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Bandinelli Angiolo - 7 aprile 1978
L'ANTAGONISTA RADICALE: (17) I radicali e le istituzioni
di Angiolo Bandinelli

SOMMARIO: Gli atti del convegno sullo statuto e sull'esperienza del Parito radicale che si è svolto a Roma all'Hotel Parco dei Principi nei giorni 5, 6 e 7 aprile 1978.

("L'ANTAGONISTA RADICALE" - La teoria e la prassi del partito nuovo, socialista e libertario; e lo statuto e l'esperienza del PR nella società e nelle istituzioni - Convegno del consiglio federativo del Partito Radicale - Roma, aprile 1978)

PARTE SECONDA

I RADICALI E LE ISTITUZIONI

INTRODUZIONE

Angiolo Bandinelli

I RADICALI E LE ISTITUZIONI (relazione introduttiva)

Una relazione dal titolo ``I radicali e le istituzioni'' è di per sé difficile; in primo luogo lo è oggi, perché attualmente il Partito Radicale non c'è: ha chiuso strutture e servizi ``centrali'' e ha sospeso il funzionamento degli organi esecutivi. La decisione è conseguenza di un giudizio che non può non influenzare questo convegno, quando si pone la domanda se, nel ``regime'', sia ancora possibile una opposizione ``costituzionale e nonviolenta''. Il Partito ha già dato, molto netta, la sua risposta, che suona: ``No. Non è possibile''; o quanto meno estremamente difficile e a condizioni tutte da esplorare, ``E' impossibile - afferma il documento del consiglio federativo - esercitare oggi le funzioni di una opposizione democratica, di fronte a una gestione della cosa pubblica che viola le regole elementari del gioco democratico e dello stesso patto costituzionale, e di fronte ad una gestione degli organi di comunicazione di massa che, attraverso una ferrea lottizzazione, è di fatto controllata dai partiti

che detengono il potere e negano ai cittadini il diritto a una corretta informazione; non si è forza politica se non si ha il diritto e la possibilità di comunicare le proprie posizioni, i propri programmi, le proprie proposte, le proprie iniziative...''.

``Solo nel paese, e cioè diffondendo l'iniziativa radicale nel paese, suscitando intorno al partito e alle sue strutture associative di base nuove e più vaste e incisive forme di aggregazione, è ancora "forse" possibile assicurare un'opposizione democratica, che è anche la condizione per "mantenere aperta una prospettiva" di alternativa...'' (1)

Il giudizio è netto. Quel che ci competerebbe ora sarebbe di sottoporlo a una controprova, la quale potrebbe risultare positiva o negativa: ``verificare'' o ``falsificare'' cioè la teoria che è sottesa a questa scelta politica; sotto pena però, se la nostra risposta suonasse diversa e divergente, di trovarci domani in una "impasse" curiosa, noi stessi poco credibili.

Positiva o negativa, vera o falsa che sia, comunque, la decisione degli organi federativi del PR non sopraggiunge improvvisa, come imprevista e nevrotica risposta ai problemi dell'immediato, della cronaca politica degli ultimi mesi: lo scippo dei ``referendum'', eccetera. Penso che essa sia la risposta che oggi diamo rispetto ad un lungo, soppesato e calibrato confronto sul tema - proprio - delle istituzioni e dello Stato, un tema che il Partito Radicale ha sempre privilegiato e avuto come centrale con una costanza unica nel panorama politico italiano.

E' stato notato da più parti: solo da poco le sinistre tradizionali hanno cominciato a porsi il problema delle istituzioni, dello Stato. Giunti alle soglie del potere, PCI e PSI, le sinistre insomma, sembrano non essere in grado di maneggiare una precisa teoria dello Stato. Al loro interno riesplodono vecchie questioni, che comunque liquidano il trito economicismo. Sono ad esempio il rapporto fra fra società e Stato; il significato della rappresentanza; l'autonomia della sfera statale; il garantismo. Su di essi, nell'ambito marxista le scuole si dividono e si confrontano; non a caso alcune, fino a ieri egemoni o quasi, entrano in difficoltà (e penso alla scuola dellavolpiana, con le sue articolazioni), altri aggregati ideologici si formano e premono e sollecitano. Nell'ambito più propriamente politico si manifestano lacerazioni non meno significative: da un anno e mezzo Ingrao cerca di dare corpo alla ``centralità del parlamento'', mentre oggi Giovanni Berlinguer - in consonanza col ``Corriere della Sera'' e

``La Repubblica'' chiede che il parlamento sia riformato perché troppo permissivo rispetto agli equilibri tra maggioranze (cui spetterebbe l'``efficienza'') e minoranze (alla ricerca di spazi di vacuo garantismo). Nel lungo periodo, l'attuale dibattito all'interno della sinistra ruota attorno al tema delle cosiddette ``forme della transizione'', anche se con un sentore, un po', di obbligata esercitazione di scuola. Ma nel breve periodo, ed anzi nelle ultimissime settimane, innumerevoli si sono levate, a sinistra, voci preoccupate circa il futuro "immediato" delle istituzioni e dello Stato. Attraverso la falla aperta nel tessuto democratico dai terroristi, l'``Unità'' ha scritto che ``non passerebbero certo soluzioni di sinistra, ma solo autoritarie e di destra''. Questa è solo una delle voci più autorevoli di un coro più vasto. L'ipotesi della crisi, dello ``sfascio'', della ``destabilizzazione'', incombe e diviene motivo di analisi, di giudizi, di deliberazioni e di scelte.

Ma nell'articolarsi di ipotesi e di giudizi sembrano ancora mancare alcuni elementi che sarebbero invece essenziali per renderli credibili. Primo. Non vengono individuati i soggetti attivi - nel "politico" - di una tale crisi e ``svolta'' autoritaria. E come, da quale retroterra, essa potrebbe essere prodotta, visto che il 95 per cento delle forze sociali e politiche, collegate nel patto di maggioranza, le sono risolutamente contrarie? Terzo: per quali vie istituzionali, attraverso quali processi essa potrebbe realizzarsi? A nostro giudizio, sembra piuttosto di trovarci di fronte ad un singolare processo di transfert negativo, di proiezione: con i partiti dell'arco costituzionale - i quali da soli, ricordiamolo, occupano ormai quasi tutto il proscenio del "politico" - che cercano di issare dinnanzi agli occhi dell'opinione pubblica una immagine - dotata di una qualche credibilità - sulla quale far appuntare e riversare le paure, l'aggressività, le stesse regressioni della società; ma dietro questa ombra, rip

etiamo, non pare che ci sia altri (a muoversi come autore e attore) se non i sei, o i cinque, partiti dell'arco costituzionale.

Su questo addensarsi di problemi e di pericoli il giudizio dei radicali è, come dicevo, preciso: viene da lontano. Coloro che continuarono, nel '61 /'62, il partito, insieme ad Ernesto Rossi scorgevano con preoccupazione le persistenze del fascismo non tanto negli aspetti plateali ed immediati del neofascismo allora vigoroso e trionfante, quanto in quelli più segreti e strutturali della società e dello Stato. Primi, di fatto, essi ebbero il coraggio di affermare che una sostanziale continuità legava strutture produttive, organizzazione sociale, istituzioni e logica del potere, così come realizzato dal fascismo, con gangli essenziali della Repubblica antifascista. Per primi, essi ebbero il coraggio di non demonizzare il fascismo, non visto quindi più come ``emergenza'' atipica ed eccezionale, ma come un fenomeno storico con il quale il paese era ben lungi dall'aver fatto tutti i conti. E' del 1972, nel pieno di una campagna promossa dagli extraparlamentari per mettere al bando Almirante e il MSI, che Pannella

scriveva l'articolo ``Siamo contro i repubblichini di oggi'', nel quale si rifiutava di riversare addosso al Movimento Sociale le responsabilità di una continuità che aveva il suo centro nessun altro che la Democrazia Cristiana. Allora parve uno scandalo. E ancora nel 1972, al congresso di Torino, ponemmo l'equazione DC = PNF, non come un'ingiuria ma come una constatazione.

