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Senese Salvatore - 1 marzo 1978
REFERENDUM ORDINE PUBBLICO COSTITUZIONE: (27) Legislazione eccezionale e lotta alla criminalità
di Salvatore Senese

SOMMARIO: Due questioni vengono essenzialmente affrontati nel corso del convegno, quella dell'istituto del referendum che progetti di legge comunisti, socialdemocratici, democristiani sottopongono a revisioni più o meno decise e il disegno di legge governativo in tema di ordine pubblico. Questi due temi vengono affrontati in relazione ai principi stabiliti dalla Carta Costituzionale.

("REFERENDUM ORDINE PUBBLICO COSTITUZIONE", Rispondono i giuristi. Atti del convegno giuridico organizzato dal gruppo parlamentare radicale - A cura di Ernesto Bettinelli e Luca Boneschi - Tascabili Bompiani, marzo 1978)

Mi occuperò anch'io soltanto dell'ordine pubblico e me ne occuperò da un punto di vista generale se pure con riferimento alla particolare prospettiva che su questo problema deve portare una associazione di magistrati.

1. "La razionalità e necessità di ogni intervento coercitivo sulle libertà come esigenza imposta dalla Costituzione e la verifica empirica di tale requisito nelle misure proposte sull'ordine pubblico".

Le critiche e le riserve sul piano costituzionale che l'armamentario legislativo in via di preparazione solleva, sono state già sufficientemente indicate.

Io vorrei riprendere soltanto uno spunto offertomi dall'intervento di Pecorella nella parte in cui poneva l'accento sulla sostanziale mancanza di efficacia di queste misure. Ritengo che, al di là delle garanzie specifiche che la Costituzione stabilisce in materia di limitazioni alla libertà personale, si possa ricavare una sorta di orientamento generale della Carta costituzionale, secondo cui gli interventi coercitivi in materia di libertà devono essere ispirati a un criterio di "razionalità" e "necessità": le limitazioni di questo diritto inviolabile, cioè, sono giustificate tanto quanto siano efficaci e indispensabili per il raggiungimento di finalità di prevenzione, di tutela e di ricostruzione della civile convivenza.

Si tratta di un orientamento che raccoglie le migliori elaborazioni in materia del razionalismo e dell'illuminismo, proiezione sul terreno giudiziario (e più in generale del rapporto autorità-libertà) di fondamentali canoni della rivoluzione scientifica da cui storicamente sono nate le democrazie borghesi. Ed è un orientamento che circola in tutte le norme costituzionali poste a tutela della libertà, delle quali rappresenta come una premessa implicita.

Così, l'articolo 27/3 impone che le pene non costituiscano un'afflizione in sé e per sé ma siano finalizzate alla rieducazione del condannato; mentre gli interventi coercitivi anteriori alla condanna sono ammessi unicamente ``in vista della soddisfazione di esigenze di carattere cautelare o strettamente inerenti al processo'' (Corte costituzionale n. 64/1970), nei soli casi e modi previsti dalla legge, e sono affidati all'autorità giudiziaria che ha l'obbligo di rendere adeguatamente conto della ricorrenza in concreto di quelle esigenze e della relazione di necessità corrente tra la difesa di esse ed il sacrificio della libertà (art. 13/1); ed anche quando, in casi del tutto eccezionali che il legislatore ha l'onere di individuare previamente, l'intervento coercitivo è affidato alle autorità di pubblica sicurezza, esso è legittimo solo in quanto si riveli l'"extrema ratio" per evitare la lesione o messa in pericolo dalle esigenze sopraricordate, alla stregua di un giudizio che deve esser sempre controllato d

all'autorità giudiziaria entro brevissimo termine con atto congruamente motivato (art. 13/2).

In virtù di questo criterio generale, che potremmo definire del ``minimo costo'', ricavabile dalle disposizioni sopraccennate, l'efficacia delle singole misure coercitive, sul piano della difesa dalla criminalità, acquista rilevanza costituzionale nel senso che è certamente contraria ai principi della legge fondamentale ogni misura la quale, in nome delle esigenze di difesa sociale, incida sulla sfera di libertà della persona senza offrire alcuna ragionevole garanzia di efficacia rispetto al fine dichiarato.

