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Bettinelli Ernesto - 7 aprile 1978
L'ANTAGONISTA RADICALE: (18) L'autoritarismo consensuale nello Stato di ordine pubblico
di Ernesto Bettinelli

SOMMARIO: Gli atti del convegno sullo statuto e sull'esperienza del Parito radicale che si è svolto a Roma all'Hotel Parco dei Principi nei giorni 5, 6 e 7 aprile 1978.

("L'ANTAGONISTA RADICALE" - La teoria e la prassi del partito nuovo, socialista e libertario; e lo statuto e l'esperienza del PR nella società e nelle istituzioni - Convegno del consiglio federativo del Partito Radicale - Roma, aprile 1978)

I RADICALI E LE ISTITUZIONI

DIBATTITO

Ernesto Bettinelli

L'AUTORITARISMO CONSENSUALE NELLO STATO DI ORDINE PUBBLICO

1. Vorrei muovere da un interrogativo che su il n. 3 di "Mondo Operaio" (1978) si pone G. Amato nel suo saggio ``Democrazia conflittuale e trasformazione sociale'', a conclusione del dibattito continuato per un lungo periodo e tra interlocutori autorevoli sul tema ``Riforma dello Stato e alternativa della sinistra''. La domanda è la seguente: ``E' giusto ritenere "oggi" che il partito sia solo uno strumento, e sia per di più l'unico strumento, attraverso il quale la "società civile" si esprime politicamente e riesce a penetrare così nella società politica, abbattendo lo steccato costruito fra le due dall'assetto borghese? ''.

Ho riproposto la domanda - e sicuramente questo potrà sembrare anomalo - non perché io voglia direttamente rispondervi e aggiungere un'irrilevante postilla a una discussione che Amato dichiara conclusa, ma perché in essa si assumono dei termini e dei concetti che, a mio avviso "oggi" con difficoltà si riesce a comprendere e materializzare, quando invece ieri (e mi riferisco all'età aurea del 1969-72) erano un punto di riferimento preciso per l'inizio di ogni discorso di costruzione di qualsiasi ipotesi di ``nuova società'', di ``nuovi rapporti tra cittadini, lavoratori, istituzioni''.

Allora, proprio cogliendo lo spunto dalla domanda di Amato sono costretto - come il naufrago di buone letture che ha vissuto la terribile avventura di approdare in un'isola deserta e, per di più, sfornita di biblioteca - a pormi due altri interrogativi: che cosa significano le espressioni ``società civile'' e ``società politica'' "oggi", a quali dati e fatti reali, a fatti di tutti i giorni, si riferiscono. E come è possibile "oggi" distinguere tra società civile e società politica, quali strumenti esistono per rilevarne non dico gli eventuali rapporti conflittuali, ma gli stessi rapporti di eventuale concordanza.

Ciò che attualmente possiamo con sicurezza conoscere è che esiste lo stato, e, forse, questo sarà anche un dato di novità rispetto a un passato recente e meno recente. Abbiamo scoperto più precisamente il valore della ``dignità'' dello stato come valore assoluto, quasi metacostituzionale. E, ancorando il nostro discorso alle tristi vicende di questi due mesi, possiamo convenire che l'esistenza e la vitalità dello stato si rivelano soprattutto nella solenne attestazione della compattezza e chiusura del suo apparato repressivo. Non possiamo invece affermare con eguale convinzione che l'esistenza dello stato si manifesta con la stessa sicurezza nell'attività concreta e negli apparati di prevenzione per la salvaguardia della vita e incolumità dei suoi cittadini.

Non è nemmeno difficile verificare di quale società politica questo stato sia espressione; e forse è questa l'unica strada percorribile al momento presente e nell'attuale congiuntura per arrivare a una identificazione della società politica. Può bastare a mio avviso (e accetto tranquillamente ogni critica di schematismo) individuare i fini che lo stato si propone in rapporto con la sua organizzazione e, cioè, con la forma di governo che ad essa presiede. E, per sapere quali sono i fini dello stato in un dato frangente storico, occorre determinare i problemi, gli obiettivi che lo stesso si propone di affrontare e perseguire. Siccome non si può negare che esiste una pluralità di problemi e obiettivi, bisogna a questo punto rilevare quale tra essi è considerato preliminare (e propedeutico) rispetto agli altri.

