di Michele TaruffoSOMMARIO: Due questioni vengono essenzialmente affrontati nel corso del convegno, quella dell'istituto del referendum che progetti di legge comunisti, socialdemocratici, democristiani sottopongono a revisioni più o meno decise e il disegno di legge governativo in tema di ordine pubblico. Questi due temi vengono affrontati in relazione ai principi stabiliti dalla Carta Costituzionale.
("REFERENDUM ORDINE PUBBLICO COSTITUZIONE", Rispondono i giuristi. Atti del convegno giuridico organizzato dal gruppo parlamentare radicale - A cura di Ernesto Bettinelli e Luca Boneschi - Tascabili Bompiani, marzo 1978)
Questo intervento è dedicato all'art. 10 del progetto comunista sulla regolamentazione del "referendum", che contiene le novità più rilevanti, ma anche gli aspetti più dubbi dell'intero progetto. Non mi pare, infatti, che si tratti di un problema così circoscritto e secondario come risulta dalla relazione di Onida.
Scelgo deliberatamente un punto di vista interno alla logica del progetto, non perché esso sia discutibile sul piano politico generale, ma perché penso che in questo modo emerga più chiaramente una serie di implicazioni che potrebbero sfuggire ad una valutazione globale dall'esterno.
Le mie osservazioni si concentrano su due punti principali: il primo riguarda l'ipotesi di blocco delle operazioni di "referendum", quando la legge sia stata ``sostanzialmente modificata''; il secondo riguarda la scelta degli organi cui è affidato l'accertamento di questa condizione, e la natura del relativo procedimento.
1. La formula usata nell'art. 10 a proposito del blocco delle operazioni di "referendum" nel caso che la legge sia stata sostanzialmente modificata, sembra fondata su una duplice premessa: che l'ipotesi di modificazione sostanziale non sia che un'estensione dell'ipotesi di abrogazione prevista dall'art. 39 della legge del '70, e che l'accertamento di questa condizione implichi un'attività di mera verifica sullo ``stato dell'ordinamento''.
Entrambe le premesse mi sembrano però infondate, per diverse ragioni che cercherò di chiarire.
L'analogia tra ``modificazione sostanziale'' e abrogazione della legge non esiste se non ad un livello estremamente superficiale, sul quale rischia di venir meno anche la distinzione tra le due ipotesi. Poiché, tuttavia, è evidente l'intenzione innovativa del progetto su questo punto, bisogna ritenere che non si tratti di una mera esplicitazione dell'art. 39; in effetti, credo anch'io che la ``modificazione sostanziale'' possa essere qualcosa di diverso dall'abrogazione (anche implicita), ma allora viene meno anche l'analogia tra le due ipotesi.
Ciò che rileva di più, a mio avviso, non è il profilo concettuale o classificatorio del problema (che pure esiste e andrebbe discusso), bensì il profilo che riguarda il tipo di giudizio che occorre formulare per stabilire se la ``modificazione sostanziale'' è avvenuta. Sotto una formula di senso comune piuttosto ovvia, c'è infatti una questione di rilevanza decisiva, sulla quale si rompe l'analogia con il caso dell'abrogazione.
E' stato osservato, a proposito dell'art. 39 della legge del '70, che esso dovrebbe riferirsi soltanto al caso di abrogazione espressa, poiché nel caso di abrogazione tacita - accertabile solo in via interpretativa - non potrebbe verificarsi l'automatismo dell'effetto estintivo dell'"iter" referendario (Mortati, II, 852). Se si adotta questa tesi, che mi sembra la più convincente, viene meno ogni possibile rapporto tra la previsione dell'art. 39 e quella del progetto che stiamo esaminando; ritengo comunque che un collegamento per analogia non sussista neppure se si ritiene che l'art. 39 riguardo anche le ipotesi di abrogazione implicita.