E allora, rispetto al problema dell'ordine pubblico così come presentato stamani da Neppi (``il problema esiste e con esso bisogna pur fare i conti''), ritengo che - al di là di tutte le osservazioni secondo cui questi conti vanno fatti nell'ambito delle garanzie costituzionali e non fuori o ai margini di esse - non si possa comunque eludere una domanda di questo tipo: l'insieme di misure, che con un crescendo allarmante sono state o stanno per essere introdotte, si rivela efficace?

Si tratta di un interrogativo che è reso tanto più pressante e pertinente dal fatto che la logica delle misure proposte è quella stessa che ormai domina gli interventi contro la criminalità da tre anni a questa parte: aumenti dei poteri di coercizione poliziesca, riduzione dell'area di libertà dei cittadini, inasprimento delle sanzioni, parziale svuotamento o attenuazione delle funzioni di controllo della magistratura sull'operato della polizia. I capitoli attraverso cui è sino ad oggi snodato un tale tipo d'interventi sono arcinoti: legge sull'aumento dei termini di carcerazione preventiva, legge Bartolomei, legge Reale; per non citarne che i più noti. Oggi s'insiste su questa strada, si chiede di aggiungere nuovi capitoli a questo libro della legislazione illiberale. Il dubbio sull'efficacia di tali misure appare del tutto legittimo.

Così come appare legittimo richiedere la verifica empirica circa il risultato delle misure già introdotte, come presupposto essenziale di una corretta politica criminale.

Quando ai primi di giugno di quest'anno "Magistratura democratica" prese posizione sull'insieme di proposte che allora venivano avanzate in modo spesso confuso, impreciso, allarmante, pose tra l'altro proprio questa esigenza: chiunque - si disse - si presenti oggi dinanzi all'opinione pubblica con proposte che continuano a muoversi nella logica degli interventi eccezionali, aggravandola, dovrebbe avere almeno l'onere di rendere conto dei risultati ottenuti impiegando questo strumento da tre anni a questa parte; e, ove di dovesse pervenire al risultato che questo insieme di interventi eccezionali si è tradotto in un fallimento rispetto al fine della tutela della sicurezza, dovrebbe indiare le ragioni di questo fallimento non si verificherà più, mostrare in modo persuasivo che cosa garantisca che l'inserimento di ulteriori misure non sia destinato a lasciar le cose come stanno o ad aggravarle.

Ebbene, questa esigenza di verifica empirica, cioè di dibattito razionale dei termini della questione - questa esigenza di porre il discorso della sicurezza su di un terreno che tende affatto a nascondere la gravità del problema, ma tende piuttosto ad affrontarlo con rigore e serietà così come si affrontano tutti i problemi gravi - non è stata per nulla soddisfatta. E oggi, senza alcuna precisa verifica empirica dei risultati ottenuti, ci troviamo di fronte a un documento che prevede un aggravamento del precedente armamentario nel quale, ad esempio, un posto di spicco spetta alla utilizzazione del concetto di atti preparatori. Non intendo ripetere tutto ciò che si è già detto al riguardo, ma vorrei soltanto dire che l'utilizzazione di questo concetto si è avuta già nell'art. 18 della legge Reale che prevede l'applicabilità di misure di sicurezza a carico di chi compia atti preparatori di tutta una serie di delitti. Ebbene, cosa ne è stato? Pecorella chiedeva: si è mai verificato il caso della polizia che si

sia trovata di fronte a un atto preparatorio e non abbia potuto intervenire? Io direi di più. Il Ministro dell'interno e il Ministro della giustizia avevano l'onere di dire al Parlamento e al Paese come è stata gestita questa norma e quali risultati abbia dato. Solo dopo un tale rendiconto - secondo un'impostazione seria e razionale quale si conviene ad una società moderna che postula la verifica nel concreto dei problemi - si sarebbe potuto proporre di andare avanti e di ampliare ancora la portata dell'art. 18.

Quello stesso art. 18 prevedeva misure di sicurezza contro gli autori di atti preparatori diretti alla ricostituzione del partito fascista. Qui il vuoto non ha bisogno nemmeno di verifiche. L'assenza di qualsivoglia risultato in materia è conclamato ed è tanto più impressionate in quanto riguarda una situazione in cui questa nozione di atti preparatori, se avesse anche una sola possibilità di applicazione, avrebbe dovuto trovare piena utilizzazione. Legittima, allora, la conclusione circa l'assoluta inutilizzabilità dello strumento ed il timore che interventi di tal fatta non risolveranno affatto il problema dell'ordine pubblico, ma anzi lo aggraveranno.

