosa della revisione costituzionale oppure per obbligarlo a perseguire determinati obiettivi; b) al controllo di costituzionalità delle leggi che possono, per la prima volta nella storia civile italiana, essere annullate da un organo non parlamentare; c) al controllo del Presidente della repubblica esercitabile con il rinvio delle leggi al Parlamento; d) al controllo che il corpo elettorale è in grado di esercitare su singoli atti legislativi attraverso il referendum abrogativo; e) ai limiti che all'attività e alle attribuzioni parlamentari derivano dalla creazione dello Stato delle autonomie, talché il Parlamento viene espropriato

del diritto di svolgere scelte riguardanti materie riservate a organismi rappresentativi locali.

Quello che mi sono limitato qui ad abbozzare è il disegno razionale e complessivo che il costituente ha tracciato per la struttura portante della nostra forma di governo e, nel suo ambito, il referendum abrogativo ha una precisa e logica collocazione (4). Si può dire che, al pari - per esempio - della Corte costituzionale o delle Regioni, il referendum sia uno degli istituti fondamentali per l'attuazione del sistema di governo previsto dalla Costituzione, in quanto serve a completarlo per la parte in cui prevede la istituzione di un parlamentarismo rappresentativo completamente diversificato dai moduli del parlamentarismo classico; in breve un regime che è veramente del ventesimo secolo e non un residuo ottocentesco corretto e adattato; una democrazia non più meramente rappresentativa bensì mista e pluralista.

In questo quadro il referendum, pur costituendo un elemento fondamentale del sistema, dovrebbe cionondimeno essere utilizzato in via solo eccezionale. Non voglio qui entrare in contraddizione con Pannella che ha affermato che il ricorso diretto al corpo elettorale deve essere usuale. Ciò perché mi sembra che occorre tenere distinta la realtà politica attuale, alla quale il discorso eminentemente politico di Pannella si riferisce, dal disegno logico al quale si è attenuto il costituente. Invero la Costituzione non si limita a costruire - nelle sue disposizioni di carattere processuale - una forma di governo caratterizzata da una serie di ``gabbie'' nelle quali è ridotta l'autonomia parlamentare, ma sollecita - nelle disposizioni a contenuto sostanziale - la trasformazione della costituzione materiale dello stato italiano, in particolare della società italiana, mediante l'eliminazione delle più stridenti disparità economiche e lo sviluppo delle libertà politiche; in sostanza la Carta pone in essere i presuppos

ti sia processuali sia sostanziali per lo sviluppo della democrazia e per il funzionamento delle strutture rappresentative attraverso le quali si esercita la sovranità popolare (art. 1, 2· comma, Cost.). Ecco, dunque, che se il disegno costituzionale fosse pienamente attuato e rispettato, se i meccanismi funzionassero tutti perfettamente, il referendum sarebbe, sì è vero, un elemento fondamentale e determinante, ma comunque di fatto marginale in quanto vi si ricorrerebbe solo in via eccezionale. L'eccezionalità dell'uso, in altre parole, non discenderebbe direttamente dalla Costituzione, bensì da obiettive condizioni di fatto, nulla escludendo, nel testo costituzionale, un ampio ricorso al referendum ove gli organismi rappresentativi non funzionassero a dovere.

4. E' possibile affermare oggi che le condizioni di fatto in cui versa lo Stato italiano siano quelle alle quali tendeva la Costituzione trent'anni orsono?

Non spetta al giurista svolgere un'analisi politica dello stato di fatto della società italiana; posso peraltro fare un'altrettanto rilevante verifica di quello che è stato attuato del programma costituzionale, anche perché non è particolarmente arduo rendersi conto che non tutto ciò che doveva essere realizzato lo è stato.

Non lo è stato perché in trent'anni di regime repubblicano non è stato pienamente posto in essere il principale presupposto del regime democratico: la correzione della costituzione materiale, dalla quale, soltanto, possono discendere tutte le successive realizzazioni previste dalla Carta. Non si sono cioè attuate quelle disposizioni della Costituzione che prevedevano modifiche della società italiana tali da rendere effettivo il principio di eguaglianza. In sostanza non sono stati adempiuti quegli impegni sul piano economico e sociale che avrebbero dovuto consentire ad ogni individuo di liberarsi dai condizionamenti socio-economici che ne impediscono lo sviluppo e lo svolgimento della personalità (art. 2 - art. 3, 2· comma, Cost.) e quindi la effettiva e corretta partecipazione politica.