Invero, altro è verificare - sia pure in via interpretativa - se una o più disposizioni di legge sono state soppresse o sostituite da disposizioni successive, utilizzando i canoni che regolano la successione delle leggi nel tempo, e altro è valutare l'importanza delle innovazioni in rapporto al regime anteriore. In questo caso non si tratta né di prendere atto della volontà abrogativa espressa dal legislatore, né di stabilire se e su quali norme si sia verificato un effetto abrogativo per incompatibilità o per una nuova regolamentazione legislativa, ma di effettuare un confronto tra i contenuti della legge anteriore e della legge successiva, per accertare la ``misura'' delle innovazioni introdotte da quest'ultima.
A questo riguardo sorgono però problemi assai gravi e - soprattutto - insolubili con gli strumenti tecnici, sia pure complessi, mediante i quali è possibile accertare l'abrogazione. Si tratta, come ho detto, di una sorta di ``commisurazione dei contenuti'' delle disposizioni legislative che si succedono, il che fa emergere il problema del tipo di confronto in questione, e dei criteri secondo i quali esso dovrebbe essere compiuto.
Anzitutto, poiché si parla di ``contenuti'', non può trattarsi di confronto tra ``disposizioni'', ma solo di confronto tra ``norme''. Già a questo punto, però, si aprono spazi di discrezionalità interpretativa così vasti da non essere neppure paragonabili a quelli esistono nell'accertamento dell'abrogazione implicita, e che non esistono del tutto nell'accertamento dell'abrogazione espressa.
In secondo luogo, si tratta di confrontare elementi inevitabilmente eterogenei: da un lato, infatti, vi sono norme consolidate nella stessa prassi applicativa e interpretativa; dall'altro, trattandosi di legge nuova, le sole norme individuali sono quelle fatte palesi dal significato proprio delle parole e dalla intenzione del legislatotre, secondo la nota formula dell'art. 12 Disp. Prelim. al cod. civ.
Il confronto sarebbe omogeneo se la legge anteriore venisse trattata come se non fosse mai stata applicata, ma, a parte il fatto che con ciò si trascurerebbe il suo significato reale, un procedimento di questo genere impedirebbe, ad esempio, di stabilire se la nuova legge non sia per caso una mera recezione degli orientamenti interpretativi consolidatisi sotto la legge anteriore, ossia una riproduzione solo formalmente nuova di vecchie ``norme''.
Si deve dunque pensare a un raffronto tra il contenuto reale della legge anteriore, e un contenuto ipotetico della legge successiva, ossia tra un'interpretazione concreta e un'interpretazione astratta, non formulata per decidere una specifica fattispecie ma per dare una sorta di parere sul possibile contenuto delle nuove disposizioni. E' lecito dubitare, sul piano teorico, della validità di un'operazione di questo genere, ma non è questo il punto essenziale: occorre invece sottolineare che in questo modo gli spazi di discrezionalità del giudizio finiscono con l'ampliarsi in modo tale che diventa impossibile individuarne concretamente i limiti. Poiché però ogni interpretazione, in quanto discrezionale, è politica, ne discende che il giudizio in questione è scarsamente controllato da canoni giuridici ed è invece fortemente determinato da scelte politiche, in particolare per ciò che attiene all'individuazione delle norme contenute nelle nuove disposizioni.
Bisogna dunque escludere che esso possa intendersi come una semplice verifica sullo ``stato dell'ordinamento'', o una operazione tecnico-giuridica destinata a risolvere un problema di successione di leggi nel tempo.
L'intensità delle implicazioni politiche presenti nel giudizio in esame è d'altronde esaltata in quanto si tratta di stabilire se una norma è stata ``sostanzialmente modificata'', poiché lo stesso criterio della ``sostanzialità'' è valutativo, e dunque implica a sua volta scelte di natura politica. La relazione che accompagna il progetto cerca di aggirare questo punto delicatissimo definendo sostanzialmente ogni innovazione non puramente formale, che cioè introduca contenuti diversi, ma è chiaro che si tratta di tautologie che non mutano la sostanza del problema.