2. "Il deterioramento e la chiusura istituzionale come ostacolo per ogni effettiva lotta ideale alle radici del terrorismo e della violenza politica".

Il riferimento agli atti preparatori della ricostituzione del partito fascista ci consente, a mio avviso, di portare il discorso su di un terreno diverso, che va tenuto anch'esso presente nel trattare questa problematica.

Indubbiamente, sul piano della lotta al neo-fascismo vi sono state inerzie e talora forse connivenze da parte degli apparati di polizia nella repressione delle attività squadriste e più in generale della criminalità fascista.

Questa atonia istituzionale di fronte al neo-fascismo e il deterioramento progressivo e visibile dalla istituzionalità repubblicana che ne è seguita non possono non esser presi in considerazione nell'affrontare il problema della criminalità, della violenza fascista e della sicurezza personale. Perché il problema che oggi urge è anche quello di gruppi che perseguono ipotesi disperate di contestazione o di rivolta, che reclutano in un'area di ribellione cieca e furente, di rifiuto delle istituzioni e delle regole del gioco democratico.

Dobbiamo chiederci quale alimento ha dato, quale alimento può continuare a dare, a questo magma da cui nascono gli atti di disperazione, una istituzionalità sorda e chiusa dinanzi a qualsiasi esigenza di bonifica del tessuto istituzionale del Paese dal fascismo.

Non si tratta, è appena il caso di dirlo, di fare del giustificazionismo. La nostra condanna nei confronti della violenza, organizzata o meno, è netta e decisa, così come netta è la ripulsa di ogni teorizzazione indulgente verso tali fenomeni. Ma la condanna da sola non basta, rischia di rimanere un fatto puramente declamatorio o, peggio, d'assecondare una sorta di rimozione del problema. Non basta condannare, occorre intervenire e, per intervenire, occorre capire i meccanismi e le cause che generano il fenomeno. Del resto, le forze democratiche più serie e consapevoli avvertono il problema quando pongono l'accento sulla necessità di una mobilitazione di massa, di una battaglia ideale nel Paese, tra i giovani, per risanare i guasti ideali e morali che sono tra gli elementi direttamente generatori di disperazione e che, attraversando anche le classi non sfavorite, si pongono tra le fonti di ribellione individuali e di rivolta violenta. Questa battaglia ideale non può fare a meno di porsi il problema del ruolo

che, all'interno di tante storie individuali di rivolta violenta e del clima nel quale esse si alimentano, gioca l'impatto con un'istituzionalità sorda ad ogni reale ispirazione antifascista e repubblicana, talora corriva verso i nemici della Repubblica, assai spesso frustrante e derisoria per chiunque tenti un corretto rapporto cittadino-Stato.

Pensiamo un momento alle parole d'ordine, di per sé magari legittime, sulle quali ha potuto talora innestarsi anche una rivolta violenta. L'antifascismo militante, ad esempio. Da che cosa nasceva questa parola d'ordine? Non nasceva forse dalla contrastata presenza, nell'ambito degli organi costituzionali dello Stato, di partiti che chiaramente si richiamavano all'ideologia fascista e che con la loro presenza inquinavano il gioco istituzionale e continuamente rendevano illusorio, quasi una beffa, il richiamo alle istituzioni repubblicane? Questa spirale, per cui si è determinato in larghe fasce, soprattutto giovanili, dapprima una caduta di fiducia, poi un rifiuto, infine una contrapposizione violenta alle istituzioni repubblicane, nasce proprio da questi inquinamenti istituzionali rispetto ai quali non si è fatto nulla di concreto. Alle sollecitazioni che chiedevano interventi precisi le istituzioni hanno spesso risposto chiudendosi, opponendo un atteggiamento di ostilità. Quante sono le denunce a carico di

neo-fascisti lasciate per anni a dormire, quanti procedimenti per atti di teppismo si sono chiusi con frettolose sentenze contro ignoti, quante volte la polizia ha omesso d'intervenire malgrado precise denunce, urgenti richieste?