Sono passati cinque anni: ad un recente convegno (2) indetto dal PCI proprio sul tema delle istituzioni, uno studioso come Tronti, dopo aver ricordato quali grandi esperienze di riforma dello Stato abbiano preso corpo sulla scena mondiale attorno agli anni trenta (dal New Deal alla ``costruzione del socialismo in un solo paese'') ha potuto affermare: ``Sono due grandi esperienze che negli anni '30 si fronteggiavano: e badate bene, in Italia noi queste esperienze in parte le viviamo. Non è vero che siamo estranei a questo tipo di storia mondiale, perché l'esperienza fascista è anche tra l'altro un tentativo di utilizzare il momento della politica... come forza di soluzione di grosse contraddizioni sociali e di classe'' (3): e, dopo aver concesso qualcosa a Perna e agli altri sostenitori della tesi della ``rottura'' con quel passato, rottura realizzatasi grazie alla Resistenza e al corso politico successivo, ha poi ribadito che ``... è rimasto un filo di continuità che in qualche modo bisogna rintracciare, e q

uesto filo di continuità è proprio nel tipo di macchina statale, nel tipo di meccanismo politico oggettivo che in fondo è sopravvissuto alla stessa esperienza fascista'' (4). Nella stessa occasione, Luigi Berlinguer ha detto: ``Fino a che punto non consideriamo ancora nei fatti e inconsciamente il fascismo una parentesi, e non invece un dato organico del capitalismo italiano? ...'' ``Siamo certamente di fronte ad un'esperienza storica più ampia, in Europa come in altre parti del mondo, ad uno dei punti di approdo del capitalismo contemporaneo, con una peculiare forma di Stato...'' (5).

Il fascismo si pose dunque dei problemi che sono ancora di attualità, come viene qui riconosciuto. Quali? Ma proprio quello, innanzitutto, dell'"ingresso delle masse nello Stato"; è vero, il primo storico ingresso delle masse nello Stato, delle masse contadine e operaie, venne realizzato, per la prima volta nella storia d'Italia, non nella forma rivoluzionaria, né in quella liberaldemocratica, ma dal fascismo, nella forma dello Stato corporativo-assistenziale. Al momento della svolta di fondo, le forze, le tendenze proforide del paese scelsero allora, e attuarono, "quella" forma di Stato. Ed oggi pare che ci troviamo di fronte ad analoghi problemi, in una continuità non superficiale.

Oggi, in una fase estremamente critica per l'assetto degli equilibri, ciò che si teme è innanzitutto lo scollamento del "sociale" rispetto al "politico". Non penso che sul terreno del sociale si muovano tutte cose positive, né che abbia ragione chi ritiene che il sociale sia una sfera di massima autonomia dal ``politico'', dal sistema delle istituzioni. Ma oggi - non meno che con l'esperienza fascista - quel che si cerca di realizzare è la "totale" subordinazione del sociale alle strutture di ferro che gli apparati partitico-statuali promuovono e difendono. Assistiamo - e anche qui c'è analogia col fascismo - ad una furiosa corsa centripeta nella quale convergono i partiti, la chiesa, l'economico, i ceti medi e le classi garantite; per assicurare comunque la raccolta del consenso.

All'interno del PCI si discute seriamente, sia pure senza punti di riferimento precisi, ad un livello abbastanza chiuso di analisi e con teorizzazioni contrastanti, di "rifondazione" dello Stato; con l'obiettivo - scrive un Tronti - di portare ``l'articolazione democratica di massa nel momento della decisione politica'': occorrerebbe insomma superare ``lo Stato dei partiti'' per andare verso uno stato ``dei partiti, dei sindacati, dei movimenti, che tutti insieme in qualche modo riescano a far pesare questo tipo di volontà politica partendo da diverse esigenze, da diverse situazioni''(6). Occorre ridefinire, nella sua ``autonomia'' o in un nuovo collegamento con la società, la forma Stato,... ``coinvolgere - è la tesi di Luigi Berlinguer - tutte le forze oggettivamente disponibili, inserirle in processi di scelta e di decisione effettivi, farle partecipare all'opera di programmazione complessiva delle società, e quindi porle di fronte ai problemi della compatibilità delle richieste con le esigenze generali d

el progresso'', al fine, insomma, di ``portare tutta la società verso il socialismo'' (7).

Problemi di fondo, dunque, ma alla cui soluzione si utilizzano concetti e teorie che a noi paiono pericolose, che Stame riassume molto bene quando si chiede se ormai ``l'accento vada messo sul "momento decisionistico", per il quale il sistema delle garanzie diventa "inevitabilmente" accessorio'' (8). Poi, in concreto, il problema non pare si venga sciogliendo in una qualche ricerca delle forme di superamento del vecchio assetto liberalgarantista (9) e costituzionale per approdare a forme di transizione verso il socialismo; nella pratica quotidiana i partiti, PCI, PSI, sinistre unite, non fanno altro che rifondare e giustificare, con il loro avallo e garanzia, gli strumenti, le strutture tipiche dell'eredità fascista. C'è la continuità, la difesa, la giustificazione dei codici fascisti, del codice Rocco e persino il suo aggravamento nella legge Reale-bis e nelle norme di polizia in discussione (si fa per dire) in Parlamento; c'è la continuità, la difesa sempre più aperta, dell'apparato e dei meccanismi giudiz

iari e polizieschi, con il rifiuto della sindacalizzazione e della riorganizzazione delle polizie, delle carceri, della magistratura, ecc.; c'è l'alterarsi marcato del ruolo dei sindacati, chiamati sempre di più ad assumere un ruolo istituzionale e costituzionale, nel concerto con governo, con imprenditori, partiti, industria che è la struttura teorica del corporativismo; c'è la teorizzazione dell'equilibrio pluralistico dei corpi sociali; c'è il rinnovo dei patti lateranensi e il riconoscimento del diritto della Chiesa sulla libertà delle coscienze; c'è la riduzione del parlamento e la lottizzazione dell'esecutivo; c'è il rifiuto dei referendum, respinti come trauma che divide e spacca e impone scelte di campo; e c'è quindi la ``normalizzazione'' della Costituzione, in quella sua anomalia referendaria che per caso era rimasta innescata. C'è, insomma, la piena e persino convinta rivitalizzazione dell'esperienza fascista, in ciò che di più profondo essa ha realizzato nel paese. E' un grande riconoscimento, st

orico, quello che qui il fascismo è venuto, in questi giorni, conquistandosi.

E' una linea di tendenza della cui drammatica storicità il Partito Radicale è stato sempre convinto, e alla quale esso si è sempre opposto, con tutte le sue battaglie, al divorzio all'aborto, ai referendum, fino all'attuale opposizione e ostruzionismo parlamentare. II partito ha cercato, in sostanza, di porre in essere strumenti adeguati a risolvere, nel "politico", quel problema che, partendo da altri presupposti, Federico Stame "oggi" riesce ad enucleare, quando afferma che ``il permanere nel lungo periodo di una situazione in cui la classe operaia non è dominante, sia politicamente che economicamente, postula la necessità di concepire il problema non solo come conquista "del" potere, ma anche come difesa "dal" potere'' (10).

Garantismo, allora? I radicali hanno sempre affermato - almeno fino ad una certa data - che la sinistra doveva recuperare alcuni caratteri essenziali da Destra storica. Era un'indicazione che già li isolò, sul piano teorico e politico, da quelli interlocutori che essi invece si ostinavano a tallonare, i partiti della sinistra storica. I radicali si muovevano nella ipotesi del rinnovamento e della unità della sinistra, nella prospettiva dell'alternativa, da conseguirsi attraverso la rifondazione dell'opposizione e la formulazione di un programma comune.

