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Rodota' Stefano - 7 aprile 1978
L'ANTAGONISTA RADICALE: (20) La sinistra, la crisi e l'uso delle istituzioni
di Stefano Rodotà

SOMMARIO: Gli atti del convegno sullo statuto e sull'esperienza del Parito radicale che si è svolto a Roma all'Hotel Parco dei Principi nei giorni 5, 6 e 7 aprile 1978.

("L'ANTAGONISTA RADICALE" - La teoria e la prassi del partito nuovo, socialista e libertario; e lo statuto e l'esperienza del PR nella società e nelle istituzioni - Convegno del consiglio federativo del Partito Radicale - Roma, aprile 1978)

Stefano Rodotà

LA SINISTRA, LA CRISI E L'USO DELLE ISTITUZIONI *

Avete appena ascoltato due analisi molto rigorose dell'uso che la sinistra è andata facendo delle istituzioni; rare volte negli ultimi tempi avevo sentito su punti chiave come quello dell'ordine pubblico e della partecipazione (mi scuso del ritardo, se non posso citare quelli che erano intervenuti precedentemente) analisi tanto puntuali, anche se non sempre completamente persuasive, almeno per quanto mi riguarda.

La mia impressione è che, sul tema di cui avete sentito enunciato il titolo ``la sinistra, la crisi e l'uso delle istituzioni'', in queste settimane la possibilità di una analisi persuasiva delle tendenze che vanno percorrendo la sinistra è divenuta più difficile: per una serie di ragioni, in parte legate agli avvenimenti del caso Moro e in parte a dinamiche più generali, con radici in situazioni ben anteriori a quello che è avvenuto il 16 marzo. Sta di fatto che, quale che sia la diagnosi, all'interno della sinistra abbiamo avuto una divaricazione sempre più intensa e marcata di strategie istituzionali, sicché un titolo unitario come quello che ho scelto pone vari problemi.

Particolarmente forte è la tendenza a concentrare l'attenzione su ciò che i due maggiori partiti della sinistra tradizionale, il Partito Comunista e il Partito Socialista, sono venuti facendo: e mi sembra d'altra parte indispensabile, se non altro perché con varia intenzione e con diversa fortuna questi due partiti hanno fatto il tentativo di proporre all'opinione pubblica progetti di cui fosse riconoscibile la strategia istituzionale. E' chiaro che molto più modesto era il programma a breve termine del Partito Comunista, all'interno del quale era facilmente leggibile l'intenzione di recuperare nel modo più largo possibile tutte le potenzialità delle istituzioni vigenti e dunque un annuncio di quella linea che poi è stata perseguita - sulle cui modalità tornerò tra un momento - cioè la forte identificazione con le strutture dello Stato, almeno con il disegno quale veniva proposto dalla Costituzione, che poi ha caratterizzato la linea del Partito Comunista e soprattutto le sue polemiche nei confronti di una s

erie di critici della linea del partito. Diverso l'atteggiamento del Partito Socialista, che ha proposto un progetto che era l'esatto opposto di quanto il Partito Comunista aveva fatto con il suo programma a breve termine: tanto quest'ultimo appariva realistico e legato all'attualità, tanto l'altro appariva utopico e proiettato nel futuro.

Se io volessi usare la terminologia che i cronisti sportivi usavano qualche anno fa - non so se la usino ancora - direi che il Partito Socialista aveva gettato il cuore oltre l'ostacolo. Solo che quello che abbiamo visto negli ultimi tempi mi dà l'impressione che, gettato il cuore, il partito poi davanti all'ostacolo si sia fermato. Perché? Perché l'analisi contenuta nel progetto (a parte le valutazioni che potevano farsi su punti specifici, ma qui non credo che sia il caso di insistere) rivelava una strategia che portava ad accentuare una serie di elementi critici nei confronti dei due interlocutori che quel progetto si era scelto: il Partito Comunista da una parte, il sistema del potere democristiano dall'altra. Solo che i comportamenti concreti, oltre che le analisi e le dichiarazioni, hanno portato a una forte accentuazione della polemica nei confronti del Partito Comunista e ad atteggiamenti assolutori nei confronti del sistema del potere democristiano, con una divaricazione a mio giudizio preoccupante

per ciò che riguarda la stessa strategia da adottare infatti una delle critiche, di breve respiro ma significativa che da parte socialista erano state in vario modo rivolte alla linea del compromesso storico era quella secondo cui per questa strada o come suo necessario presupposto si sarebbe comunque giunti ad una assoluzione del sistema di potere democristiano, che avrebbe poi avuto due effetti: quello di indebolire la strategia della sinistra e di rendere nei fatti più debole la stessa tesi dell'alternativa.