Ma la sordità delle istituzioni, la loro assoluta indifferenza rispetto ad una serie di esigenze pressanti che nascono da una posizione ideale giusta, anche se poi finiscono con l'approdare ad atteggiamenti inaccettabili e squilibranti, è un dato che va al di là della caratterizzazione delle nostre istituzioni rispetto al fenomeno del neo-fascismo. Quante sono, per non fare che un solo esempio, le rivolte nelle carceri nate dalla legittima rivendicazione di applicazione della riforma penitenziaria, di acceleramento dei processi, di condizioni più umane di detenzione?

Il discorso a questo punto investe la sostanza degli apparati del nostro Stato, il modo in cui essi si sono costruiti o non si sono modificati, l'orientamento complessivo che li pervade. E' notazione largamente condivisa quella secondo cui il movimento popolare ha fatto registrare in Italia un grande balzo avanti per la democrazia ma non è riuscito ancora a cambiare lo Stato al suo interno. La logica dominante negli apparati permane nel complesso ostile alle idealità repubblicane; certo, anche nei corpi più chiusi, si determinano nuovi fermenti, si generano spinte di segno opposto, ma esse non trovano mai una piena legittimazione, vivono in una situazione di precaria tolleranza da parte dell'istituzione e, anche quando coinvolgono la maggioranza del corpo (si pensi al movimento per la sindacalizzazione della polizia), rischiano continuamente di essere illegalizzate e non riescono se non in misura insufficiente a segnare l'atteggiamento del corpo verso l'esterno. E, d'altro canto, questo atteggiamento si sc

ontra spesso con un grado elevato di coscienza dei cittadini, con un'impazienza anche a sopportare ancora una istituzionalità così profondamente sfasata rispetto alla coscienza del Paese, e da questo scontro nascono nuove tensioni che spesso, almeno nell'immediato, aggravano la chiusura istituzionale. Tutto ciò, certo, pone come indifferibile la riforma dello Stato come premessa reale di una proficua battaglia ideale. Ma è appunto il fatto che sui temi urgenti di questa riforma sembra prevalente la spinta per misure inutili ed illiberali, ciò che preoccupa e va denunciato.

3. "In particolare, la chiusura dell'istituzione giudiziaria verso l'area della protesta non violenta. Nesso tra le reazioni al congresso di Rimini di Magistratura democratica e l'atteggiamento sull'ordine pubblico".

Per quanto specificamente riguarda l'istituzione giudiziaria la preoccupazione dianzi espressa è fortemente giustificata. Non si parla più della pur indifferibile riforma dell'ordinamento giudiziario mentre è innegabile l'atteggiamento di chiusura e ostilità di gran parte del nostro apparato di giustizia nei confronti di una serie di istanze che nascono dalla società civile e che spesso non presentano nulla di eversivo anche se si caratterizzano per un loro carattere squilibrante rispetto alla tenuta complessiva del quadro politico. E' bastato che il Congresso di "Magistratura democratica" a Rimini affermasse con forza l'impegno a praticare una legalità ispirata alla Costituzione ed a recuperare tutti i valori nuovi della Carta al fine di accordare spazio ad ogni civile protesta, per sollevare un putiferio in questo nostro Paese. Poco mancava ci accusassero di connivenza con i Pitrentottisti! E a sollevare un tale ``scandalo'', è bastata un'impostazione in cui un gruppo di giudici dice di voler far leva su t

utte le potenzialità democratiche della nostra legalità, affermando che sono forti, inesplorate, in gran parte inutilizzate, che consentono di offrire un'immagine della nostra istituzionalità diversa da quella che oggi allontana masse di giovani, di emarginati, di senza lavoro, di non garantiti, e anche masse di lavoratori. E' bastato insomma un richiamo alla legalità costituzionale per essere tacciati di sovversivismo. Abbiamo addirittura assistito al grottesco di un Consiglio dei ministri che si riunisce per deliberare di aprire un'inchiesta e incarica il Ministro della giustizia di indagare: sembrava che già il porre il problema nei termini sopra accennati costituisse già di per sé un pericolo per gli equilibri costituzionali dello Stato. E' difficile pensare che atteggiamenti così esagitatamente intolleranti giovino alla battaglia ideale contro la violenza, che è prima di tutto la battaglia per la tolleranza, la ragione, il rifiuto del fanatismo. Questa è l'unica replica che si può offrire alle iniziativ

e del Governo ed a consimili attacchi.