E' fin troppo evidente che il problema e l'obiettivo di partenza è la tutela dell'ordine pubblico ed è pertanto questo il punto programmatico fondamentale che cementa l'unità tra le forze che si ritrovano nell'area di governo. Non devono assolutamente fuorviare i diversivi della polemica che talora risorge tra le varie parti politiche consociate sulla contestualità o meno tra una politica di ordine pubblico e un'"incisiva" politica di riforme strutturali.

Non si tratta soltanto di aria fritta; il dilemma è palesemente mistificante: perché la contestualità tra misure di ordine pubblico e provvedimenti strutturali è, se non impossibile, almeno improbabile, se si guarda alla natura ed ai tempi di quelle e di questi. Le prime danno dei risultati immediati, capaci di creare nuove situazioni soggettive, nuovi rapporti di soggezione tra cittadini e autorità dello stato, là dove quest'ultimi (cioè i provvedimenti strutturali di riforma) nell'immediato producono per lo più aspettative, mentre gli effetti oggettivi di mutamento sono riscontrabili solo a media o lunga scadenza. Si abbia quindi il coraggio di ammettere anche formalmente che la prospettiva più valida sul piano logico, una volta che si è aderito alla politica di ordine pubblico, è quella della sua precedenza sulle riforme, allo scopo di conseguire quella mitica stabilità del sistema che consentirà, poi, la presa in considerazioni di fini di governo più vasti... Del resto è la stessa esperienza storica che

insegna che quando si è tentata la via della contestualità, o le riforme sono state puramente puramente nominali o esse hanno assunto semplicemente la forma di ``stralci'' che hanno aggravato ancora più le situazioni che si pretendeva risolvere.

2. Possiamo datare l'inizio dello stato di ordine pubblico in Italia, e, quindi il dimensionamento dell'assetto di governo e dei governi a tale nuovo quadro istituzionale nel 1975, quando è entrata in vigore la legge Reale, più esattamente intitolata come ``disposizioni a tutela dell'ordine pubblico'', che ha segnato anche il punto di svolta della precedente e ormai lontana tendenza liberalizzante e di apertura verso i valori costituzionali della tutela della dignità della persona umana in qualsiasi situazione e condizione sociale.

Come è noto la "ratio" della legge Reale risiede soprattutto nella sua clausola finale, nella sua ``provvisorietà'' (si stabilisce infatti che essa perde efficacia all'entrata in vigore del nuovo codice di procedura penale e comunale non oltre 5 anni). Opportunamente F. Mancini ricorda (cfr. Mondo Operaio, 1978 n. 2) che analoga clausola era contenuta nella legge istitutiva del tribunale speciale del regime fascista e come questa venisse tuttavia "naturalmente" prorogata nel 1930 onde far fronte ai ``focolai di infezione criminale'' ed anche perché si era manifestata l'``opportunità di un periodo di prova'', nel momento in cui tale tribunale si veniva configurando come organo giurisdizionale a "competenza speciale". C'è da aggiungere che generalmente quando leggi di questo tipo vengono prorogate esse diventano definitive. Cosi è anche per la legge (``nuova'') sull'ordine pubblico in via di approvazione alle Camere. Con questo provvedimento si abrogano formalmente tutte le disposizioni della vecchia legge Rea

le, compresa la sua clausola di provvisorietà. E questa è indubbiamente un'abrogazione sostanziale!

La ``provvisorietà'' è in ogni caso un termine il cui significato nel linguaggio metaforico che sorregge la materia dell'ordine pubblico è complesso e va ben al di là del suo senso comune. E' il corollario di altri concetti che ne costituiscono i presupposti tanto inespressi quanto evidenti: l'"urgenza" e l'"eccezionalità", se si preferisce la "straordinarietà".

In sostanza si può dire che la fonte della disciplina dell'ordine pubblico inaugurata a partire dal 1975 è la "necessità".

Si sa come il rapporto tra necessità e legalità sia un rapporto sbilanciato, perché i rispettivi parametri di riferimento sono posti su piani diversi.

La necessità deriva dalla pretesa di poter valutare oggettivamente la realtà circostante e determinati fenomeni sociali patologici come eccezionali e quindi non passibili di essere affrontati con gli strumenti normativi ordinari; sono gli stessi fenomeni sociali eccezionali che forniscono le indicazioni per nuovi comportamenti ad opera dell'ordinamento, idonei a una loro regressione. Quindi il diritto della necessità è quasi ``nella natura delle cose''.