Attraverso quali strumenti ideali il partito cercò di dare respiro e senso storico e politico a questa linea di rinnovamento e di unità? Primo: la lotta antinazionale, vale a dire il federalismo/federativismo, progetto - insieme - politico e statutario. Il suo primo volto è legato all'internazionalismo. lnternazionalismo radicale significa rifiuto del quadro e della logica nazionale, consapevolezza che i problemi economici e istituzionali, anche in termini di lotta di classe, non si risolvono se non in ambiti sovra - o comunque infra-istituzionale - che sono gli stessi in cui opera la grande tecnostruttura moderna e il capitale (11). Il triangolo industriale entro il quale si sviluppano le tendenze economiche e strutturali che investono la "classe", non in astratto ma in un ambito realisticamente dotato di una sua omogeneità storica e di cui siamo parte, non è chiuso nella provincia italiana, ma è almeno quello "europeo". Le vie nazionali al socialismo, di conseguenza, sono o impossibili, o una caricatura, o

un pericoloso equivoco: lo Stato nazionale - sulla scia del federalismo di un Rossi (12) - non può essere che culla di nazionalismo, di militarismo, di clericalismo, di oppressione autarchica di classe, nonostante tutto già profondamente antistorica. Un compagno mi ha obiettato che il federalismo è oggi un inutile ferrovecchio.

Non è vero. Nel momento in cui lo Stato nazionale si chiude, ecco che le multinazionali ne corrodono la credibilità, lo stesso "protezionismo" europeo ne dimostra la debolezza, i dati centrifughi costituiti dai movimenti autonomisti, dalle minoranze linguistiche, persino dalla rivendicazione dei dialetti e del regionalismo lo dilaniano. Il quadro nazionale dimostra infine di essere profondamente antieconomico di fronte alle questioni poste dall'ecologismo, dal suo utilitarismo e illuminismo.

Con il federalismo prende corpo e dignità teorica e storica, dunque, il deperimento dello Stato, dello Stato nazionale, Rispetto alle cui leggi quindi - ecco un punto importante - se ingiuste, si può e si deve non solo esercitare la opposizione, ma anche la disobbedienza civile. E non a caso una delle prime iniziative in cui tale internazionalismo si incarnò fu il ``Comitato Norimberga per l'Algeria e i crimini colonialisti'' (1961/1962). In questo atteggiamento non vi è nessun accento giusnaturalistico, mi pare. Durante la battaglia sul divorzio i radicali attaccarono duramente le posizioni cattoliche di difesa delle cosiddette "società naturali", tra le quali veniva annoverata la famiglia. Attenzione ad una ipotesi neogiusnaturalista era stata presente in un Carlo Antoni; ma ritengo che la scelta radicale sia stata diversa, e muovesse piuttosto dalla consapevolezza della relatività storica, ormai, dello Stato nazionale maturo. Quando tutto diviene Stato, lo Stato non può più rappresentare tutto. Oltretutto

perché la sua debolezza reale è patente. La disobbedienza civile prende le mosse da questo giudizio storico; o almeno "anche" da esso.

Le lotte di liberazione o sono infra- e sovra-nazionali, in quanto coinvolgono la classe nella sue "reali dimensioni strutturali", o non hanno senso e sono perdenti. Ma la teorica federalista colpiva anche su un altro obiettivo, che aveva, ed ha, a che fare anche esso con lo Stato assistenziale, il suo possibile e temuto consolidarsi. Quella teorica era infatti lo strumento della presa di distanza dal modello del blocco storico gramsciano, dell'"egemonia", del ``nazionalpopolare''. Attraverso Gramsci, i radicali vedevano continuarsi e consolidarsi vecchi modelli, con il rischio di legare le spinte di progresso, avanzate, europee (anche in un'ottica gobettiana) alle strutture e forze più arretrate della cultura e della vita nazionali. Era il rischio del dialogo``ingraiano'' coi cattolici degli anni '60, che ancora tenacemente riaffiora oggi, nella tesi di un filosofo nuovo marxista, Di Giovanni, quando invita i cattolici a collaborare alla nuova ``compenetrazione tra Stato e società civile'', con la loro pecu

liare ``sensibilità per la crisi organica del mondo moderno'', in contrapposizione proprio con la cultura ``radical-liberale'' (13).

Accanto alle lotte antinazionali, l'anticlericalismo e l'antimilitarismo erano indicati, nelle mozioni di Bologna e di Firenze del 1967 (14), come strumenti ideali e teorici adeguati a garantire, nell'attuale contingenza, lotte libertarie e di liberazione per il socialismo. L'anticlericalismo è stato il grande protagonista delle lotte degli anni '60. Oggi sembra essere valore acquisito di masse studentesche e sociali e, anche in conseguenza del deperimento del potere clericale che si è avuto in questi anni, la sua urgenza pare affievolirsi. Non sarei tuttavia ottimista come lo era Mellini qualche anno fa, quando affermava che il solo problema è oggi quello del seppellimento di un cadavere.

Più urgente appare invece la ripresa dell'antimilitarismo in un momento in cui le società nazionali si chiudono ciascuna, di nuovo, in una sorta di neoprotezionismo e danno il via ad un riarmo che si pone come struttura portante degli assetti esistenti oltreché come garante della sicurezza nelle nuove società nucleari. Ma senza andare troppo lontano, già ora la società italiana appare, ogni giorno di più, condizionata dalla massiccia dilatazione degli apparati armati, delle spese relative, pesantissimo limite aggiuntivo dello sviluppo economico e sociale. E, quel che è più grave, è il fatto che l'eventuale uso esplicitamente repressivo e antidemocratico di questo apparato non verrebbe richiesto da una destra politica che non c'è, non ha né personale, né prestigio né - letteralmente - voce, ma dal consenso dei partiti della maggioranza, quella di oggi. Non vi sarebbe, non vi sarà, probabilmente, mai nemmeno bisogno del clamoroso colpo di Stato. Come notava Mellini nel '64, il vero colpo di Stato è la striscia

nte ``minaccia del colpo di Stato''. Che è ciò che stiamo infatti vivendo (15).

Dal 1963 al 1966 il Partito Radicale condusse una campagna giornalistica e politica contro l'ENI (16). Fu una battaglia dalle implicazioni complesse, non solo moralistica. L'ENI appariva allora come l'epicentro di quella commistione di pubblico e di privato, di produttivo e di assistenziale in cui ha preso forma, in Italia, la concentrazione economica e politica che costituisce l'aspetto ``italiano'' del superamento dello Stato capitalista classico. Forse non c'era in quel momento, nel partito, la chiarezza di giudizio che possiamo avere oggi: ma le linee di tendenza erano già individuate abbastanza bene: mai come nel trentennio il rapporto tra economia e politica si è fatto strutturale. Il senatore Perna (17) oggi scrive che ``l'incomprensione dell'esatta portata dei fenomeni dell'epoca fascista, così come portò a non prevedere i mutamenti del rapporto fra la DC e gli organi del potere, limitò la nostra iniziativa alla Costituente nell'elaborazione delle norme riguardanti il bilancio dello Stato e, soprattu

tto, di quelle relative alla proprietà, all'impresa e alla programmazione economica, che altrimenti avrebbero potuto essere concepite come disposizioni direttrici delle future riforme di struttura''. Ma già nel '63, in merito ai problemi aperti da questa profonda trasformazione delle strutture economico-produttive venne avanzata nel Partito Radicale, da alcuni, una tesi che merita un ricordo: forse insufficiente, forse sbagliata, ma che era prova dell'attenzione portata ai temi economici. Era la tesi della preferibilità dell'impresa privata rispetto alla pubblica: non per una rivalutazione del "privato", delle concezioni liberistiche/privatistiche, vecchia polemica della destra.