Ecco, nel momento in cui da parte dei responsabili del nuovo corso socialista la polemica anticomunista è stata poi accompagnata da atteggiamenti dichiaratamente assolutori del sistema di potere democristiano, ciò non poteva non comportare anche forti indebolimenti e della critica alla linea del compromesso storico e alla linea della alternativa. Questo è un punto molto importante e, se lo riferiamo a ciò che è avvenuto negli ultimi due mesi, certamente non può essere considerato secondario nell'uso che la sinistra è andata facendo delle istituzioni; perché ha portato a una scarsa identificazione della linea politica socialista con alcuni dati che pure dal progetto avrebbero dovuto ricevere molto maggiore considerazione. Prendo, per semplificare in modo rapido e percepibile da tutti, la linea seguita sul problema dei referendum dove, tra le affermazioni del progetto e la pratica concretamente seguita in questi mesi, c'è un abisso tale da consentire le più varie riserve.

Fatta questa premessa, che mostra quanto gravi siano le divaricazioni all'interno della sinistra, quanto contraddittorie si vadano manifestando le linee concretamente attuate, rispetto alle enunciazioni programmatiche pure ambiziose degli ultimi tempi, ciò che vorrei provare a fare qui non è già una analisi complessiva di processi o una indicazione di strategie possibili, perché l'una mi sembra assai faticosa in questo momento e le seconde francamente sono al di là delle mie possibilità. Ritengo però che in questo momento si vadano manifestando una serie di atteggiamenti e una serie di segnali che sono tutt'altro che trascurabili, che modificano in misura a mio giudizio non lieve il quadro che abbiamo alle spalle e ci consentono quindi anche di sottrarci a certi limiti o a certi rischi di una analisi tutta statica della situazione istituzionale.

A mio giudizio, e non solo a mio giudizio, il 16 marzo è avvenuta effettiva mente una svolta rilevantissima sul piano istituzionale. Ritengo che su questo si debba tornare a mettere l'accento, al di là di quelle che possono essere le ovvietà di cui è stata seminata la discussione di queste settimane, anche perché se noi guardiamo ciò che il 16 marzo ha già significato in termini di comportamenti tenuti o possibili dello schieramento di sinistra, ci accorgiamo che ci sono molti fatti nuovi di cui dobbiamo tenere conto e dai quali sarà condizionato l'uso che la sinistra, nelle sue vari articolazioni, riuscirà poi a fare o a non fare delle istituzioni.

Per comodità da una parte mettiamo il Partito Socialista e il Partito Comunista, dall'altra le diverse altre articolazioni che la sinistra presenta. So quanto ci sia di arbitrario in tutto questo, ma io questa distinzione la faccio, per rapidità se non altro, perché questa seconda fascia, di sinistra non identificabile con i due grandi partiti, ha subito immediatamente un contraccolpo molto forte dagli accadimenti del 16 marzo, con una espropriazione profonda di una serie di possibilità di intervento e di poteri reali che pure fino al giorno prima qualche possibilità di manifestazione ancora conservavano.

Vorrei esemplificare con una vicenda che, a mio giudizio, ha un significato a suo modo esemplare. C'è un argomento proprio della sinistra non storica, relativo ai provvedimenti presi con il decreto legge del 21 marzo. Essa dice che c'è poco da scandalizzarsi del fatto che questi provvedimenti siano stati presi, dal momento che la loro grandissima parte, se non la totalità, era già iscritta negli accordi di luglio tra i sei partiti dell'allora maggioranza delle astensioni. Tutto questo è vero, ma chi guarda alle dinamiche istituzionali non si può accontentare di questi confronti testuali; perché se è vero che quei provvedimenti erano già iscritti nella loro letteralità, se non nella loro sostanza, nel programma di governo, con l'attributo della urgenza, è pure vero che fino al 16 di marzo non erano, se io non vado errato, neppure stati iscritti all'ordine del giorno di una delle due assemblee; anzi. Questi provvedimenti, presentati con il carattere della urgenza, non furono presentati alla Camera prima del 18

di ottobre dell'anno scorso: dunque tra il luglio e il momento della presentazione erano passati ben quattro mesi e altrettanti ne erano passati dopo, quando interviene il decreto legge del 21 marzo.