La posizione di Rimini, però, è stata criticata anche nel merito da istanze indubbiamente democratiche, con preoccupazioni e stile ben diversi da quelli dell'oltranzismo governativo e - tengo a ribadirlo, se ve ne fosse bisogno - in modo del tutto legittimo. Con queste critiche ritengo occorra confrontarsi nel merito, giacché esse toccano proprio il problema che qui ci interessa e cioè quale sia l'atteggiamento più corretto dell'istituzione giudiziaria ai fini della difesa della legalità repubblicana. Il punto centrale della critica rivolta alla nostra posizione muoveva dal rilievo di una osmosi continua, di una congruità, tra gruppi della protesta violenta e gruppi della protesta non violenta e civile. Si diceva: badate che aprendo alle spinte, ai fermenti che la società civile esprime, voi aprite nei confronti di un'area nella quale pesca il terrorismo, l'eversione, la protesta violenta; aprite nei confronti di una fascia che presenta la caratteristica di sapere cosa riserva quando vi si entra, ma di non s

apere più cosa riserva quando si va oltre. Promettendo spazi di legalità per i gruppi della protesta non violenta, finite per incoraggiare le organizzazioni eversive e comunque tutta quell'area torbida che si colloca in questo mondo.

Io credo che l'errore di questa posizione stia proprio in questo volere ad ogni costo costituire le istituzioni come una cintura sanitaria che cacci fuori una vastissima fetta della nostra società, nella quale si collocano fenomeni diversissimi rendendoli indifferenziati ed accumunandoli nel rifiuto e nel rigetto. Ma come?! Proprio nel momento in cui si manifestano con crescente acutezza fenomeni di rifiuto delle regole del gioco democratico, mi sembra che chiunque creda nella logica delle istituzioni deve impegnarsi perché queste si rivelino capaci di accogliere e ricondurre nel quadro dello scontro politico e democratico ogni tensione che nasca come protesta civile e non violenta. Dare per irrimediabilmente perdute al gioco democratico queste tensioni, considerarle non scorporabili dall'eversione, costituisce un grosso peccato di pessimismo, una confessione di sfiducia nella democrazia, un inizio di resa. Quanti hanno realmente a cuore le sorti della Repubblica devono impegnarsi a favorire la distinzione t

ra eversione e protesta e ad isolare la prima dalla seconda. Questa operazione di distinzione, questo scorporo, è possibile solo a condizione di non mettere insieme la violenza delle Brigate rosse e il corteo dei manifestanti, le P 38 e il movimento degli studenti, i cosiddetti espropri proletari e le lotte dei Comitati di quartiere. Questo è il punto su cui le critiche che venivano mosse, a nostro avviso, sbagliavano finendo per contribuire - magari inconsapevolmente - a quell'atteggiamento di chiusura istituzionale che è una delle cause istituzionali del crescere dell'insicurezza, dell'eversione.

Oggi le posizioni che io esprimo qui possono forse apparire addirittura ovvie. Siamo all'indomani dei tre giorni del Convegno bolognese nei quali tutta la grande stampa di informazione, tutte le forze politiche presenti nel Comitato antifascista di Bologna, hanno visto una grande prova di maturità democratica il cui merito, certo, va insieme alla città, ai gruppi politici, ai giovani e alle forze dell'ordine. Questo fatto inedito nella vita del Paese, probabilmente irripetibile oggi in Europa, ha mostrato che è possibile isolare la violenza ed incanalare sul terreno del civile confronto la protesta giovanile e la protesta di ceti emarginati, protesta che nasce da una gravissima situazione di disgregazione sociale: basta avere il coraggio della democrazia e la volontà della sua faticosa pratica.

Ma l'avere affermato, appena sei mesi fa, questa esigenza a Rimini - che poi era soltanto l'esigenza di porre la magistratura all'altezza della maturità democratica raggiunta dal Paese - ha suscitato lacerazioni e timori. Vorrei sbagliarmi, ma ho l'impressione che vi sia un nesso tra i timori con i quali venne accolta la nostra posizione di Rimini e certi atteggiamenti di sfiducia, di timidezza difensiva, anche, nei confronti dell'offensiva artificiosa che gli altri conducevano sul terreno dell'ordine pubblico; offensiva artificiosa non già perché il problema non esista, ma perché erano artificiosi (in quanto perdenti in partenza) tutti gli strumenti che gli altri proponevano. Mi pare un atteggiamento di timidezza difensiva quello di chi affronta il problema dicendo: bisogna pur proporre qualcosa! Ma chi dice che occorra proporre qualcosa sullo stesso terreno indicato dagli altri? E se fosse il terreno sbagliato? Perché accreditare la scelta del quadro d'intervento compiuta dagli altri? Perché non esigere un