E' un dato di comune conoscenza che le grandi riforme di struttura, da quella sanitaria a quella riguardante la casa, la scuola, i rapporti dello Stato con la Chiesa, lo sviluppo del mezzogiorno, sono rimaste inattuate o sono ancora oggetto di discussione.

Ma non è questa la sola parte dei presupposti del funzionamento del regime democratico che attende ancora di essere realizzata. Gravi carenze riguardano a tutt'oggi il problema delle libertà e in primo luogo delle libertà politiche. Così come Bricola e Rodotà ci hanno ricordato, le garanzie relative ai diritti di libertà hanno avuto una breve stagione di pieno sviluppo (che ha coinciso con pochi anni a cavallo del 1970) cui sta facendo seguito da qualche anno un'inversione di tendenza della quale i progetti di legge in materia, oggi pendenti al Parlamento, sono l'esempio eloquente.

Ambedue queste inadempienze hanno comportato l'attuale stato di crisi delle istituzioni rappresentative dovuto alla loro perdita di effettiva rappresentatività. E' vero che in massima parte il quadro delle istituzioni previste dalla Costituzione è formalmente completato, dal 1956 con la Corte costituzionale, dal 1970 con le regioni e gli istituti di democrazia diretta. Purtuttavia nella sostanza dei fatti esiste soltanto una larva del sistema che era stato previsto dalla Costituzione in quanto esso è del tutto svuotato di contenuti effettivi corrispondenti alle istanze che avrebbero dovuto provenire dal corpo elettorale. Manca cioè al sistema di governo che si è instaurato quell'effettività che sarebbe potuta discendere solo da una piena e consapevole partecipazione di tutti i cittadini e da una ripartizione di ruoli tra stato persona e stato organizzazione tale da fare sì che i partiti politici rappresentassero non un diaframma bensì un tramite tra governati e governanti.

5. Se il sistema risulta irrimediabilmente falsato, si tratta di vedere quale sia, di fatto, il ruolo che il referendum viene a svolgere di conseguenza.

Le implicazioni sono di diverso tipo, ma comunque di identico segno. Voglio qui collegarmi con quanto ha detto Zagrebelsky, il quale, venendoci a parlare della Corte costituzionale, non è riuscito dalla problematica che questo convegno vorrebbe sollevare. Non è forse vero che di fronte all'appalesata incapacità delle Camere rappresentative, di rispondere alle esigenze emergenti dalla società civile, la Corte costituzionale ha assunto un ruolo, quasi legislativo, che forse originariamente non sembrava spettarle? E non abbiamo forse, con la recente proposta di legge per limitare la possibilità di sollevare questioni di legittimità costituzionale (5), un altro tentativo, come nei confronti del referendum, di dare sostanza alla reazione del sistema instauratosi di fatto, mediante interventi legislativi contrari al principio costituzionale della ``ingabbiatura'' del Parlamento?

Sta di fatto che i punti più caldi sono quelli in cui vi è attrito tra la vigente forma di governo, come essa si è effettivamente realizzata, e quegli istituti che sono stati introdotti dalla Carta costituzionale per ovviare alla preponderanza del Parlamento.

Ritengo che tale fenomeno debba essere analizzato nel seguente modo. Attorno ai poli classici del governo parlamentare, e cioè attorno al Parlamento e al Governo si sono attestati i partiti politici che sono ben preparati ad assumere una posizione predominante nell'ambito di un sistema ``classico'' di democrazia rappresentativa. I ``nuovi'' organismi o istituti introdotti dalla Costituzione tendono a sfuggire, proprio a causa della loro origine e della loro novità agli schemi sulla base dei quali i partiti sono abituati ad operare. Essi quindi contengono una forza dirompente sul sistema come esso si è instaurato contro e malgrado il disegno della Costituzione. Voglio in particolare riferirmi alla Corte costituzionale, alle Regioni, al referendum.