Che ci dice tutto questo? Se noi vogliamo dare una rappresentazione, non dico di maniera, ma conforme anche ad alcuni atteggiamenti gladiatori assunti all'esterno, della volontà della grande maggioranza che sosteneva il passato e il presente governo, dovremmo concludere che quei provvedimenti potevano essere rapidamente messi a punto e rapidamente approvati in sede parlamentare. Se tutto questo non è avvenuto, le ragioni possono essere varie. Una, la inefficienza delle istituzioni, la lentezza degli uffici legislativi dei ministeri, la macchinosità del procedimento legislativo. Una seconda ragione: l'esistenza di fratture all'interno della maggioranza. Una terza: l'esistenza di una opposizione diffusa nella società, tale da impedire la immediata realizzazione del progetto pure iscritto a chiare lettere negli accordi di luglio. La mia valutazione è che non sono tre spiegazioni che si escludono, ma probabilmente sono concorrenti. Ma quale è stato il risultato dei fatti del 16 marzo? E' stata immediatamente eli

minata la inefficienza interna al sistema burocratico, sono state composte le fratture all'interno della maggioranza di governo, è stata messa a tacere la possibilità di opposizione sociale a quei provvedimenti. Questo è un dato indubbio, con il quale dobbiamo fare i conti.

Ci troviamo cioè in una situazione - se vogliamo esaminare gli elementi istituzionali - in cui le possibilità di espropriazione dell'opposizione sociale sono indubbiamente cresciute, le possibilità di ricomposizione interna delle fratture della maggioranza sono cresciute, la possibilità di superare anche inefficienze tradizionali degli apparati burocratici o resistenze degli apparati democratici sono state superate attraverso quella singolare forma istituzionale che è la riunione degli esperti dei partiti di maggioranza che mette a punto un tato recepito senza mediazioni; questa è una differenza molto forte per chi conosce i precedenti dei governi di centro-sinistra: "recepito senza mediazioni dal governo". Cioè, questa volta il lavoro degli esperti governativi è il lavoro di fiduciari politici, che tagliano il circuito precedentemente interrotto dalle burocrazie ministeriali e che aveva rappresentato un forte fattore di freno o comunque di filtro di proposte negli ami precedenti. Io sto registrando un fatto

, questo del decreto del 21 marzo, la Reale-bis, questi sono fatti oggettivi: un tipo di mediazione che in passato esisteva non c'è più. E in più c'è, per una ragione di scelta che voi potete facilmente immaginare, un atteggiamento passivo di registrazione da parte del governo, che assume quindi la pura funzione di tramite tra i rappresentanti della maggioranza e le assemblee parlamentari, spinte a un tipo di lavoro che voi ben conoscete.

Questo impone, per chi ha problemi di strategia istituzionale, qualche questione in più o diversa rispetto alla situazione precedente. Io qui non voglio insistere su fatti che sono stati già ampiamente illustrati nelle due comunicazioni precedenti, in particolare il significato complessivo istituzionale che assume la strategia in materia di ordine pubblico o gli strumenti ancora utilizzabili per l'azione diretta dei cittadini, indicati prima da Panebianco. Io farei a questo punto una domanda soltanto. E' chiaro che molti canali rimangono oggi assai meno agibili che in passato. La domanda che io qui propongo o la proposta che formulo è questa: negli ultimi tempi, se è vero che una serie di azioni dirette sono state bloccate, che una serie di azioni dirette erano più domande di partecipazione che partecipazione realizzata, che la presa di vertice dei partiti su realtà e su organizzazioni di base sia andata facendo più forte, è altrettanto vero che in una direzione che può apparire modesta, ma non trascurabile

nel momento in cui una serie di spiragli sembrano chiudersi, nella direzione giudiziaria, dal canale giudiziario, sono in qualche momento venuti segnali di tipo diverso.