Nel riconoscimento della necessaria conflittualità tra proprietà, profitto e lavoro, tra sfruttatore e sfruttato, sembrava possibile ipotizzare una indicazione almeno problematica per cui lo Stato, il momento pubblico, dovesse restare il più possibile fuori da un coinvolgimento strutturale ed organico con lo sfruttamento e il profitto. La tesi, forse imprecisa, coglieva però un dato teorico importante, per il quale la sinistra non è riuscita a dare una soluzione adeguata in termini democratici, non corporativi: né sul versante dell'autogestione, né su quello della gestione/controllo pubblico. Eppure, è su questo intreccio che si è edificato lo Stato assistenziale, in un processo "oggettivo" di concentrazione dell'economico e del politico che, per un critico di parte comunista, è ``senza dubbio anche progressivo'' e tendenzialmente socialista, perché supera le antinomie di un sistema abbandonato alla giungla dell'iniziativa privata (18).

Questa battaglia del PR si svolgeva in un'epoca in cui più trionfante appariva la scelta economicistica delle sinistre. Eppure, isolò ancor più il partito; sembrò collocarlo, in definitiva, fuori del tempo storico e politico, insieme con il suo federalismo, il suo anticlericalismo, il suo antimilitarismo. Ma proprio in quegli anni i radicali cominciavano ad avviare una linea di lotte attraverso le quali individuare un interlocutore autonomo, diretto; una linea che si sarebbe pienamente chiarita nel '71/'72. Il problema che il partito si pose fu di ridefinire i protagonisti del confronto democratico di classe. Per la sinistra, tradizionalmente, esso si apre a livello di fabbrica. Lo sfruttamento avviene sul posto di lavoro, il profitto viene percepito sull'alienazione della forza-lavoro alla macchina. Il '68 non contestò l'assioma, solo introdusse parametri aggiuntivi. I modelli possibili di evoluzione di tali premesse possono essere quello della centralità di fabbrica, o quello dell'egemonia. Sulle altre str

utture dello sfruttamento il lavoro teorico è invece appena iniziato. Lo sfruttamento della condizione giovanile, del tempo libero, dei rapporti personali, sociali ed umani, della condizione urbana, appaiono ancora dati aggiuntivi e paralleli, privi di una loro autonomia e di spessore. E soprattutto, che lo sfruttamento passi in primo luogo, oggi, attraverso le istituzioni e il loro uso distorto e a fini di classe, con la loro capacità di rovesciare un enorme quoziente di potere sulla generalità della gente, è nozione recente, anche essa demonizzata, non affrontata e discussa a fondo. I radicali cercarono invece di rendersi ragione di certi fenomeni adottando, negli anni '60, in mancanza di punti di riferimento e di verifica, un metodo sperimentale, empirico. Ad avviso dei radicali, la classe degli sfruttati moderni appare assumere sempre più essenzialmente, al momento dell'impatto e dello scontro, l'aspetto e la veste di "gente"; costituita dal lavoratore, come dal non-lavoratore sempre meno garantito dalle

scelte del capitalismo di Stato; dal lavoratore, come dal consumatore: sia il consumatore povero perchè deprivato di essenziali servizi pubblici, sia il consumatore falsamente ricco delle merci indotte dalla società affluente. L'unica forza, o forma, di opposizione capace di sottrarsi all'alienazione e alla rapina poteva essere, dunque, la collettività degli sfruttati: la ``gente'', insomma. La formula aggregante, capace di sottrarre all'atomizzazione gli individui che compongono la gente, di evitare i rischi della settorializzazione e della corporativizzazione, di raccogliere l'opposizione alternativa attorno ad obiettivi "generali"; di darle una compattezza e un'identità storica, poteva essere quella che fu detta dei ``diritti civili''. Come alcuni recenti teorici, i radicali hanno visto ``i rapporti di proprietà nient'altro che come "una" delle possibili manifestazioni dei rapporti di autorità'' (19); e vedevano primeggiare, come gestori dell'alienazione moderna, ``strutture imperative'' piuttosto che ``

padroni'', un ``ceto'' capitalistico o una borghesia percettrice di redditi da tagliandi azionari; constatavano anche che il ``contratto sociale porta con sé un contratto di poteri'' (per usare una definizione interessante) e che questo contratto di poteri, in Italia, si concentra sempre più nelle mani di una corporazione mista di burocrati di Stato, delle aziende corporative e delle segreterie dei partiti, in carenza di sedi istituzionali di controllo.

Attraverso la "gente" si cercava insomma di ricostituire un coagulo di schieramento alternativo, capace di superare e ricacciare nello sfondo il pericolo di quel riassorbimento corporativo, temibile e possibile ad ogni momento nella selvaggia lotta per la ripartizione delle risorse. E il primo, più essenziale momento di confronto e di scontro, sul quale si possa ricostituire, o costituire, un tale schieramento è quello del diritto. Alienati, separati dal diritto per secoli, gli sfruttati lo hanno sempre considerato roba dei signori. La loro storica diffidenza è comprensibile: Renzo trova in Azzeccagarbugli il primo avversario di classe. Meno comprensibile è l'abbaglio marxista sulla sovrastrutturalità del diritto. In realtà, il primo dato del rapporto sociale è la statuizione di una norma che rende tale il rapporto: anche quello che si dice nasce "con" e "nello" sfruttamento dell'uomo sull'uomo. Ma tanto più primario è oggi - se il quadro sopra delineato è veridico - il tema del diritto, come momento su cui

si esercita e preme il confronto. Ecco dove nascono alcuni dei modelli di lotta tipici del PR; in primo luogo quella continua, esasperata eccitazione delle istituzioni, delle procedure, della legge, che è stata fondamentale in moltissime battaglie, e lo è ancora oggi.

Siamo distanti, mi pare, dal garantismo classico. Ma anche da altre cose. I radicali hanno ad esempio sempre rifiutato la teorica dei ``contropoteri'', cara a settori importanti della sinistra, non solo extraparlamentare. La linea radicale è stata quella della riappropriazione del diritto. Attraverso questa riappropriazione la gente - singoli e classe - può arrivare a controllare laicamente la legalità della norma e la congruità ed equità dalla sua applicazione. Di più: la conflittualità, nelle aule dei tribunali, come alla Corte Costituzionale o in Parlamento, è necessaria - nel momento storico attuale - per verificare in ogni momento la legittimità del potere e della sua gestione. Alcuni, da una posizione più liberaldemocratica hanno parlato della necessità di un ``controllo diffuso'' del funzionamento del potere; per rispondere a questa esigenza si è anzi arrivati di recente all'abnorme e ormai discutibile e paralizzato meccanismo del decentramento del potere deliberante fino ai livelli minimi di partecip

azione. A nostro avviso, al contrario, solo l'eccitazione della conflittualità nelle sedi istituzionali è funzionale ad un corretto esplicarsi della democrazia. La partecipazione può divenire di fatto, come sta divenendo anche in Italia, un modello e uno strumento ulteriore di integrazione, di coinvolgimento nel le sfere di responsabilità proprie dell'esecutivo, che così si sottrae al vero controllo.

Diritti civili, dunque, come ``lotte di liberazione''. E' per questo che il regime le teme, non certo perché, nell'"escalation", al divorzio e all'aborto si debba temere il sommarsi di chissà quale altra nefandezza figlia di questa società permissiva. Che siano lotte non corporative ce lo avverte il fatto che sempre - per quanto ci riguarda - la difesa dei diritti di minoranze si è risolta consapevolmente nella difesa e promozione dei diritti delle maggioranze, della legalità in sé. E per un capovolgimento di situazioni (che pone problemi teorici sicuramente, e merita ulteriori approfondimenti) in questa ricerca e in queste lotte, di fatto, abbiamo enucleato in concreto, pragmaticamente, una vera e propria "teoria" delle ``minoranze'', quella che anche uno Stame sente ormai necessaria ed urgente (20)

Non credo che i radicali abbiano inteso semplicemente essere coloro che portavano direttamente a "contatto" con le istituzioni i bisogni nuovi, emergenti, con il solo merito di evitare e respingere la mediazione partitica. Credo che essi fossero e siano consapevoli del fatto che si trattava, e si tratta ancora, di aprire "fronti di lotta" che non possono non essere, con durezza intransigente, di rigorosa opposizione (21). Ecco perché le lotte giudiziarie hanno costituito un capitolo essenziale della storia dei rapporti con le istituzioni. Ogni volta che le istituzioni giudiziarie venivano attivate, eccitate, è stato fatto, in concreto, "deperire" il potere. Il contrario dell'"occupazione", della conquista, del potere, il contrario anche della teoria dei contropoteri. Nel gennaio del 1969, la controinaugurazione dell'anno giudiziario venne promossa dalla gente, dagli "utenti" della giustizia. Si trattava non tanto di portare direttamente a contatto la gente con le istituzioni e l'apparato, quanto di lottare p

er fare deperire il potere di quell'apparato, ivi compresi i suoi chierici, i cosiddetti operatori della giustizia, con il loro metalinguaggio altamente formalizzato.