Non credo, d'altronde che esistano criteri oggettivi e politicamente neutrali per definire la natura ``sostanziale'' delle modificazioni legislative; ritengo, al contrario, che nessuna modificazione possa dirsi realmente sostanziale se non si ispira a linee di politica del diritto diverse da quelle che hanno ispirato la legge precedente, in particolare nel suo significato concreto emergente della prassi interpretativa e applicativa. Ciò significa che la chiave di volta di ogni valutazione di questo tipo non sta nell'uso di regole tecnico-giuridiche, ma in valutazioni squisitamente politiche.
L'obiettività apparente del criterio della ``modificazione sostanziale'' è dunque fittizia, ma ha due implicazioni rilevantissime. La prima è che il meccanismo di blocco del "referendum" è chiaramente destinato a funzionare indipendentemente dal senso politico delle modificazioni cioè anche quando la legge sia stata innovata in direzione politicamente reazionaria. Anzi, le condizioni per escludere il "referendum" sarebbero tanto più evidenti quanto più arretrato sia il contenuto della nuova legge rispetto a quello della vecchia.
La seconda implicazione è che, poiché il criterio in questione, in sé considerato, implica valutazioni politiche ma non offre garanzie contro impieghi aberranti sotto il profilo politico e della tutela dei lavori fondamentali, diventa decisiva la questione se tali garanzie siano fornite dagli organi cui è affidata la decisione, e dal procedimento che a questa mette capo. Quanto ha detto Bricola indicando la linea corretta secondo la quale bisogna parlare oggi di garanzie e di garantismo, spiega le ragioni per cui ritengo essenziale questo aspetto del problema.
2. A proposito del ``chi'' e ``come'' dovrebbe valutare le condizioni di procedibilità del "referendum", credo che non si possa prescindere da quanto ho detto circa le implicazioni politiche di tale valutazione. Non si deve nascondere, d'altronde, che proprio per questa sua natura essa può facilmente sfumare in un valutazione sulla pura e semplice opportunità politica contingente del "referendum".
Il primo punto da discutere è che la prima istanza di giudizio sia affidata all'Ufficio centrale per il "referendum". Al riguardo osservo subito che non mi sembrano convincenti le argomentazioni di chi ha cercato di dimostrare che si tratta di un organo giurisdizionale, o addirittura di una sezione speciale della Corte di cassazione. Non basta, infatti, constatare che esso è composto da magistrati, e può anche comprendere qualche operazione interpretativa: per questa strada, invero, si potrebbe forse dimostrare che anche l'Ufficio del massimario ha natura giurisdizionale! Si tratta, invece, di un organo non giurisdizionale con funzioni miste e tipiche, alcune delle quali possono implicare operazioni interpretative: ciò non significa, però, che l'Ufficio abbia un potere interpretativo analogo, per natura ed estensione, a quello degli organi giurisdizionali.
Sotto questo profilo è già criticabile l'equiparazione, che sembra implicita nell'art. 39 della legge del '70, tra abrogazione espressa e abrogazione tacita: al riguardo penso si debba seguire uno spunto di Mortati, nel senso che la prima rientra nei poteri dell'Ufficio in quanto implica solo un'operazione di verifica sullo ``stato dell'ordinamento'', mentre ne è escluso l'accertamento della seconda, proprio perché può implicare complesse operazioni interpretative, ordinariamente riservate agli organi giurisdizionali.
"A fortiori", allora, è estraneo ai poteri dell'Ufficio il giudizio circa la natura sostanziale delle modificazioni legislative intervenute: da un lato, come ho cercato di chiarire, si tratta di una valutazione che non ha nulla in comune con l'accertamento dell'abrogazione espressa, e non ha che analogie superficiali con l'accertamento dell'abrogazione tacita; dall'altro, i poteri interpretativi dell'Ufficio sono limitati ed eccezionali, e non possono essere estesi "ad libitum" fino a ricomprendere valutazioni principalmente politiche come quella di cui ci occupiamo. La valutazione circa le ``modifiche sostanziali'' non può essere travestita da controllo formale sulla ``vigenza'' della norma contro la quale si chiede il "referendum", ed allora la scelta dell'Ufficio centrale come organo chiamato a compierla è insostenibile.