Ad esempio, con quella che tecnicamente è una questione tutt'altro che risolta, il riconoscimento ad una serie di associazioni di base non dotate di quei presupposti giuridico-formali che sono tipici delle persone giuridiche; l'ingresso in giudizio riconosciuto a entità del tutto spontanee e non istituzionalizzate da parte della magistratura è un fattore sul quale io richiamerei l'attenzione. Non dimenticherei infatti che una serie di movimenti legati alle iniziative di base, una serie di tentativi di tutela di interessi collettivi sono nati, tra la fine degli anni '60 e l'inizio degli anni '70, anche perché hanno trovato questa forza di legittimazione da parte del canale giudiziario. Oggi anche lì si manifestano diverse chiusure e molte resistenze, ma quello giudiziario è un potere diffuso, rispetto al quale l'opera di normalizzazione è più difficile che in altri settori.

Passiamo a quelle che sono state le modifiche relative ai comportamenti dei partiti della sinistra istituzionale. Qui la valutazione indubbiamente è più difficile, perché è fortemente condizionata, non nascondiamocelo, dal giudizio politico che viene dato sulle linee assunte in occasione della gestione della questione Moro, al trattativismo o al non-trattativismo che ha ispirato l'azione dei vari partiti. Io dò una mia personale lettura di una parte di questa vicenda sulla quale direi che, se non altro per ragioni difensive, è opportuno insistere. E cioè che l'affermazione di una linea di fermezza istituzionale, il richiamo alla invalicabilità delle indicazioni legislative, il rifiuto di interpretazioni giustificazioniste o manipolative rispetto a ciò che talune norme prescrivevano, può essere oggi assunto come un'indicazione generalizzata. E perché deve e può essere assunto come una indicazione generalizzata? Perché il presupposto da parte degli stessi assertori di questa linea di ``fermezza istituzionale''

è la negazione della "eccezionalità" del caso Moro, intesa cioè come eccezionalità che giustifica deroghe a un sistema istituzionale ben definito nelle sue linee. Dunque se l'eccezionalità non c'è, quella è una linea di cui viene recuperata integralmente la potenzialità - se volete - garantista; c'è una contraddizione evidente tra chi ieri gridava contro il garantismo e chi oggi chiede, per sé o per giustificare la propria linea, una interpretazione fortemente garantista del quadro complessivo.

Questo è un altro dato di cui noi dobbiamo obiettivamente tenere conto: secondo me va fatto rilevare, sarebbe se non altro tatticamente sbagliato non rilevarlo: vi è contraddizione tra l'interpretazione stretta e rigida di talune norme della Costituzione (che a giudizio di chi sosteneva questa linea, si opponevano alla trattativa), e l'interpretazione elastica, manipolativa di norme della Costituzione che invece riguardano diritti di libertà e che venivano piegate alle esigenze del giorno per giorno, per giustificare proprio gli strappi al tessuto costituzionale apportati con le norme in materia di ordine pubblico, decreto 21 marzo o Reale-bis che dir si voglia. La contraddizione è ancora più evidente quando l'irrigidimento interpretativo riguarda norma contenute in leggi ordinarie, la disinvoltura interpretativa riguarda invece principi costituzionali; questo è un dato di cui credo che si debba tener conto, e che sarebbe sbagliato sottovalutare, mettendo tutto nel conto della eterna doppiezza che soprattutt

o il Partito Comunista avrebbe manifestato in una situazione come questa.

Quali altri elementi però vengono fuori in queste settimane, come corollario di questa indicazione, per ciò che riguarda - direi - soprattutto l'azione delle forze partitiche storiche? Due indicazioni, sulle quali io credo che bisogna francamente richiamare l'attenzione: la prima, la linea della revisione o della riforma o della razionalizzazione (qui ne avete già sentito parlare) degli apparati pubblici nel senso della restituzione di maggiore efficenza a questi apparati; la seconda la linea della semplificazione al vertice stesso dello Stato. Due linee che evidentemente non si escludono affatto, potendo la seconda essere considerata niente altro che una manifestazione più larga e comprensiva del primo orientamento.