a verifica empirica, innanzitutto, sul quadro d'interventi proposto? Se la criminalità e il terrorismo non si potessero combattere con gli strumenti repressivi, se non si potessero combattere con fermi di polizia, se, per ipotesi, fosse vero tutto ciò, bisognerebbe pur cercare di portare il confronto su tale questione di fondo, costringere gli altri a porsi questo interrogativo e insieme cercare di sciogliere il nodo rifiutando di chiudersi all'interno di un'ottica angusta di legislazione eccezionale che - al pari della chiusura istituzionale verso le varie forme di protesta non violenta - offre soltanto l'illusione di una risposta alle spinte destabilizzanti e racchiude in realtà il pericolo di un'eversione delle basi del patto sociale.

4. "L'illusione repressiva tra le masse e le nuove misure sull'ordine pubblico".

Il nesso che ho già rilevato tra la posizione sull'ordine pubblico e quella sull'atteggiamento istituzionale verso i movimenti di protesta non violenti, mi par di vederlo confermato anche con riferimento a un rilievo specifico che le misure proposte sollevano. E' stato detto che nella diversità delle rispettive articolazioni tecniche tutte queste misure comportano un'estensione dell'intervento coercitivo sulla libertà personale non fondato su quelle basi di assoluta certezza e garanzia dagli arbitrii che la tutela costituzionale della libertà esigerebbe. Se noi dovessimo sintetizzare il significato complessivo di questo tipo di intervento, diremmo che vi è un impiego dello strumento penale che potrebbe definirsi ``a largo spettro d'azione''. Un impiego in cui la supposta efficacia dell'intervento risiede tutta nella sua capacità di incidere su un'area molto vasta di comportamenti nella quale, secondo un giudizio di probabilità statistica, si collocano i comportamenti criminosi. La loro neutralizzazione, quin

di, viene assicurata dall'ampiezza del raggio d'intervento a costo di un ampio margine di possibilità di errori e di arbitrii: questo è il significato politico di un tale tipo di interventi; un significato politico che, appunto, si pone nell'ambito di quella stessa logica che, per esorcizzare i gruppi violenti, tende ad esorcizzare tutta l'area sociale che con essi è in contiguità.

E' un errore politico, ma è anche un errore di politica criminale. Non c'è bisogno di dire quanto questo indirizzo contrasti con i più moderni orientamenti di politica criminale che insistono sul carattere di "extrema ratio" - da un punto di vista di efficienza, direi di tecnica di risposta criminale, oltre che da un punto di vista garantista - dell'intervento penale.

Presentare queste misure come giuste, efficaci, rispettose dei principi costituzionali non contribuisce certo alla costruzione di una linea meditata e razionale di politica criminale. E' vero, certo, che rischiamo di trovare anche militanti della sinistra tra coloro che esigono il fermo di polizia e magari la pena di morte; ma dobbiamo renderci conto che esiste un distacco tra una visione scientifica della criminalità e la percezione del fenomeno che hanno i più diversi strati sociali. Il compito delle forze di sinistra, dei partiti democratici, è però proprio quello di tentare di colmare questo distacco. Ma ogni intervento che legittimi misure di questo genere arreca guasti non indifferenti nell'opinione pubblica.

Debbo ricordare che già Ingrao, appena qualche mese dopo l'approvazione della legge Reale, in un dibattito pubblico sul n. 3 del '75 della rivista "La questione criminale", metteva in guardia nei confronti dell'esistenza di un'illusione repressiva e avvertiva che essa ha radici tra le masse popolari e anche tra i militanti di sinistra, ma poneva con forza il problema di un superamento di questo ritardo ideologico. Ora è difficile pensare che un contributo a questo superamento possa venire dalle nuove misure in materia di ordine pubblico e soprattutto dal modo in cui esse sono presentate. In una lucida e per molti versi esemplare relazione svolta nell'ottobre del '74 a Bologna, nel corso di un convegno sulla riforma penale organizzata dal Centro studi per la riforma dello Stato del Partito comunista, un giurista come Giorgio Marinucci aveva insistito sull'esigenza che i partiti e la classe operaia si dessero carico del problema penale ``agendo in prima persona da intellettuali collettivi con una vasta e capil