Nell'attivazione delle istituzioni, lo strumento più vigoroso è però la disobbedienza civile. Da una parte, se lo Stato non è un assoluto, l'infrazione alla legge scritta, l'obiezione di coscienza sono un metodo, il più rigoroso, per attivare, attraverso la ``scommessa'' processuale, la verifica della legge e dell'istituzione. Dall'altra, con una clamorosa aporia che merita certo attenzione, la disobbedienza civile viene proclamata in "difesa", o in promozione, di una norma giuridica, di legge, costituzionale, che l'avversario di classe, nella sua violenza o per le contraddizioni storiche in cui si dibatte, stravolge e calpesta. Cosicché il disobbediente civile può appellarsi alla "giuria" dell'opinione comune, cui fare constatare e giudicare da quale parte viene commessa l'infrazione della norma, della legge; un appello senza il quale la disobbedienza civile non è possibile, non soltanto in senso utilitario. Ecco allora la pratica radicale dell'obiezione di coscienza, l'accettazione della direzione di un gi

ornale, il vilipendio, l'andare in galera, il praticare gli aborti in pubblico, il bruciare la scheda elettorale, il predicare l'astensione, l'occupare uno spazio urbano, il digiunare: momenti cruciali per praticare, al di là dell'astrattezza dottrinale, una verifica del contratto sociale, la ``scommessa'' (che poi il processo deve ``verificare'' o ``falsificare''), sull'interpretazione della norma di legge.

Nella mozione di Milano del '74 scrivevamo: ``II confronto ideale, morale, politico, e anche legislativo sui grandi temi della libertà, sui diritti civili, sul modo di concepire e di vivere la vita, con la DC, con la chiesa, con le forze della tradizione e della conservazione non deve essere soffocato ed eluso, ma al contrario ricercato ed imposto.. le forme più gravi di discriminazione e di ingiustizia sociale vanno osteggiate, controbattute, svuotate e penalizzate, aggiungendo allo sciopero nella fabbrica altre e "simili" forme di disubbidienza civile, collettive e organizzate, fuori del la fabbrica...''.

Qui, in questo contesto, prende corpo la nonviolenza radicale. Con la disubbidienza civile si fa deperire il potere: questa è l'unica formula di rapporto che l'opposizione può avere con esso. Perché? Ma abbiamo già visto quale riflessione storica, circa i modi di formazione e di gestione del potere, ha caratterizzato il partito in questi anni: un cosiffatto potere non può non essere violento: l'opposizione - quella che non voglia porsi come obiettivo la conquista del potere nel confronto violento con la sua violenza - non può non essere nonviolenta. Gli esempi di un mezzo secolo sono probanti. Le conquiste violente del potere hanno inquinato il conquistatore: esso ha potuto gestire il potere conquistato solo se non ha fatto decrescere il quoziente di violenza che quello incorporava.

A questo esercizio della violenza, i diritti civili oppongono una barriera di resistenza e di verifica nonviolenta (dopo tutto, il contratto deve essere bilaterale); la disobbedienza civile è lo strumento che notifica l'esistenza del dissenso; del ``no'' al modello di gestione del potere, e condiziona questo a scendere sul terreno del confronto, laico perché dialogato: oppure, perché no? ad un esercizio di ulteriore violenza.

Ha ragione chi ha affermato, in questi giorni, che le matrici della violenza, della violenza armata, affondano nel cuore della sinistra. Il gran tema del secolo è, appunto, la conquista del potere, con la violenza rivoluzionaria o sulla canna del fucile. Ma guardate poi in quali contraddizioni si avvolge chi, come alcune forze extraparlamentari, dopo aver per anni teorizzato la violenza si trova oggi - sul caso Moro - a dover giustificare la propria inversione di rotta con motivazioni puramente ``etiche'' o giusnaturalistiche: non hanno altro spalto che quello della mera moralità, non riescono a sviluppare, su questo argomento, iniziativa politica, ma sono trascinate in un battibecco abbastanza coinvolgente proprio sul terreno dell'avversario, in forme subalterne sul piano teorico. Atteggiamenti a priori rifiutati da noi, non violenti, che abbiamo potuto con rigore confrontarci con le istituzioni, anche su questo argomento scottante ed emotivo, da opposizione vera e propria. Ma è chiaro: le difficoltà vengon

o quando, rifiutato il confronto nonviolento, ci si deve rigettare indietro, in una pratica sociale che esclude il contatto con le istituzioni, cosicché il risvolto di questa assenza non possono non essere poi, in modo consequenziario, le Brigate Rosse, per le quali le istituzioni si abbattono a colpi di pistola. Ben diversa scelta è stato possibile compiere, con Adelaide Aglietta che accetta di andare a fare il giurato a Torino nella consapevolezza che la sua presenza, nonché non invischiarla nell'istituzione, poteva e può avere il senso di far deperire, di un quoziente sia pure minimo ma reale, la carica di violenza di quella istituzione.

Lungi dall'essere settoriali, frammentarie e prive di una logica complessiva, le iniziative radicali dunque non gratificavano il ''movimento'' o segmenti di movimento - i divorziandi, gli emarginati, eccetera - quanto invece erano e sono occasioni di rivendicazione generale. E' evidente che, in questa dinamica, la battaglia delle battaglie è stata quella del referendum.

Sul significato dei referendum nel quadro istituzionale e politico italiano credo si sia detto tutto, o quasi tutto, e che poco vi sia da aggiungere, nell'economia di un'esposizione di questo tipo. Vorrei però fare una considerazione: non è un caso che all'acme della parabola referendaria sia succeduto adesso il tentativo di chiusura del regime nelle forme che conosciamo e sperimentiamo. I due complessi eventi si collegano nell'ambito di una stagione politica profondamente caratterizzata, che da questa drammatica conflittualità prende il suo volto e il suo nome.

Con le elezioni del 20 giugno 1976, nel momento montante di quell'acme, il partito dei diritti civili ha inviato in Parlamento 4 deputati. Questi vi entravano con la preoccupazione, se non la certezza, di esservi minoranza non solo sul piano numerico ma anche su quello ideale. I radicali giungevano in Parlamento dopo aver a lungo rifiutato persino di partecipare alla competizione elettorale. Nel decennio precedente, del resto, sul significato della rappresentanza e della delega, sulla validità delle istituzioni parlamentari si era aperto un dibattito importante per le nuove sinistre. L'assemblearismo del '68 era null'altro che la ripresa di un tema teorico che affonda le sue radici nella storia della sinistra democratica, da Rousseau in poi, passando per il giovane Marx, per il quale la rappresentanza parlamentare è riflesso speculare della condizione parcellizzata e ruolizzata imposta all'individuo e alla società dal capitalismo e dalla conseguente divisione del lavoro che esso persegue, nel suo progetto di

alienazione. Infine, se le sue tesi di fondo non erano condivisibili, il '68 fu però segnale importante di una condizione di crisi oggettiva dell'istituto parlamentare.