3. Quanto al procedimento, l'ultimo comma dell'art. 10 peggiora notevolmente la situazione, poiché vanifica le volenterose interpretazioni dell'art. 39 miranti a dimostrare che in quella sede l'Ufficio centrale avrebbe dovuto sentire anche i promotori del "referendum". Il comma in questione, il quale prevede che debbano essere sentiti e possano presentare memorie ``i rappresentanti dei partiti o dei gruppi politici rappresentati in Parlamento'', vale - mi sembra - per l'intero procedimento, sicché rimane esclusa (o, nel migliore dei casi, facoltativa) la presenza dei promotori. Mancando il contraddittorio di tutti gli interessati, credo non si possa neppure parlare di procedimento in senso proprio: si tratta piuttosto di un controllo - di tipo burocratico - sulle condizioni per il "referendum".
L'aspetto più grave investe comunque il regime di impugnabilità della decisione dell'Ufficio centrale, in quanto si esclude la possibilità di impugnare la decisione che blocca il "referendum". Emerge, a questo riguardo, una doppia assurdità: sul piano giuridico, in quanto si fa dipendere l'impugnabilità di un provvedimento dal suo contenuto; sul piano politico, perché si esclude l'impugnabilità della decisione dell'Ufficio centrale proprio quando questa frustra le finalità politiche che si esprimono nella richiesta di "referendum". E' allora ovvio che la decisione non possa essere impugnata dai promotori, poiché essa è definitiva nel solo caso in cui costoro avrebbero interesse a contestarla.
Credo che al riguardo non si possa neppure parlare di impugnazione - che non può essere ammessa o esclusa "secundum eventum" - e neppure di doppio grado di giudizio, poiché non è garantito il diritto ad ottenere una seconda istanza proprio quando questa sarebbe indispensabile. Si tratta, piuttosto, di una specie di corsa ad ostacoli con barriere ad altezza variabile, cioè di un meccanismo che mira soltanto a ridurre il più possibile l'eventualità che il "referendum" si svolga.
4. Quanto alla seconda istanza, non meno discutibile è la scelta del procedimento e dell'organo (ossia le Sezioni Unite della Corte di cassazione).
In ordine al procedimento, l'assenza dei promotori dei "referendum" implica un'evidente violazione della garanzia del contraddittorio ex art. 24 comma 2· della Costituzione (così come, d'altronde, l'impossibilità dell'impugnazione della decisione sfavorevole da parte degli stessi promotori viola la garanzia dell'azione di cui al primo comma dello stesso art. 24). A quanto sembra, però, le garanzie fondamentali del processo sono fuor di luogo in questo caso, ma ciò e sufficiente a frustrare ogni tentativo di ravvisare nel provvedimento in esame qualche parvenza di giurisdizionalità.
In ordine alla scelta delle Sezioni Unite della Cassazione come organo di seconda e finale istanza, mi limiterò a richiamare brevemente alcune delle molte obiezioni possibili, per sottolineare le ragioni che invece suggeriscono l'indicazione della Corte costituzionale.
Il punto essenziale sta, a mio avviso, in un evidente fraintendimento della natura e del ruolo della Corte di cassazione. Si dimentica infatti che essa non è più - e in Italia non è mai stata - quell'organo di garanzia del potere legislativo, estraneo al potere giudiziario e posto a mezzo tra i due poteri, cui pensava l'Assemblea nazionale francese nel 1790. Soprattutto, è sparita ogni traccia della concezione che fu tipica di Robespierre, della Cassazione come emanazione del legislativo e unico supremo custode della legalità contro le interferenze provenienti dal potere giudiziario.
La conseguenza è che la Cassazione è l'organo del controllo di legalità nell'ambito del potere giudiziario, in quanto vertice di questo potere, ma non è un organo autonomo dotato del monopolio assoluto dell'interpretazione: non esiste, infatti, l'equidistanza della Cassazione dal potere giudiziario e dal legislativo, e d'altronde la creazione della Corte costituzionale ha rotto definitivamente tale monopolio.
