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Panebianco Angelo, Teodori Massimo - 1 marzo 1978
REFERENDUM ORDINE PUBBLICO COSTITUZIONE: (18) Referendum e conflitto politico
di Angelo Panebianco e Massimo Teodori

SOMMARIO: Due questioni vengono essenzialmente affrontati nel corso del convegno, quella dell'istituto del referendum che progetti di legge comunisti, socialdemocratici, democristiani sottopongono a revisioni più o meno decise e il disegno di legge governativo in tema di ordine pubblico. Questi due temi vengono affrontati in relazione ai principi stabiliti dalla Carta Costituzionale.

("REFERENDUM ORDINE PUBBLICO COSTITUZIONE", Rispondono i giuristi. Atti del convegno giuridico organizzato dal gruppo parlamentare radicale - A cura di Ernesto Bettinelli e Luca Boneschi - Tascabili Bompiani, marzo 1978)

L'istituto del referendum può essere difeso per molte e valide ragioni. In questa sede già lo si è fatto da molti punti di vista. Qui a noi preme farlo da una prospettiva forse leggermente diversa.

Intendiamo sostenere che non soltanto in astratto o in linea di principio il referendum è uno strumento importante per il corretto funzionamento di una democrazia ma che esso può diventare, forse già è diventato, in una società industriale avanzata e complessa, quale per molti versi anche se contraddittori è quella italiana d'oggi, e percorsa da ininterrotte e incomprimibili correnti conflittuali, uno strumento insostituibile di "gestione pacifica del mutamento sociale".

Per concordare con questa affermazione occorre riconoscere preliminarmente la verosimiglianza di due ipotesi - già emerse anche se non in forma del tutto esplicita in questo convegno - sul funzionamento della società tardoindustriale.

1. Innanzitutto l'ipotesi secondo cui la società di questo tipo è continuamente attraversata da una conflittualità che tende ad esplodere in ogni punto del sistema sociale e alla quale danno vita per lo più movimenti spontanei di azione collettiva che si formano, decadono, si ricostituiscono su nuove basi incessantemente. I nuovi conflitti non sono, non possono essere assimilati o ricondotti a schemi interpretativi forse adatti a spiegare il conflitto nell'epoca ormai conclusa del capitalismo liberale. Su questo punto studiosi della formazione sociale tardocapitalista anche di orientamento molto diverso (come Touraine, Habermas, Offe, in Italia Alberoni) sembrano concordare.

Le stesse etichette di ``destra'' e ``sinistra'' del linguaggio ideologico corrente appaiono per buona parte di questi conflitti manifestamente incapaci di dare luogo a spiegazioni credibili. Si pensi, ad esempio, ai movimenti ecologici e antinucleari non solo in Italia ma in tutta Europa e alle grandi diversità di motivazioni soggettive dei partecipanti - dal rifiuto conservatore della cultura industriale di alcuni alle speranze rivoluzionarie di tipo comunista o anarchico-libertarie di altri delusi o reduci da esperienze di sinistra extra parlamentare. Per tutte queste ragioni sembra opportuno, per comprendere quelli che sono stati definiti gli ``interessi diffusi'' che stanno alla base e che si esprimono nella nuova conflittualità, muoversi dalla idea dell'uomo a partire dalla sua condizione di produttore quale ci è stata tramandata dalla cultura marxista, per una visione più elastica e forse più realistica che può meglio spiegare le nuove dinamiche politiche.

L'esistenza di una molteplicità di ruoli sociali, spesso in contrasto irriducibile fra loro e svolti dagli stessi individui, è un dato che sociologi e psicologi hanno da tempo messo in rilievo. Gli interessi diffusi, nella società tardoindustriale, sembrano innestarsi proprio su questa molteplicità di ruoli. Gli interessi dei consumatori, degli utenti, degli inquilini, sono alcuni esempi - indipendentemente dalle singole posizioni nel sistema complessivo della stratificazione sociale e dalla posizione di classe - che possono dare luogo ad aggregazioni con conseguenze politiche rilevanti. Aggregazioni che non dipendono evidentemente da una omogeneità generale di collocazione nella società ma soltanto dal comune esperimento di alcuni ruoli sociali, al limite anche di un solo ruolo.

2. La seconda ipotesi è che il sistema dei partiti politici, pur essendo sicuramente i partiti stessi, sia oggi che probabilmente domani, uno strumento indispensabile della democrazia, è strutturalmente inadeguato a una ricezione, in tempi idonei, delle domande poste dai movimenti collettivi e dalla aggregazione spontanea degli interessi diffusi. I partiti, in quanto organizzazioni burocratiche possono differenziarsi, e effettivamente si differenziano, per la maggiore o minore ricettività alla domanda esterna. Tuttavia esistono e sono connaturati alla organizzazione-partito tempi e modalità di adattamento al mutamento sociale che li rendono solo parzialmente idonei a rappresentare nel modo migliore l'intero spettro delle domande che sorgono dalla società civile. Il fatto è che i partiti, quale che sia poi la dinamica specifica del sistema politico in cui operano, agiscono per mezzo di un sistema di selezione e di filtri, quel processo che la scienza politica definisce di ``aggregazione degli interessi'' e ch

e a sua volta la contrattazione "interna" al partito sulla cui base esso si dà e cerca di applicare dei programmi è generalmente finalizzata alla più generale contrattazione nel mercato politico. Questi processi fisiologici (comuni a tutti i partiti) e che quindi di per sé rappresentano delle strozzature del processo democratico manifestano spesso una tendenza, forse ineliminabile, a diventare patologici cioè ad accentuare la non ricettività verso la domanda esterna. La burocratizzazione, la scarsa partecipazione di base alla vita dei partiti, la tendenza alla formazione di oligarchie di vertice cristallizzate e inamovibili, le stesse esigenze elettorali che li portano, ovviamente in modi molto diversi, a privilegiare l'insediamento interclassista, sono probabilmente alcuni degli elementi che determinano questo deficit permanente di ricettività. Un deficit che si risolve nella inadeguatezza a esprimere compiutamente nei processi decisionali che si svolgono all'interno delle istituzioni la domanda sociale o,

per lo meno, la domanda collegata ai nuovi tipi di conflittualità.