La mozione radicale del congresso torinese del 1972 riprendeva l'allarmata denuncia della continuità delle procedure parlamentari con quelle dell'esperienza corporativa fascista: ``il legislativo da venti anni ha approvato - diceva quella mozione - decine di migliaia di leggi corporative, con l'esplicito consenso dell'opposizione parlamentare democratica, qualificandosi cosi come vera ed ``efficiente'' Camera delle Corporazioni... incapace di attuare, in un quarto di secolo, la Costituzione...''. Nel 1970, l'accordo intervenuto tra i partiti per escludere dai mezzi di comunicazione di massa le forze non rappresentate in Parlamento veniva bollato come un furto compiuto dal ``sindacato dei partiti di regime'' (22). Per questi stessi motivi, nel 1968 il Partito Radicale aveva dato indicazione di scheda bianca, seppur con motivazioni diverse dagli extraparlamentari, che fecero la stessa scelta. Alla successiva prova elettorale, nel 1972, dalla scheda bianca i radicali passavano all'astensione attiva, quale ``att

o di resistenza al regime, di disobbedienza civile a leggi che non corrispondono alla coscienza di democratici, di non-cooperazione con un governo che è illegale'', denunciando ancora una volta le barriere frapposte dai partiti a che l'informazione pubblica, la RAI-TV si aprisse alle forze nuove, allora emergenti.

Nonostante queste diffidenze e nella piena consapevolezza della difficoltà del ruolo cui avrebbero dovuto sobbarcarsi, i radicali ritennero che vi fossero condizioni adeguate almeno per il tentativo; erano convinti anche, del resto, che solo sfondando su quel fronte sarebbe stato loro possibile acquisire una forza contrattuale e di lotta aggiuntiva, più adeguata all'inasprirsi delle condizioni oggettive. Così, i 4 deputati si trovano ad operare nella legislatura che è probabilmente la più drammatica e decisiva.

Quasi con angoscia, più che con l'ottimismo derivantegli dai nuovi equilibri conquistati dal suo partito, Ingrao ha battuto per mesi sulla necessità di restituire al Parlamento una nuova centralità, sostanziata di efficacia deliberativa e programmatrice e sostenuta da un nuovo consenso delle grandi masse popolari. Cosa è questa centralità? Perché essa può e deve spettare al Parlamento e non ad esempio ai deputati, gli eletti dal popolo? Vi sono molti significati, e non tutti positivi, di una tale ``centralità''. Per esempio, da sempre le sinistre hanno preteso di far passare attraverso il Parlamento ogni deliberazione, in un proliferare legislativo il quale desse l'illusione di esercitare un controllo sull'esecutivo che invece proprio questa prassi allontana e rende impossibile. La funzionalità diviene così, fatalmente, un meccanismo attraverso il quale si realizza una vera e propria parcellizzazione del lavoro parlamentare e dello stesso deputato, impedito nel concreto di esercitare effettivamente il suo co

mpito essenziale, di controllo e di indirizzo globale. L'art. 81 della Camera prescrive che un progetto di legge sia richiamato in aula dopo 4 mesi. E' un'interpretazione corretta della funzione parlamentare. Invece, i processi reali che sono messi in atto spingono e vanno nella direzione contraria, per cui si cerca in ogni modo di attivare le Commissioni, a discapito del dibattito generale: non solo nella pratica corrente; la tesi viene ampiamente teorizzata. Non solo le modifiche antireferendarie della legge Reale passano senza che il relativo dibattito sia pubblico; al di là di questi casi abnormi, comunque e sempre le commissioni vengono privilegiate, pur nella evidente constatazione che esse costituiscono proprio il luogo delegato alle mediazioni tra i grandi potentati e le grandi corporazioni.

Alla esplicazione della centralità nel suo significato positivo vengono invece negati strumenti essenziali. Interpellanze e interrogazioni non ottengono risposta dal governo. Non vengono attivati, per responsabilità proprio delle commissioni, quei procedimenti di controllo che il Parlamento si è di recente attribuito: le indagini conoscitive, le famose "hearings". Uno strumento che dovrebbe essere centrale di questa conclamata ``centralità'', l'accesso all'informazione, è precluso sia al Parlamento che al parlamentare, cui quindi sfugge la possibilità di indirizzare il processo legislativo partendo da dati reali, ottenuti in "tempo reale" (secondo una richiesta, mi pare, di Rodotà, di anni orsono) e non quando sono divenuti invecchiati e ormai inutilizzabili.

Ancora una volta, dobbiamo ostinarci a sottolineare che l'inefficienza, la degradazione dell'istituto parlamentare non sono da imputarsi ad una destra parlamentaristica ottocentesca e inefficiente. Le critiche da destra alla partitocrazia e alle sue degenerazioni sono svanite nel nulla. In parlamento, al 90 per cento, sono presenti partiti di caratteristiche antiborghesi. Ma proprio grazie a loro il nuovo regolamento, sotto una facciata garantista vissuta ormai come contraddizione, è stato inteso a realizzare una forma di cogestione tendenzialmente unanimistica dei partiti. Come scrive il Predieri, ``... il Parlamento recupera la sua funzione di rappresentatività... allargando il consenso dei gruppi in due direzioni, quasi sino alla unanimità nella gestione procedimentale (è questo il significato dei regolamenti del 1971) e nella scelta dei contenuti delle legislazioni, rafforzando il metodo dell'allargamento della maggioranza legislativa come diversa da quella governativa...'' (23) La scomparsa della delimi

tazione tra maggioranza e minoranza è anch'essa ormai teorizzata su questa scia. Sarebbe difficile discutere sulla validità o meno di questa evoluzione delle strutture del parlamento, in riferimento anche ad altre esperienze internazionali che vanno in questa direzione. Il problema è che poi, nonostante tutto, il parlamento italiano "non funziona". La sua centralità è una richiesta puramente rituale.

Nella stessa direzione, nella esigenza presunta di maggiore funzionalità, va la riduzione del ruolo e della indipendenza del singolo parlamentare. Nessuno osa formalizzare questa riduzione. Per il Mortati (24), in caso di dissenso con il suo gruppo, ``è assicurata la libertà del parlamentare di sottoporsi in ogni momento a tale disciplina''. Come? Ma ``affrontando le sanzioni interne inflitte dal partito che culminano nell'espulsione, o usando della facoltà di dimettersi anche senza aderire ad un altro partito''. Non mi pare una prospettiva accettabile sul piano della teoria costituzionale; semmai, un rimedio da praticoni. Le verità è che tutti questi partiti, "nella loro intera storia culturale e politica antiborghese e antiliberale", hanno voluto la riduzione del ruolo del parlamentare, a vantaggio delle segreterie e del gruppo.

La sinistra, i partiti tutti, il regime sanno benissimo questo. Lo teorizza, lo teorizzano i vari partiti. Si colloca in questo tempo l'osservazione di uno Stame, che scrive che ``l'antitesi... è delimitata tra una concezione liberale del rapporto individuo-società e una concezione "organica" del corpo sociale che le ha le sue ascendenze maggiori nelle versioni 'totalitarie' del pensiero borghese'' (25), o di un Cacciari per il quale nella società non esistono individui individuali ``sciolti'' (26), ma "gruppi o organizzazioni" più o meno forti. Stame dà, quali poli della divaricazione, lo Stato, le concezioni, ``gli strumenti classici di governo della borghesia'' e i ``modelli leninisti''. Invece la divaricazione non è a due teste; vi è una terza via: quella che mi pare stia prendendo piede nel nostro Paese.

I problemi dell'efficienza, del rapporto tra parlamentare e gruppo esistono, certamente. Ma se, in forme surrettizie e oblique, si intacca in modo significativo quel dettato costituzionale che delinea e salvaguarda la figura del parlamentare, dell'eletto dal popolo, come si è storicamente configurato nell'evolversi della teoria liberale, allora il Parlamento - non dico muore - si trasforma in qualcosa d'altro. Altre strutture lo sostituiranno, magari efficienti e valide, ma non saranno il Parlamento.