Di fronte a questi istituti il ``sistema'' ha diverse forme di difesa per garantire la propria sopravvivenza.

La più efficace, ovviamente, è quella di impedirne la nascita fin quando è possibile. Tale gioco è stato consentito fino al 1956 per la Corte costituzionale e fino al 1970 per le Regioni a statuto ordinario. Per quanto concerne il referendum, le spinte verso l'introduzione dell'istituto erano molto più deboli. Esso, purtuttavia, è stato improvvisamente regolato dalla legge (direi in modo inatteso, perché prima del 1970 sembrava che detto istituto fosse stato definitivamente accantonato) a causa di un probabile ``errore'' di valutazione del partito di maggioranza governativa (sebbene fosse stato questo partito che si era avvantaggiato più di ogni altro del mancato completamento della forma mista di governo prevista dalla Carta). Ricordiamo tutti, infatti, che il referendum venne introdotto su iniziativa della Democrazia cristiana, all'epoca dell'approvazione della legge istitutiva del divorzio, proprio perché detto partito si riservava di chiedere l'abrogazione al corpo elettorale.

Altri istituti, quali il CNEL, attendono tuttora di essere completamente realizzati.

Un'altra forma di difesa è quella della ``conquista'' degli istituti stessi da parte del ``sistema'' e dei partiti che ne costituiscono la struttura portante.

Operazioni di questo genere sono state ravvisate da parte della stampa nelle recenti elezioni da parte del Parlamento dei giudici costituzionali di chiara estrazione politica e scarsamente tecnica. Nei confronti delle Regioni, che sono organi politici, i problemi relativi al ``coordinamento'' delle scelte politiche nazionali e locali appare più agevole. Mentre è vero che il referendum risulta essere, così come la Costituzione ne disciplina le fasi di iniziativa e di svolgimento, difficilmente ``guidabile'' o utilizzabile, come ha dimostrato il fallimento del referendum sul divorzio, proposto, seppure non formalmente, da gruppi appartenenti al partito di maggioranza relativa.

Un'ultima forma di difesa è quella di porre impedimenti al funzionamento o di ridurre le attribuzioni e lo spazio di azione dei nuovi istituti limitativi della preponderanza parlamentare.

Ho fatto prima riferimento alla proposta di legge che vorrebbe circoscrivere la possibilità di adire la Corte costituzionale. Per quanto concerne le Regioni sono note le vicende attraverso le quali, prima con i decreti del gennaio 1972, quindi, ora, con la riduttiva interpretazione della legge delega n. 382 del 1975, si è voluto attuare un tipo di Regione a statuto ordinario con minori attribuzioni di quelle che, in teoria, avrebbero potuto spettarle. Per quanto riguarda il referendum abbiamo già avuto la legge n. 352 del 1970, la quale, pur avendo il merito di introdurre finalmente gli istituti di democrazia diretta, ne ha ridotto l'uso attraverso la previsione di gravose modalità per l'indizione che si situano al limite della legittimità costituzionale. Nello stesso quadro vanno ora ad inserirsi le ultime iniziative legislative che vorrebbero restringere ulteriormente l'uso del referendum abrogativo e perfino costituzionale.

6. Anche se debbo ora concludere, più brevemente di quanto non si dovrebbe, questo discorso (sebbene attenga ad aspetti istituzionali) passo, dunque, a rispondere al quesito inizialmente posto.

Certo è che se noi guardiamo il titolo di questo convegno ci rendiamo conto che la domanda del Partito radicale è riferita ad un sistema istituzionale così come esso era stato previsto dalla Costituzione. E pertanto non possiamo non concordare che i progetti di riforma toccano quel quadro costituzionale originario.

I proponenti delle iniziative legislative stesse, al contrario, reputano che il quadro istituzionale da preservare deve essere quello che le formazioni politiche alle quali essi appartengono hanno contribuito a realizzare nel corso degli ultimi trent'anni. E' ovvio che, in tale chiave logica, il referendum abrogativo appaia loro come un istituto da spazzare praticamente via e le libertà politiche recentemente concesse in più ampia scala, appaiano invece come uno spazio di azione dei cittadini che deve essere adeguatamente ridotto. Infatti, il referendum, come istituto non condizionabile dai partiti, si presenta come l'ultimo collegamento ancora intatto che esiste tra la Costituzione come essa avrebbe dovuto essere realizzata e quella che è invece la realtà di questi ultimi anni.