Mi spiego, soprattutto relativamente al secondo punto, quello della semplificazione. E' troppo presto per generalizzare impressioni o segnali ancora molto modesti, ma a mio giudizio due non possono essere trascurati. Uno non viene dal mondo della sinistra; viene dal mondo imprenditoriale, però è troppo rilevato, è troppo pieno di fiducioso riferimenti a ciò che il Governo farà, per non trovare all'interno delle forze politiche organizzate (e qui evidentemente mi riferisco soprattutto alla Democrazia Cristiana) qualche interlocutore già oggi. Di cosa si tratta? In poche parole, lo sapete già. La Confindustria in due momenti almeno ha avanzato la proposta di passare ai privati i sevizi pubblici inefficenti, la richiesta di eliminazione del controllo dei prezzi nella linea di smantellamento dei cosiddetti lacci e lacciuoli imposti all'impresa.

Ma in questa linea c'è un giudizio su queste istituzioni che non si differenzia (se io volessi usare un'espressione paradossale) dalla valutazione che ne danno quegli ambienti di sinistra estrema che ritengono che non solo queste istituzioni non siano recuperabili, ma che non sia possibile restituire nessuna razionalità all'insieme di istituzioni pubbliche, quali che esse siano, per ciò che riguarda il governo della economia, cioè un rifiuto totale delle istituzioni per ciò che riguarda il settore di competenza specifica del mondo imprenditoriale. Che c'è dietro questo? C'è nient'altro che la richiesta che lo Stato torni ad essere nulla più che il gestore dell'ordine pubblico. Dunque un ulteriore elemento che non deve essere sottovalutato perché, al di là della modestia almeno apparente delle richieste, la linea di smantellamento dei vincoli all'impresa, presentata all'inizio come una pura pretesa di razionalità, si trasforma in una richiesta di diversa razionalizzazione delle istituzioni. E nel momento in c

ui la sinistra si fa, essa, carico di un progetto di razionalizzazione, questo segnale venuto dal mondo imprenditoriale a mio giudizio non può essere trascurato.

Un altro elemento io vorrei segnalare: è un problema che si connette fortemente, per esempio, con ciò che diceva alla fine della sua comunicazione Angelo Panebianco. Io ho - devo dire con molta perplessità, per non usare altri termini - percepito il segnale che veniva lanciato la settimana scorsa alla conclusione del pezzo settimanale su ``Panorama'' da Giuliano Amato, la proposta esplicita cioè di introduzione di un sistema elettorale alla francese. Questa è una proposta che ha una sua evidente logica, ma anche alcuni precisi sbocchi, quando evidentemente un discorso di questo genere non appare riducibile, limitabile soltanto al sistema elettorale ma investe la razionalizzazione del vertice dello Stato, che è negli obiettivi e nei programmi espliciti o impliciti della sinistra.

Anche questo è un elemento da tenere nel conto. Perché qual è la conclusione che se ne ha? Le intenzioni possono essere più o meno buone e pure, forzare verso l'alternativa, l'obbligo dell'alterativa. Le conseguenze a livello istituzionale, però, le conosciamo e sono un indubbio rafforzamento se non indicazioni di tipo presidenzialistico. Guardiamo a ciò che è accaduto in questo dopoguerra in Paesi europei diversi dall'Inghilterra (dove tra l'altro, come voi sapete, l'analisi del bipartitismo e del sistema elettorale si è venuta svolgendo in questi ultimi anni nel senso di salutare proprio gli effetti sulla partecipazione politica, la conflittualità e la complessiva rappresentatività del sistema stesso con conclusioni, in tutte queste direzioni, fortemente negative).

Ma non è su questo che volevo insistere, perché mi sono preso già troppo tempo; vorrei insistere su un altro punto: noi siamo di fronte a talune richieste di semplificazione forzata della complessità sociale. Niente più e niente meno dell'accettazione della diagnosi di chi sostiene che anche sul terreno istituzionale abbiamo in questi ultimi anni vissuto al di sopra dei nostri mezzi: la risposta è una semplificazione forzata, Badate, non è una novità: le modifiche del sistema elettorale, il rafforzamento dell'esecutivo, il presidenzialismo latente, sono state la prerogativa dell'ingegneria costituzionale (se ancora è lecito usare questa espressione) alla fine, soprattutto, degli anni '60; una ingegneria costituzionale, diciamo così, dichiaratamente di destra e rispetto alla quale molte critiche e molte ripulse vennero in quegli anni.