La legalità deriva invece dalla pretesa di un costante uniformarsi a modelli prescrittivi astratti e precostituiti, tendenzialmente inderogabili e incomprimibili (e questo è l'aspetto garantista della legalità).

La relazione tra necessità e legalità non può dunque essere una relazione di natura omogenea e paritaria, ma, per forza di cose, è una relazione di prevalenza; in cui, cioè, o è la necessità che si piega alla legalità o è la legalità che cede alla necessità.

Nella legislazione eccezionale in materia di ordine pubblico è facile accertare come si verifichi sempre la seconda ipotesi, anche se naturalmente il legislatore della necessità inevitabilmente si premura di dimostrare la perfetta compatibilità delle misure adottate con i modelli (costituzionali) di legalità. Possiamo tuttavia facilmente arrivare alla constatazione che la prima garanzia che viene a saltare nella disciplina eccezionale in tema di ordine pubblico è l'esigenza di tassatività prescritta a livello costituzionale. Quando si introducono nell'ordinamento provvedimenti eccezionali di ordine pubblico il dibattito e la polemica si focalizzano proprio sul nodo del rapporto tra legalità e necessità. Basta rievocare le discussioni che hanno preceduto e seguito l'approvazione della legge Reale per rendersi conto di ciò.

La risoluzione di questo rapporto è determinante anche per verificare le modificazioni che viene a subire la stessa forma di governo nel momento in cui gli apparati centrali dello stato si rafforzano e comprimono le autonomie (o in certi casi ad esse si sostituiscono) e con essa la relazione tra società politica e società civile; relazione che in regime democratico-liberale (lo Stato ``borghese'') è di contrapposizione o, per lo meno, di diversificazione. E quando si esprime (e si rileva) tale contrapposizione e diversificazione si può constatare appunto che c'è società politica e c'è società civile.

Ripensiamo al 1975, all'approvazione della legge Reale: chi non ha ancora in mente i movimenti d'opinione di dissenso e di consenso che si manifestarono, non solo in forma giornalistica, al di fuori dei partiti (cioè al di fuori della società politica)? Anche le cosiddette maggioranze silenziose non erano organizzazioni del consenso, costituivano un'espressione di diversificazione rispetto alla società politica, alle sue regole, ai suoi ritmi: erano anch'esse società civile.

Quando però questi fermenti di società civile non trovano collettori in cui essere rappresi e dunque essere rappresentati effettivamente ed entrare in qualche modo nel circuito decisionale, è la stessa società civile che si estingue. E' questa la conseguenza più grave quando si afferma il principio della necessità che in una spirale rapidissima, evolve presto nel principio dello ``stato di necessità''. Nel quale è estremamente difficile scoprire la società civile, e la stessa società politica perde la sua articolazione e viene a trasformarsi in consociazione politica.

3. E' questa la seconda fase dello stato di ordine pubblico in Italia che trova la sua espressione politica nella maggioranza di non-opposizione, la quale riconosce l'emergenza, ma non ne ha ancora definito i tratti, in quanto mancano ancora dei referenti oggettivi inconfutabili, cioè i gravi fatti eccezionali. O meglio, i fatti eccezionali ci sono, ma le forze dell'area di non-opposizione ritengono di non essere d'accordo sulla loro graduatoria. Che cosa si mette al primo posto: la disoccupazione giovanile, la crisi energetica, la salute della lira, il deficit degli enti locali, il problema dell'aumento della criminalità? La capacità di formulare una graduatoria con il consenso di tutti non significa altro che la proposizione di un programma di governo che, data l'eterogeneità degli aspiranti contraenti è di difficile definizione, se per programma di governo si intende naturalmente l'enunciazione ragionata di obiettivi strutturali determinati e di strumenti altrettanto determinati che ne consentano la reali

zzazione.