La soluzione del dilemma posto da Bobbio tra democrazia e funzionalità sembra oggi andare ineluttabilmente verso l'accrescimento della seconda, a discapito esplicito della prima. E non perché la sinistra stia realizzando qualche tipo di modello "leninista". Il rifiuto della dittatura del proletariato non arriva casuale: gli strumenti oggettivamente a disposizione nel senso corporativo erano e sono tali da concedere garanzie e soddisfazioni ancora più sicure, e storicamente fondate.

Anche l'ansia, la preoccupazione di concedere al Parlamento sempre nuovi riconoscimenti e privilegi formali-regolamentari va in questa direzione. I regolamenti della camera tendono sempre più a raffigurare un tessuto di ``interna corporis'' avulso dalla realtà circostante, alla quale non giungono più se non fievoli e distorti gli echi di quanto vi avviene dentro. In queste condizioni, come sta avvenendo da settimane, si capisce che sia facile ottenere che garanzie regolamentari ancora fino a ieri rispettate vengono ignorate o scientemente disattese. Giovanni Berlinguer, in consonanza con Scardocchia, può chiedere impunemente la modifica dei regolamenti del 1971, perché già troppo liberali e permissivi.

A conclusione, dovrei ora fornire indicazioni di prospettiva. Mi riesce difficile. Ho cercato di tratteggiare una linea di interpretazione del trentennio e delle sue tendenze, dei rapporti che il partito ha avuto con le istituzioni, ricavandola dall'esperienza collegiale che abbiamo fatto. Tale linea di interpretazione collima sostanzialmente, credo, con le premesse che hanno condotto la segreteria alla decisione di sospendere l'attività del partito federativo, nell'impossibi lità di poter ulteriormente esercitare, da quel posto, un ruolo di opposizione costituzionale e nonviolenta.

Ho anche ricordato all'inizio che gli organi del partito hanno aggiunto che è "forse" possibile invertire il corso di questa storia se i radicali (non il partito) nei partiti regionali o nelle loro libere associazioni e organizzazioni sapranno reinventare motivi e forme aggreganti, per lotte alternative, possibilmente ancora vincenti. Né posso dimenticare che contraddizioni persistono all'interno dei meccanismi e delle tendenze che ho evocato. In fondo, il partito radicale "brigante di strada" riuscì con il divorzio, con l'aborto, coi referendum, a ritardare di anni il processo di chiusura del regime. La conflittualità nel sociale, con una dinamica che è omologa nelle due direzioni - quella della stretta corporativo-assistenziale e quella del più aspro confronto e della rottura - si eleva al livello di guardia. Sei milioni di disoccupati, in Europa, sono un dato tremendo. La resistenza dei ``diversi'' potrebbe - chissà - far inceppare ancora una volta il meccanismo. Le contraddizioni dello Stato corporativo

possono sbattere su una buccia di banana.

Il nostro problema, però, è pur sempre un altro; non è tanto di inserirci in questa o quella contraddizione, per assestare e assestarci negli "attuali" equilibri. E' piuttosto se può continuare ad esistere, ampliarsi, imporre la propria linea il partito internazionalista, federativo, nonviolento, dei diritti civili, libertario e socialista; se può sperare di creare spazi di movimento il partito dei diritti civili; se ancora regge l'ipotesi e la linea delle lotte maggioritarie, vincenti per tutti, per la costruzione dell'opposizione e quindi dell'alternativa.

L'indicazione che gli organi federativi hanno dato ai radicali, di disperdersi nella società, di andare fra la gente, di ``predicare'' la verità, di organizzare le sue lotte e dare ad esse un senso davvero alternativo, non ricadendo nella inanità della mera pratica sociale post-sessantotto, può fare pensare ad una tesi (diciamo così) della autonomia, relativa o assoluta, della società e dei movimenti che in essa si muovono. Si tratterebbe insomma di ricercare nella società le forze e i movimenti emergenti, di coagularli e dare loro direzione e sbocco politico. A questa tesi vorrei muovere un rilievo. Non si deve dimenticare che la nostra esperienza degli anni passati è andata precisamente nella direzione opposta. Il divorzio nacque prima del movimento libertario contro le istituzioni, la famiglia, eccetera. La battaglia dell'aborto, in Italia, nacque prima del movimento femminista e anzi contro il movimento femminista; l'obiezione di coscienza nacque prima dell'antimilitarismo - diciamo cosl - della rivolta

e del rifiuto delle caserme, il movimento nel sociale, appunto. Il procedimento radicale, per il solito, è stato quello di promuovere iniziativa politica, attraverso cui poi dilaga il sociale (oppure no, è accaduto anche questo). Mi pare che il senso della indicazione degli organi federativi debba ancora essere tale.

Una seconda tesi può essere di cercare di portare il partito ad aprire il confronto, sul terreno delle istituzioni, per coagulare attorno a battaglie qualificanti spezzoni di opposizione, anche all'interno dei partiti, con un occhio di riguardo, magari, al PSl. Ripeto, nulla è scontato in certi processi storici, e tutto può ragionevolmente accadere. Però va osservato che da un anno e mezzo i quattro deputati radicali hanno cercato di fare proprio questo, e nel cuore dell'istituzione: sull'amnistia, sulla riforma della polizia, su Osimo, sul nucleare, sui referendum e sulle leggi per l'ordine pubblico, sul Friuli, o dovunque capitasse l'occasione, tutte le iniziative erano proprio intese a questo obiettivo. Purtroppo, i risultati sono stati scarsissimi, questo uso delle istituzioni, a breve scadenza almeno, si è dimostrato impossibile. Se era in questa direzione che si cercava di avviare una politica delle alleanze, mi pare che ci si è mossi su un terreno bruciato. I temi qualificanti, mi pare, li abbiamo tro

vati, o almeno i quattro deputati li hanno trovati: ma il risultato non è stato affatto di rompere in qualche modo l'isolamento rispetto alle forze politiche: al contrario. Le iniziative hanno fatto aumentare, a questi livelli, il tasso di emarginazione.

E' evidente allora, mi pare, che l'unica via da battere sia quella che venne indicata con la mozione del congresso del 1971, quando, abbandonata la via dell'unità delle sinistre, si affermò che il Partito Radicale ``appare ormai - non per sua scelta - come un'ipotesi costitutiva e rappresentativa di quel `partito laico' che nel paese... non trova altra struttura e forza adeguata''. Già allora, era la strada dell'isolamento e del distacco consapevole dai vertici e dalle politiche degli altri partiti della sinistra: ma significò anche l'avvio del radicamento del partito nel paese, tra la gente.

Non vedo che ci sia, anche oggi, un'altra strada, o scorciatoia, da seguire. E' la via dell'opposizione, intransigente e dura, nella tensione di tutte quelle caratteristiche di opposizione che sono proprie e costitutive del nostro partito, e che mi sono dilungato a ricordare. La nonviolenza, la disobbedienza civile, l'eccitamento del le istituzioni in primo luogo. Non capisco perché, proprio quando stiamo verificando la giustezza di un trentennale giudizio storico, dovremmo divenire, farci diversi, battere altre strade, abbandonare il compito - certo difficile - dell'opposizione. Dell'opposizione, come abbiamo sempre detto, al regime: o questa parola non aveva un senso preciso?