Il fatto che vengano in questione le Sezioni Unite - ossia il vertice supremo del potere giudiziario - non muta i termini del problema: esse hanno la funzione di dirimere contrasti interpretativi tra sezioni semplici e di risolvere questioni di particolare importanza (art. 374 cod. proc. civ.), ma si tratta pur sempre dell'ultima istanza di legalità nell'ambito del potere giudiziario ordinario, non di una funzione interpretativa generale e sovraordinata a quella di altri poteri e organi. Basta ricordare, ad esempio, che ex art. 111 3· comma della Costituzione il ricorso in Cassazione contro le decisioni del Consiglio di stato e della Corte dei conti è ammesso solo per motivi inerenti alla giurisdizione, e non per violazione di legge.
L'immagine della Cassazione (o delle Sezioni Unite) come organo "sui generis" in cui deve necessariamente concentrarsi in ultima istanza ogni potere di interpretazione della legge è dunque largamente inattendibili, e nasce da una visione poco realistica della sua collocazione nel quadro generale dell'ordinamento. Non v'è alcuna ragione decisiva, quindi, per riservare alla Cassazione l'interpretazione della legge come momento da cui dipende l'ammissibilità del "referendum" (del che, nel resto, si era già reso conto il legislatore del '70).
Vi sono, al contrario, ragioni che si oppongono ad una scelta di questo genere, attinenti all'impossibilità che la Cassazione fornisca le necessarie garanzie politiche, tanto più indispensabili se si guarda alla neutralità del criterio delle ``modificazioni sostanziali''.
In parte, esse derivano dalla natura stessa della Cassazione: da un lato, trattandosi di un organo giurisdizionale ``puro'', essa si sottrae naturalmente ad ogni forma di responsabilità politica diretta; dall'altro, dato il carattere burocratico della carriera giudiziaria, manca nei suoi membri qualsivoglia forma di legittimazione democratica. Mi sembra allora lecito dubitare che un organo di questo genere sia il più idoneo a svolgere funzioni di controllo eminentemente politico, quali sono previste dal progetto di norma che stiamo esaminando.
Altre ragioni nello stesso senso derivano, infine, dal fatto che troppo spesso la Corte è stata l'interprete istituzionale delle opinioni più conservatrici o apertamente reazionarie: basta considerare la sua attività come organo del controllo di costituzionalità, o ricordare i noti contrasti con la Corte costituzionale, per trovare abbondanti esempi a questo riguardo.
Mi sembra allora inevitabile la conclusione che, mentre il controllo sulle condizioni per il "referendum" o è solo formale o deve avvenire con il massimo di garanzie politiche, la Corte di cassazione non sia istituzionalmente e storicamente in grado di offrire garanzie di questo tipo. Si tratta, d'altronde, di una scelta che contraddice la stessa logica di fondo del progetto, che è nel senso di coordinare l'"iter" del "referendum" con l'attività del Parlamento; essa contrasta poi, ancora più nettamente, con l'esigenza della più ampia partecipazione democratica, che diventa più forte in quanto si sposti l'accento da un controllo essenzialmente formale ad un controllo di natura politica. La scelta della Cassazione potrebbe avere una sola giustificazione, nel fatto che essa sarebbe probabilmente il più efficace strumento di tutela del sistema politico "contro" l'eventualità del "referendum".
Dall'angolo visuale dell'art. 10 si possono dunque trarre queste conclusioni sul progetto in esame: 1) esso disconosce le profonde implicazioni politiche presenti nell'accertamento delle condizioni indicate per il blocco del "referendum"; 2) di conseguenza, prevede criteri, procedimenti e organi di controllo che non offrono le garanzie giuridiche e politiche indispensabili in un meccanismo discrezionale di controllo sul "referendum"; 3) infine, propone uno strumento idoneo a funzionare non come filtro ma come ostacolo indiscriminato al "referendum", affidandone l'impiego all'organo che meglio può manovrarlo in questa precisa direzione.