Se si ripercorre la cronaca del 1· governo Andreotti in questa legislatura si vede chiaramente che il momento di maggiore "unità formale" tra i partiti della maggioranza coincide con il momento di più grave "frattura sostanziale", proprio perché non sono stati individuati i presupposti che sorreggano tale unità e che la ``mozione programmatica'' certamente non fa nascere. La si rilegga oggi e la si riesamini nel suo articolato testo: non è difficile scoprire come i punti programmatici più puntuali e meno indeterminati riguardano proprio la questione dell'ordine pubblico e le proposte di modifica alla normativa allora vigente e ritenuta insufficiente.

Una volta che il principio di necessità si è imposto, esso opera su un piano costituzionale più vasto. Come si sa, gran parte della dottrina ritiene che il riconoscimento dello stato di necessità o di pericolo pubblico legittimi una formale sospensione dei diritti di libertà riconosciuti dal la Costituzione agli individui, ed ai cittadini in particolare, al pari di una dichiarazione di stato di guerra deliberata dalle Camere, anche se nulla di simile è scritto in Costituzione (G. Neppi Modona riprende questo tema su la Repubblica del 30 aprile 1978). Da alcuno si è addirittura sostenuto, poi, che la sospensione dei diritti fondamentali può essere disposta per decreto legge.

Ebbene il solo fatto di ritenere legittima tale ipotesi costituisce di per sé un agente di modificazione istituzionale. Si leggano con attenzione gli interventi non solo sulle riviste specializzate, ma anche, e forse soprattutto, sulla stampa d'opinione proprio in tema di ordine pubblico. Facilmente ci si imbatte nel seguente ragionamento: per evitare che si possa verificare la drammatica ipotesi sopra prospettata (e cioè la sospensione dei diritti fondamentali) bisogna tollerare (anzi approvare) con il consenso di tutti quelle leggi ordinarie che limitano ``alcuni aspetti'' delle libertà costituzionalmente garantite (di cui si assicura, però, di non volere intaccare la "sostanza"). Una traduzione fedele, ma più esplicita del ragionamento appena riferito potrebbe suonare così: tra le due ipotesi estreme di una completa espansione dei diritti di libertà e dei valori costituzionali e la dichiarazione dello stato di necessità (durante il quale essi vengono sospesi) esiste una gamma di spazi e di possibilità int

ermedie che possono e devono essere percorsi e coperti. I contenuti dei diritti costituzionali di libertà, o meglio delle norme che li prevedono e prescrivono, vengono ad essere scissi: in "sostanziali" (da salvaguardarei e in "secondari o marginali" che, data la situazione in atto, possono essere compressi (esiste in proposito tutta una fioritura di elaborazioni sulla elasticità e cedevolezza delle norme costituzionali...). Simili manifestazione di schizofrenia esegetica - che in un certo senso è figlia degenere dell'antica distinzione formulata dalla Cassazione tra norme costituzionali precettive e programmatiche (che il legislatore poteva eludere) (e dico figlia degenere in quanto la stessa operazione la si riproduce all'interno di disposizioni "sicuramente" precettive, nel momento in cui si assume che esse possono avere degli aspetti normativi meno vincolanti di altri) - non si fonda altro che sul riconoscimento del valore supremo della necessità.

Dunque la necessità è ad un tempo criterio determinante per interpretare le stesse norme costituzionali poste per limitare la discrezionalità del legislatore, e, ad un tempo, fonte imperativa per lo stesso legislatore ordinario. Con questa serie di passaggi si può pervenire al risultato che norme ordinarie non potendo essere d'attuazione costituzionale, assumono il rango di norme interpretative in senso restrittivo di valori costituzionali.

Tale stato di cose che riesce ancora a produrre qualche disagio permette di leggere singolari e imbarazzate asserzioni. Cito ancora una volta F. Mancini (Mondo operaio cit.) quando ammonisce che la legge Reale e il progetto in esame a Montecitorio ``possono dirsi costituzionalmente tollerabili sono svalutando la fortissima ispirazione garantista della Costituzione; che, per questo motivo, esse vanno lette con animo programmaticamente diffidente, fatte valere con la cautela di chi maneggia il tritolo e mantenute per così dire, sulla soglia del sistema, "un piede dentro e uno fuori", in attesa di venirne espulse''.

Ecco, l'idea che si possa semplicemente considerare l'ipotesi del ``piede fuori sistema'' ci fa comprendere la profonda antitesi tra stato di ordine pubblico e stato costituzionale. C'è da chiedersi se è davvero solo intellettualistica e ``astratta'' osservazione rammentare che la ragione storica dell'affermazione del costituzionalismo è stata proprio quella di non consentire a nessun piede (e in nessuna congiuntura) di travalicare i limiti posti a difesa delle libertà individuali e collettive.