Va poi tenuto presente che - non essendo costituzionalmente previsti espressamente dei limiti di carattere politico al ricorso al referendum - quest'istituto è in grado di essere utilizzato in maniera diversa da quella che sarebbe stata, ove il sistema costituzionale fosse realmente realizzato. Ma occorre considerare che la semplice proposizione di una richiesta di referendum ha automaticamente un significato diverso dal momento che viene a porre in dubbio, su di un punto specifico, la corrispondenza fra quanto fanno gli organi rappresentativi e quella che è la volontà della maggioranza del corpo elettorale, quando solleva tale dubbio nell'ambito di un sistema la cui credibilità e rappresentatività è già notoriamente scarsa.

La classe politica nella sua maggioranza si ribella alla presentazione contestuale di otto richieste di referendum. Non intendo soffermarmi sull'opportunità politica di tale iniziativa, (anche se ritengo che l'uso del referendum debba essere sottoposto, come ogni atto di rilevanza e contenuto politici ad autolimitazioni e a convenzioni costituzionali rispondenti a criteri di opportunità politica che non possono essere imposte legislativamente, ma che, comunque, debbono essere rispettate) ma credo che il rifiuto del referendum da parte della classe politica riguardi in via di principio l'istituto stesso, proprio a causa dell'incapacità di recepirlo che l'attuale forma di governo dimostra. Per convincersi di tale incapacità basterebbe tenere presente come le uniche due richieste di referendum andate a buon fine prima delle ultime otto del Partito radicale (divorzio-aborto), abbiano comportato la momentanea paralisi nei rapporti tra Parlamento e Governo. Basterebbe tenere presente la straordinaria coincidenza,

che non è solo coincidenza, tra il perfezionamento di tali due richieste e gli unici due casi di scioglimento anticipato delle Camere.

A questo punto appare ozioso l'ampio discutere che si fa in questi giorni sulla iniziativa radicale di proporre ben otto referendum in un unico momento. In realtà sia che venga presentata una sola richiesta o più insieme, la sostanza non cambia: lo stato delle cose è tale che ogni richiesta di referendum diviene automaticamente una mina che rischia di far saltare il sistema di governo come esso si è ormai realizzato. L'iniziativa radicale, con la sua ``radicalità'', ha forse il solo effetto di mettere in luce questo attuale effetto del referendum che non deriva da elementi intrinseci bensì dal contesto nel quale tale istituto è ormai inserito. Ma essa ha certamente pure il difetto di consentire alle forze politiche, che si sentono poste in pericolo, di aggredire, attraverso l'iniziativa politica radicale, l'istituto stesso del referendum.

Va però risposto a tali critiche (ed anche a quelle or ora sollevate dal professor Barile che ci ha chiesto che cosa succederebbe se gli otto referendum avessero esito positivo) che si tratterebbe della prima risposta positiva del sistema costituzionale al precetto fondamentale della sovranità popolare. E nel contempo si avrebbe la prova del nove del fatto che l'attuale assetto degli organi rappresentativi non corrisponde, quanto a rappresentatività, al quadro che la Costituzione aveva prefigurato.

Si tratta di una risposta e di una verifica che sono legittimate dal fatto stesso che 700.000 elettori le hanno ritenute opportune.

NOTE

1. Chiappetti, "Dubbi sulla legittimità di nuove limitazioni legislative del referendum abrogativo", in "Il Politico", 1976, p. 139 e ss.

2. Camera deputati, n. 1510, presentata il 2-6-1977.

3. Camera deputati, n. 1587, presentata il 30-6-1977.

4. Per più ampi cenni mi sia consentito di rinviare alla monografia sul referendum (Chiappetti, "L'ammissibilità del referendum abrogativo", Milano 1974) nel primo capitolo della quale mi soffermo più diffusamente sugli aspetti sistematici e di collocamento dell'istituto referendario.

5. Proposta di legge Branca ed altri, n. 350 del 25-11-1976 Senato Repubblica.

 
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