Se si ritengono ragionevoli e attendibili le ipotesi sopra esposte bisogna allora convenire su due punti:

- che è pericoloso e illusorio ritenere che i partiti possano contenere e rappresentare tutta la domanda sociale;

- che il referendum va considerato non soltanto - ma anche questo naturalmente - strumento di tutela delle minoranze politiche ma parte integrante e necessaria di un più generale processo decisionale che non può essere delegato interamente ai partiti a rischio di disfunzioni gravissime del sistema democratico. Questo discorso vale in generale ma è anche pertinente al caso italiano dove pure il referendum si presenta solo come un canale di aggregazione ``in negativo''. Lo strumento del referendum diventa, certo non da solo, ma forse soprattutto, come il più adatto a dare soddisfazione agli interessi diffusi (anche perché i risultati del referendum di per sé, e immediatamente, diranno quanto intensi e diffusi sono poi quegli interessi). In un sistema politico come quello italiano, inoltre, ove i cittadini, come da più parti si è detto e ridetto, non si esprimono sui programmi politici nelle consultazioni elettorali, ma in realtà, a causa del funzionamento stesso del sistema, danno un mandato in bianco ai dirig

enti dei partiti, diventa tanto più importante il ricorso al referendum per dare spazio politico all'interno del gioco democratico alle domande che altrimenti, non trovando sbocco, possono finire per esprimersi in forme anche violente.

Il referendum per le sue stesse caratteristiche presenta il vantaggio, sotto il profilo dell'iter decisionale di dare immediatamente (sì-no) risposta alla domanda politica. Ecco quindi perché esso può essere come abbiamo sostenuto, uno strumento decisivo di gestione del mutamento sociale. O, se si vuole, con una espressione in uso alcuni anni fa, un modo per colmare il distacco fra paese legale e paese reale, un distacco, che, secondo la nostra ipotesi, i partiti non possono mai per ragioni strutturali completamente colmare.

Ma esiste anche un'altra ragione per ritenere importante da difendere l'istituto del referendum nella nostra democrazia. Questo argomento vale almeno per chi ritiene ancora uno sbocco politico auspicabile l'alternativa di sinistra o, non importa ai nostri fini distinguere, l'alternativa fra un blocco progressista e un blocco conservatore. Tutti coloro che hanno fin qui prefigurato l'ipotesi politica dell'alternativa si sono mossi all'interno di quadro concettuale di questo genere: hanno immaginato che il conflitto, nel caso di un mutamento nei ruoli di governo, dovesse svilupparsi soltanto fra il nuovo blocco di sinistra al potere e le forze conservatrici alla opposizione e che per il resto compito della sinistra fosse quello, per scongiurare soluzioni di tipo cileno, di evitare fughe in avanti, quindi di comprimere e bloccare le inevitabili domande dei gruppi estremistici.

Questo quadro però appare tutt'altro che realistico, proprio perché dimentica le nuove forme di conflittualità che attraversano la società tardoindustriale e che non sono del tutto comprimibili in un orizzonte e in uno spazio unidimensionale del tipo sinistra-destra. L'esempio ancora una volta calcante è quello delle ``liste verdi'' presenti e con un certo successo alle ultime elezioni amministrative francesi.

In una ipotesi di alternativa di sinistra è più realistico ritenere che accanto a una inevitabile competizione di tipo tradizionale (fra la sinistra al potere e la destra all'opposizione) sia presente anche una conflittualità ineliminabile fra il governo e i gruppi e i movimenti che continueranno ad aggregarsi sulla base di una logica propria degli interessi diffusi e che sarebbe vano e soprattutto pericoloso esorcizzare e etichettare come gruppi e movimenti ``di destra'' (magari solo ``oggettivamente''). Invece questa conflittualità può essere ritenuta positiva e vivificatrice per la stessa ipotesi di alternativa di sinistra e in grado di stimolare le capacità decisionali dei partiti al potere. Anche perché è difficilmente eliminabile la divaricazione fra forze di governo che devono essere ``realistiche'' e ``responsabili'' (gestionali), cioè tenere conto nella loro azione quotidiana dei problemi, delle compatibilità, delle priorità ecc. e i movimenti di azione collettiva che costituivamente non possono far

si carico di questi problemi (cioè sono di per sé conflittuali). Se adottiamo questa prospettiva, evidentemente, dobbiamo ritenere che il referendum sia non solo uno strumento di garanzia da offrire - e quest'aspetto non va sottovalutato ovviamente - al blocco conservatore in minoranza ma anche agli stessi movimenti le cui potenzialità vivificatrici andranno recuperate anche, e forse soprattutto, all'interno di un esperimento di maggiori gradi di socialismo nella democrazia.

 
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