lare opera pedagogica nel Paese diretta a far crescere la presa di coscienza della reale genesi della criminalità sinora in aumento e aprendo sempre più la strada all'idea che la politica delle riforme sociali è la migliore politica criminale'', e non già mostrandosi remissivi dinanzi all'impostazione secondo cui il terrorismo si combatte con un aumento incontrollato dei poteri della polizia. Certo - aggiungeva Marinucci - ``un atteggiamento censorio disponibile per le denunce globali, ma ignaro di visioni costruttive'' si rivela controproducente, ma non meno controproducente si rivela l'atteggiamento di chi ``sottovalutando l'importanza politica dei problemi ideali trascuri l'esigenza di far crescere progressivamente nelle masse la presa di coscienza di tutti i problemi nodali del Paese e scambi per "Realpolitik" l'assenza di una politica veramente realistica''.

Oggi sembra che alcuni giuristi abbiano scelto una strada diversa: non più questa vasta e capillare opera pedagogica per superare l'illusione repressiva, ma un'azione tesa a far apparire non repressive misure ed istituti irrimediabilmente affetti da tabe reazionaria. Ma l'accettazione di tali istituti determina ulteriori chiusure e nuove cadute ideologiche.

In questo senso io penso che la repressione, di cui tanto si parla, oggi non è tanto un problema di imbavagliamento poliziesco di ogni dissenso, ma è piuttosto un problema di graduale spostamento dell'intera società o comunque della sua stragrande maggioranza verso atteggiamenti repressivi, uno spostamento in virtù del quale rischia di passare senza contrasto la liquidazione della riforma carceraria, l'istituzione di carceri speciali o l'accettazione rassegnata del fatto che oggi distrarsi a un posto di blocco può significare esecuzione immediata; sino all'indifferenza nei confronti dell'ipotesi che Lo Muscio possa essere stato giustiziato a freddo mentre era ferito e disarmato. Questi sono guasti reali e difficilmente recuperabili. E qui debbo dissentire da Neppi quando dice: chiudiamo il capitolo dell'ordine pubblico e avviamoci alle riforme. No, la chiusura del capitolo dell'ordine pubblico, se avviene senza una battaglia ideale nel paese, rischia di avvenire quando si sarà consolidato uno spostamento com

plessivo della società su posizioni repressive per cui poi nessuna riforma potrà più passare.

5. "E' possibile una egemonia democratica nell'istituzione giudiziaria in presenza di un deterioramento illiberale della legislazione?".

Infine vorrei occuparmi di un problema specifico: chi gestisce queste norme? Neppi ha insistito molto sull'esigenza che si assicuri una presenza costante del magistrato come momento di controllo di queste misure. Ma di quale magistrato, Neppi? Quali sono gli effetti che questo tipo di legislazione induce nell'ambito della magistratura? Qui direi che l'involuzione illiberale della legalità formale significa anche degradazione inevitabile prima di tutto delle prassi poliziesche, ma anche un aumento del tasso di autoritarismo nel funzionamento della macchina giudiziaria, accentuazione della carica di oppressione contro il cittadino inerme, il non integrato, il deviante di periferia, l'oscuro imputato della routine quotidiana. Oggi, dati i rapporti di forza, non si utilizzeranno più queste norme per provocazioni contro il militante del partito operaio, ma vi è tutta una quantità di utenti della giustizia che non sono protetti da questo rischio. Vi è tutta una massa di cittadini che quotidianamente sperimentano l

'asprezza, la chiusura della realtà giudiziaria e non rovano questa garanzia. Del resto, chiunque abbia un'esperienza diretta dell'attuale amministrazione della giustizia nel nostro Paese può trovare una verifica empirica di questo fenomeno. Oggi nelle camere di consiglio penali si tende sempre più a usare in senso rigoristico e restrittivo la discrezionalità del giudice, così come nelle istruttorie aumenta l'impiego delle carcerazioni preventive, così come nelle azioni di polizia cresce il ricorso ad interventi restrittivi della libertà personale anche per reati di minima importanza. D'altra parte, diventa sempre più incerta, sempre più timida e indulgente la risposta giudiziaria a episodi di violenza che nascono nel clima dell'autodifesa contro la criminalità; diventano sempre più rare le iniziative penali contro l'abuso dei mezzi di coazione o contro l'impiego delle armi da parte delle forze di polizia.