4. La sublimazione della necessità a esponente supremo dell'ordinamento non altera solo i connotati della forma di stato, incide anche sul funzionamento della forma di governo e sulla ``forma'' dei rapporti tra i poteri dello stato, in concomitanza con l'aggregazione nell'area di governo di forze politiche storicamente e ideologicamente non convergenti.

Già si è ampiamente dissertato sulle caratteristiche della democrazia ``consociativa'', sul ruolo che in questo regime viene ad assumere il governo e il parlamento, sul significato della "centralità" del parlamento in un sistema di mediazione permanente. Si è anche rilevato che la stabilità del governo e della sua ``maggioranza'' dipende unicamente dal mancato esercizio da parte di ciascuna componente politica del suo potere di veto (da qui la pratica dell'astensionismo sui provvedimenti governativi, che ha contraddistinto l'atteggiamento di alcuni partiti, come il PSI, durante il 1· governo Andreotti). Non pare indispensabile in questa sede approfondire questa tematica; è opportuno, invece, ribadire ancora una volta la relazione di interdipendenza tra ``consociazione politica'' e necessità (altri la chiamerà poi ``emergenza'').

La necessità (o l'emergenza) costituisce l'ombrello protettivo di tutta la politica di governo e il governo da parte sua quotidianamente governa con gli strumenti propri ed eccezionali della necessità: la decretazione d'urgenza, pressoché in ogni campo.

Tale metodo è in effetti la più sicura forma di rapporto con le Camere, tra governo e partiti dell'area di non opposizione, in quanto rende possibile una più efficace pratica della mediazione in due tempi distinti: "prima" dell'emanazione dei provvedimenti d'urgenza provvisori e, "poi", al momento della loro conversione in legge.

E' evidente che in questo contesto ben scarsa può essere l'attenzione e la preoccupazione per la salvaguardia dei ``contrappesi'' che sono elementi costitutivi di uno stato democratico e pluralista che avrebbe dovuto trovare in sé, nel corso del suo sviluppo, i geni per una naturale evoluzione in uno stato strutturalmente qualificato da fondamentali elementi di socialismo, nella sua tendenza libertaria e autogestionaria.

Il regime consociativo ha prodotto (altri dirà che questi piuttosto sono i dati obiettivi che costringono alla formula e all'assetto dell'emergenza) una forse irreversibile compressione delle autonomie politiche, sociali e territoriali. Taccio, per economia di tempo, del rafforzamento delle oligarchie professioniste all'interno dei partiti: taccio della perdita del ruolo antagonista del sindacato (come è provato da quel dibattito che, come al solito, si svolge per metafore su ``autonomia e responsabilità'' del sindacato); taccio, a fatica, della trasformazione subita dal referendum. Del resto questi temi sono coperti da altre comunicazioni. Voglio invece accennare sia pure di corsa a un provvedimento ``congiunturale'' molto indicativo che ha quasi suggellato l'esaurirsi della seconda fase dello stato di ordine pubblico in Italia. Alludo al DL n. 946 del 29 dicembre 1977 (``Provvedimenti urgenti per la finanza locale'') che ha imposto nella disposizione di apertura il pareggio dei bilanci comunali per il 1978

e sancito nella disposizione di chiusura un'incondizionata responsabilità personale e solidale per gli amministratori degli enti locali. E' chiaro che questo provvedimento non può assolutamente essere valutato ``in sé'', semplicemente quale complesso di misure finalizzate al risanamento della finanza locale (nessuno nega l'esistenza del problema del deficit sempre più incontrollabile degli enti territoriali periferici!), ma deve essere inquadrato nel contesto della situazione istituzionale, nella dinamica del sistema politico, nella sua tendenza ad una centralizzazione progressiva. Che il risultato e, forse meglio, il costo del provvedimento sopra citato stiano nella quasi totale perdita di iniziativa economica e sociale dei comuni non è dato contestare. Lo svilimento dell'autonomia degli enti locali su cui negli anni '70 si erano fondate tutte le speranze ed i progetti di una democrazia partecipativa e diffusa, costituisce una delle più invalicabili barriere all'espansione ed allo stesso esprimersi della s

ocietà civile e all'allargamento della società politica.