Ha forse ragione Ciafaloni quando afferma, come ha fatto ieri, che lo Stato come è ancora architettato nella Costituzione non c'è più, e che la Costituzione materiale ha fatto dilagare i poteri dello Stato al di fuori degli argini tradizionali. E' possibile che questo ampliamento sia irreversibile, e che spetti a tutti di cominciare a individuare modi e vie nuove per realizzare, nelle mutate condizioni, la democrazia effettiva. Ma certo non mi pare risposta congrua quella che Ciafaloni ci ha dato ieri sera, quando ha auspicato che i partiti, nel momento in cui vogliono il finanziamento pubblico o comunque ampliano le loro responsabilità costituzionali, democratizzino il loro funzionamento. Se facessero questo, saremmo sicuramente a cavallo. Purtroppo, però, non lo faranno; non lo faranno, almeno, se non saranno confrontati con una opposizione molto dura, molto rigorosa, capace di sollevare su questo e analoghi temi innanzitutto una "questione morale": con la sua stessa (e forse sola) esistenza e presenza, ut

ilizzando e sfruttando tutti i margini di lotta e di resistenza, soprattutto quelli, per quanto scarsi e precari, dell'informazione. Ricordiamolo bene, da laici: i radicali non hanno mai creduto nella fatalistica tesi della univocità del messaggio indotto dai "mass media"; ma hanno piuttosto sempre nutrito fiducia nelle capacità di decodificazione della gente, con tutte le sue contraddizioni. Questa è la nostra carta di garanzia e la nostra ipotesi di lotta.

In definitiva, penso che ormai il tiro vada alzato. Non è più il tempo delle riforme, dei progetti qualificati e qualificanti "nelle" istituzioni; ma di una grande lotta democratica e popolare "per" le istituzioni; per controllare e verificare quali siano ancora valide per realizzare una società diversa. Il tiro della eccitazione della conflittualità, della verifica, va alzato. E' quanto stanno facendo i nostri quattro deputati. Per opera loro, ciò che sta accadendo in questi giorni è un vero e proprio collaudo di congruità della istituzione parlamentare e del suo grado di tenuta rispetto alle sollecitazioni dei partiti legati nello Stato corporativo assistenziale. Il tornante è serissimo: le invocazioni a una ulteriore riforma del regolamento parlamentare non si contano più, come ho già ricordato.

Una sola obiezione trovo, a questa mia indicazione di resistenza e di accentuazione del significato e della portata delle nostre lotte. E' il fatto che ho ricordato all'inizio, cioè che il partito federativo ha chiuso, o sospeso, la sua attività. Chi condurrà, domani, le lotte?

Sappiamo quale sia stata la risposta degli organi federativi. Sono i partiti regionali che devono crescere. E' possibile? io una indicazione in questo senso non so darla. Ed è allora qui, a questo livello, che dovrebbe aprirsi il "vero" convegno teorico del Partito Radicale di oggi: un convegno per elaborare la teoria di questa prassi straordinaria, del partito che non c'è e delle nuove condizioni della sua battaglia. Evitando, in questo modo il rischio, o il vizio, di fare teoria su una prassi astratta, o quanto meno non attuale.

"Nota. La replica conclusiva dei lavori del convegno non poté essere letta da A. Bandinelli, per motivi di tempo. Essa però è stata pubblicata su ``Quaderni Radicali'' n 3, giugno/agosto 1978".

NOTE

(1) La documentazione completa sulla chiusura del partito, comprendente le delibere degli organi federativi, interventi di Adelaide Aglietta, Gianfranco Spadaccia, Marco Pannella, si trova in ``Quaderni Radicali'', n. 2, gennaio/marzo 1978. La rivista può essere richiesta c/o Giuseppe Rippa, via dei Chiavari 38, Roma.

(2) ``Stato e progetto di trasformazione della società italiana'', seminario tenuto ad Albinea nei giorni 20/22 maggio 1977, dalla Sezione centrale scuole di partito e dall'Istituto interregionale di studi comunisti ``M. Alicata''. Gli atti in ``Perna ed altri - Stato e Società in Italia'', Editori Riuniti, Roma 1977.

(3) ibid. pag. 217

(4) ibid. pag. 216

(5) ibid. pag. 129

(6) ibid. pag. 220

(7) ibid. pag. 132

(8) ``Rinascita'', n. 10, 10 marzo 1978

(9) Una esplicita richiesta di superamento dell'assetto liberalgarantista non è tra i progetti politici del PCI. Ma nelle aule riservate dei suoi convegni di studio la mozione circola liberamente: cfr.. appunto ``Stato e Società in Italia'' "passim", ben scandito nell'intervento di Tronti: ``Va spezzata oggi questa sorta di continuità teorica con le forme classiche del pensiero politico premarxista... c'à un punto in cui il filo della tradizione del pensiero politico borghese. garantista, liberale, democratico in senso formale, va tagliato...'' pag. 221/222

(10) F. Stame, ``Società civile e critica delle istituzioni'', Feltrinelli 1977, pag. 37

(11) ``Agenzia Radicale'' 25 febbraio 1966: ``L'internazionalismo è innanzitutto una posizione di lotta interna, di politica `nazionale', o non è che comoda e artificiosa evasione cosmopolita. L'internazionalismo non può non essere anche lotta contro lo Stato nazionale, anche e proprio per le forme necessarie che esso assume. E queste, è ora di considerarlo, sono comuni ai paesi `occidentali' e `orientali'. Esercito, polizia, giustizia non autonoma (...), industria degli armamenti, sono le `forme' storicamente assunte in comune dagli Stati `socialisti' e dagli Stati `borghesi'...''

(12) ``E.R. e A.S., problemi della Federazione Europea'', ed. del Movimento Italiano per la Fed. Europea 1944

(13) ``Rinascita'', n. 42, 28 ottobre 1977

(14) ``Il partito dell'autogestione socialista e libertaria'' edito dal partito Radicale, a cura di A. Bandinelli, 1976. Tutte le citazioni di mozioni congressuali fanno riferimento a questo fascicolo documentario.

(15) Non si può tacere, quale indizio di un condizionamento fattosi ormai costume, lo scandalo della pagina dell'``Unità'' del'11 maggio u.s., interamente ceduta alla pubblicità del consorzio di industrie militari ``Melara Club''. Cfr. anche l'intervento alla camera, sul bilancio della difesa, di Adele Faccio, in ``Alternativa Nonviolenta'', n. 6, maggio 1978

(16) ``Libro Bianco del P. Radicale'', 1967, pag. 35 segg.

(17) ``Stato e società in Italia'', pag. 46/47. Sull'intreccio tra economia e politica creatosi a seguito delle riforme fasciste, cfr. anche ``Amato, Economia, politica e istituzioni in Italia'', "passim"; importante soprattutto per l'analisi delle strutture del credito.

(18) Massimo Boffa, ``Le dure repliche della storia'', in ``Il Marxismo e lo Stato'', ed. Mondoperaio, 1976

(19) Ralf Dahrendorf, secondo A. Pizzorno, in ``R. Dahrendorf, Classi e conflitto di classe nella società industriale'', Laterza 1977, pag. 10/11

(20) F. Stame, op. cit., pag. 44

(21) Se togliamo alla sfera del ``politico'' la drammaticità reale della partecipazione alla storia, il modello duale dell'alternanza (``vincere/perdere'') perde di serietà, e viene assimilato facilmente entro gli schemi di una ``teoria dei giochi'', la quale non a caso ha prodotto tutta una serie di ampliamenti semantici (``Il gioco democratico'', ecc., fino ai ``ludi cartacei''). Mi pare sia stato Luigi Berlinguer a criticare - al servizio ovviamente di un ennesimo tentativo di smantellare la validità della ``alternanza parlamentare'' - la giustezza di una tale concezione della democrazia, partendo però da una serie di interessanti osservazioni su questo regresso della problematica democratica fino all'esaltazione del carattere ludico dei suoi meccanismi. L'appunto mi pare pertinente; quelle teorizzazioni, nate per spiegare certe ``regole del gioco'' tipiche della Quarta Repubblica francese, certamente sono oggi abbastanza inattuali.

(22) ``Notizie Radicali'', n. 92, 3 giugno 1970

(23) ``Il parlamento nel sistema politico italiano'' a cura di Alberto Predicri, pag. 51

(24) ``C. Mortati. Istituzioni di Diritto Pubblico'' Cedam 1969, Vol. 1, pag. 467

(25) F. Stame. op, cit. pag. 37 (anche per le cit. successive)

(26) ``Rinascita'', n. 10, 10 marzo 1978.

 
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