La sentenza Velluto è di qualche mese fa. Essa nasce in questo clima e non giova certo al rifluire della tensione. Gli incessanti appelli alla magistratura perché operi come argine alla criminalità trovano in questo clima una sorta di percezione particolare per cui i giudici finiscono con l'esercitare in senso rigoristico e repressivo tutta la gamma di discrezionalità di cui dispongono - ma soltanto in una direzione, non in tutte. Il fenomeno non è nuovo. Già quindici anni fa, lo rilevava Giuliano Vassalli ricordando che non di rado accade, di fronte al dilagare di una determinata forma di criminalità, che il giudice si astenga dal concedere al condannato quei benefici che altrimenti gli accorderebbe in virtù della necessità contingente di non attenuare la prevenzione sociale e generale delle sanzioni. Quando questa necessità contingente diventa motivo ispiratore di una serie di misure legislative confliggenti col garantismo o al limite del garantismo, è inevitabile che il giudice veda incrinarsi la propria

imparzialità e si senta sempre più coinvolto in una contrapposizione funzionale al delinquente, al riottoso, al turbolento, al manifestante, che di solito è l'imputato ma può anche essere la parte civile, come nel caso Velluto appunto. In questa situazione, l'obiettivo della lotta alla delinquenza finisce con l'assorbire in sé ogni ulteriore considerazione del ruolo specifico e della stessa imparzialità della magistratura, l'equilibrio tra le funzioni teoriche della giustizia penale si sbilancia tutto a favore dell'impegno di lotta e la funzione di garanzia finisce per divenire sospetta.

Da questo punto di vista io trovo una profonda contraddizione nella posizione di quanti giudicano accettabili le nuove misure e al tempo stesso affidano ad una crescita dell'egemonia all'interno della magistratura il compito di assicurare una gestione, un uso corretto di esse.

Questa posizione, infatti, ignora che un canale essenziale per la crescita democratica della istituzione giudiziaria è rappresentata proprio dalle riforme legislative in senso progressista e dalla concomitante pressione dell'opinione pubblica democratica. Basti per tutte l'esempio della legislazione del lavoro: una serie di riforme legislative in senso progressista, sostenute dalla pressione dell'opinione pubblica democratica, hanno fatto crescere nella magistratura del lavoro un certo livello di apertura. Ma quando questo duplice tramite è percorso da messaggi e sollecitazioni oscurantiste, come ora avviene per l'ordine pubblico, il risultato rischia di essere un arretramento del livello di democrazia nella istituzione giudiziaria.

Ecco allora che una resistenza a questa involuzione, una lotta per la democratizzazione dell'istituzione giudiziaria, è possibile solo esercitando un'azione di critica capillare incessante dell'erroneo indirizzo di politica criminale; non avallandolo. Basti pensare alle difficoltà che già oggi incontrano i magistrati che intendono esercitare realmente il controllo sugli arresti. Quanti magistrati si pongono effettivamente come garanti ai sensi dell'art. 246 del Codice di procedura penale? E' sempre più invalso l'uso da parte della polizia di mettere a disposizione l'arrestato, ma non il rapporto, direi di vanificare le condizioni attraverso le quali si può realmente esercitare questo controllo.

E le resistenze che queste prassi della polizia generano nella magistratura tendono ad affievolirsi man mano che questa spinta irrazionale del Paese sale e si salda con una serie di misure legislative esse stesse irrazionali.

Ecco, allora, che non è pensabile che il futuro della giustizia, il baricentro democratico della giustizia, possa essere affidato al libero gioco delle forze che si affrontano nel mondo dei giudici. E' necessaria un'azione dall'esterno e soprattutto è necessario che i messaggi di democrazia siano affidati a congrui e pertinenti interventi legislativi. Se il compito storico che sta oggi davanti al movimento popolare è anche la costruzione di uno Stato intrinsecamente democratico e profondamente permeato dei valori costituzionali all'interno dei suoi apparati, bisogna dire che questo compito difficilmente potrà realizzarsi se negli apparati di Stato continueranno a circolare messaggi come quelli della legge Reale o come quelli di questa legislazione sull'ordine pubblico.

 
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