5. Ed è proprio questo spegnersi della società civile che segna il passaggio alla terza fase dello stato di ordine pubblico in Italia, quella che stiamo drammaticamente vivendo oggi. Se G. Amato si preoccupa dello steccato tra società politica e società civile nello stato borghese, ahimè avrà ben magra consolazione nel verificare che nella presente situazione tale steccato non esiste più. Sta avvenendo esattamente l'opposto delle sue indicazioni: non è la società civile che penetra nella società politica, è la società politica che ha vinto la società civile!

Se guardiamo con quel minimo di lucidità, che oggi ci è consentita, alle conseguenze delle vicende di questi giorni, dobbiamo rilevare che sullo stato di necessità si è prodotta la stabilizzazione del sistema politico, nonché la sua normalizzazione. E' stato finalmente raggiunto un accordo formale e sostanziale sull'indirizzo politico del governo e della maggioranza che lo sorregge, la graduatoria tra i punti della mozione programmatica del 1977 si è finalmente precisata con la convergenza di tutti i partiti: al primo posto c'è la tutela dell'ordine pubblico, come problema da affrontare con assoluta priorità nel breve e nel medio periodo. Tutto il resto non rileva, o meglio rileva, ma non a livello di indirizzo politico concordato, ma quasi come materia di ordinaria amministrazione che, "data la situazione", viene svincolata da pressoché ogni controllo delle forze politiche della neo maggioranza e rilasciata alla discrezionalità e "autonomia" del governo (cioè della DC). Quando le sinistre potranno constatar

e i danni causati da questa dissociazione sarà forse troppo tardi. Chi non ha colto nell'intervista televisiva di fine aprile all'On. Andreotti la soddisfazione dello statista che può lavorare in pace e con profitto, al riparo da improbabili contestazioni e interferenze nel momento in cui tutta l'attenzione politica è rivolta al caso Moro?

La data del 16 marzo 1978 è davvero importante anche sotto il profilo istituzionale. E' stata l'occasione per un formale e solenne riconoscimento del ``nuovo corso'': il Presidente del Consiglio non ha rinunciato a riferire compiutamente sul programma politico concordato con le forze politiche di maggioranza (non certo entusiaste per i risultati raggiunti, tanto che alla vigilia del voto sulla fiducia al governo in casa PCI si parlava addirittura di astensione), ha semplicemente esposto gli obiettivi su cui da quel momento ci sarebbe stata intesa e quindi ``programma'': essenzialmente la tutela dell'ordine pubblico. In quel frangente il Presidente del Consiglio ha sì promesso che una enunciazione più puntuale e completa del programma di governo e una discussione più esaustiva sarebbe avvenuta nel momento dell'approvazione del bilancio dello Stato; questo naturalmente non è accaduto, il bilancio dello Stato è stato approvato ``con urgenza'', "data la situazione politica e d'emergenza", in tempi più brevi che

in passato e con una qualità e intensità di dibattito su cui è opportuno stendere un pietoso velo. Ma l'episodio serve definitivamente a confermare il tipo di esperienza costituzionale che stiamo attraversando. Esperienza che possiamo qualificare come ``autoritarismo consensuale'': proprio perché una società politica (sempre meno articolata) si è, come dicevo innanzi, imposta sulla società civile. La società civile, che per sua natura si esprime e vive con la sua complessità e con le sue contraddizioni, è stata ricomposta ad unità, al silenzio, anche se essa viene chiamata a manifestare la sua massiccia reazione indubbiamente spontanea contro il terrorismo. Si tratta veramente di un consenso nei confronti dell'attuale indirizzo istituzionale? Probabilmente sì, ma è un consenso emotivo, passivo, poco produttivo che non rimedia certo all'inefficenza dei servizi di sicurezza; è consenso ``indotto''. L'autoritarismo consensuale è infatti un autoritarismo "ansiogeno": si manifesta e si rafforza, cioè, nel momento

in cui produce e diffonde ansie con i formidabili strumenti di persuasione e di comunicazione di cui può disporre; provoca nei cittadini sensazioni di impotenza e di alienazione; si rafforza e si espande monopolizzandolo il dibattito e l'informazione sul tema dell'ordine pubblico e della sua gestione. Da qui la ricerca di un incondizionato consenso emotivo, funzionalmente non partecipato e nemmeno fecondo di democrazia negli apparati che, anzi, si chiudono ancora di più. La gente in questa situazione si convince fondamentalmente di aver poche chanches di impegno politico e civile; la scelta è infatti tra la casa (cioè il proprio privato) e la piazza (un rito di massa per rendere testimonianza, ma non per decidere).

La tendenza, come si è già considerato, è verso la progressiva semplificazione degli strumenti di partecipazione e di concorso alla ``determinazione della politica nazionale'' (come richiede l'art. 49 della Cost.) e verso la chiusura degli apparati politici oligarchici e professionali. Uno dei rischi più gravi in tale frangente è anche il coinvolgimento degli stessi gruppi politici di minoranza e di alternativa - quelli che più direttamente sono stati espressi dalla società civile e che hanno trovato il loro insediamento sociale facendosi portatori di istanze di liberazione (liberazione dalla necessità). Coinvolgimento nella logica dell'emergenza, magari nell'istante in cui ad essa questi gruppi reagiscono e si oppongono all'uso della politica della necessità per la trasformazione costituzionale, ma ne adottano, nel contempo, al loro interno (ed a volte anche all'esterno) il metodo e i ritmi eccezionali. Ecco che allora il rapporto tra partiti e collettività inclina al verticalismo, non è più dialettico, ma,

eventualmente, di "risposta a domanda".

In questo quadro ben si colloca, ad esempio, l'enunciazione della Corte Costituzionale (nella sentenza che ha restrittivamente interpretato i presupposti per un legittimo ricorso al referendum abrogativo), laddove essa afferma che il principio democratico, un corretto esercizio della sovranità popolare esigerebbe che i cittadini debbano essere chiamati a votare "solo" su quesiti univoci, semplici e chiari. La pretesa di ridurre ad unità la complessità dei problemi e dei bisogni espressi dalla società civile non è che un'ulteriore manifestazione di quell'autoritarismo consensuale e ansiogeno che va progressivamente guadagnando spazio nella comunità.

6. Anche oggi, senza alcuna indizione formale, è in corso nel paese un grande referendum (anzi plebiscito) corale formulato proprio secondo i canoni dell'"univocità, semplicità, chiarezza", plebiscito a cui non pare lecito sottrarsi. Si chiede quotidianamente a tutti di rispondere perentoriamente a un appello di fiducia nei confronti dello Stato, che, in verità, non può essere altro che una richiesta di fiducia verso il governo di questo Stato. Il tema è un ulteriore rafforzamento degli apparati repressivi dello stato a tutti i livelli, onde poter adeguatamente fronteggiare i crimini di una banda che sembra vantare, secondo stime proposte dalla stampa, non più di 1500 adepti.

Una risposta negativa comporta la marginalizzazione, la quasi automatica espulsione dal sistema, se non l'accusa di complicità. Ciò che in uno stato costituzionale fedele a se stesso è un grave problema di polizia, ma sempre un problema di polizia, nello stato di ordine pubblico diventa la principale e assolutamente prioritaria questione di governo e di stato.

Il dilemma, tanto inutile e mistificante, che sembra avvolgere tutta la società politica verte sulla "querelle" quotidiana (ancora G. Neppi Modona su La Repubblica del 30 aprile) dell'atteggiamento che lo stato deve assumere per non ``riconoscere'' nemmeno ``implicitamente'' l'associazione a delinquere a cui la stampa dedica ogni giorno le prime pagine, e di quali iniziative devono essere evitate per non dare l'impressione di una debolezza dello stato.

A pochi è sorto il dubbio che il ``riconoscimento'' che tanto preoccupa c'è già stato, ed in maniera anche abbastanza esplicita, e precisamente nel momento in cui l'ordinamento della Repubblica italiana è stato piegato alla logica della necessità e delle leggi eccezionali, nel momento in cui si è affossata la riforma carceraria e si sono, in particolare, predisposti istituti penitenziari speciali, con l'implicita classificazione dei detenuti e riservando loro un trattamento differenziato, proprio come avviene in situazioni di belligeranza. Quale forma di riconoscimento può dunque essere più palese di questa?

 
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