L'ingegneria costituzionale ha trovato adepti nella sinistra, e a mio giudizio a giusto titolo quando questa ingegneria costituzionale non era la contrapposizione altrettanto a freddo di progetti di sinistra a progetti di destra ma quando, come è avvenuto soprattutto agli inizi degli anni '70, rappresentava un tentativo di riflessione della sinistra rispetto alla ricchezza di indicazioni istituzionali che provenivano dalla spontanea elaborazione della società. Molti dei progetti (che ho sentito qui giustamente criticare come mistificanti, come tentativi di cattura, come espressivi della volontà dei vertici dei partiti di mettere la mano sulla spontaneità sociale) avevano una valenza che io non sottovaluterei, soprattutto in un momento come questo in cui tocchiamo con mano i rischi dei progetti di semplificazione, che obbligavano i partiti a esercitare la loro iniziativa istituzionale anche su questi terreni: in modi ben diversi e comunque tali da scongiurare in quel momento, se non altro, il ricorso a proget

tazioni istituzionali di quel tipo. Per due ragioni: perché erano in sé contraddittori con progettazioni istituzionali di tipo semplificatorio, e secondo perché bene o male dovevano fare i conti con dati che non erano assunti da una progettazione a freddo, ma provenivano appunto da quella che era la reale dinamica della società.

Ora noi ci troviamo dinanzi al rischio di una inversione di tendenza di questo tipo, e dunque a un uso delle istituzioni che tende a semplificare la complessità sociale. Prima ancora di valutare il significato istituzionale di questo progetto, ne metterei necessariamente in evidenza il potenziale politicamente dirompente che porta con sé. Torno un momento al discorso della Confindustria: nel momento in cui si volesse veramente perseguire fino in fondo il disegno liberista della Confindustria e si liberassero i lacci e lacciuoli d'impresa (che poi vanno dal controllo dei prezzi ad alcune norme dello statuto dei lavoratori, dal diritto di informazione del sindacato fino alla possibilità di controlli pubblici) è evidente che ci troveremmo di fronte a una serie di conflitti che hanno origine nell'impresa, ma non hanno più nessuna possibilità di composizione nel sistema delle relazioni industriali e vengono restituiti pari pari a una gestione del conflitto sociale con strumenti di ordine pubblico. Una semplificaz

ione dunque che si paga, per chi pensa che questo sia un prezzo, con un'identificazione - ancora una volta - delle strategie istituzionali con la politica dell'ordine pubblico.

Il mio timore è che anche le proposte di semplificazione o di razionalizzazione del sistema elettorale, o dei vertici dell'esecutivo, portino con sé lo stesso tipo di rischio. Perché una semplificazione che per intenderci obblighi a un primo o a un secondo turno, all'identificazione con due partiti soltanto, porta con sé la chiusura di tutta una serie di canali politici; e quando la impossibilità di accedere al Parlamento, di trasmettere domande politiche attraverso i partiti viene enormemente rafforzata, evidentemente si determinano altri motivi di conflitto che non sono mediabili altrove: nel senso che non credo che sia possibile arrivare nella situazione italiana a un sistema del tipo: larghe autonomie, larghi spazi di autogoverno di base, estrema semplificazione per la rappresentanza politica.

Credo che questo sia un progetto in sé contraddittorio, e che la scelta di progetto di semplificazione di vertice necessariamente porta, in un'ottica di ricomposizione, alla negazione poi delle stesse possibilità di autogoverno. E' dunque ancora una volta una semplificazione che genera conflitti e respinge la logica istituzionale sul terreno dell'ordine pubblico.

Secondo me i problemi sono quelli di vedere, nella fase attuale, quali sono gli strumenti più praticabili per accrescere quella fluidità complessiva del sistema alla quale ho sentito alludere precedentemente e sulla quale non ritorno. Ci sono forti contraddizioni nelle proposte; nelle linee istituzionali che provengono dalla sinistra storica. E' un caso, è un accidente, è un'astuzia? Io dò sempre un'analisi, io cerco sempre di fare un'analisi, che tenga conto delle forze reali: non è né un accidente, né un'astuzia, né un caso, è semplicemente il riflesso di fortissime contraddizioni esistenti all'interno di questi partiti. Per cui riterrei, e questa è la mia conclusione, che chiunque sta all'interno della sinistra e non si dà carico di queste contraddizione e ripiega su interpretazioni totalizzanti e consolatorie degli atteggiamenti di qualsiasi partito della sinistra, quale che esso sia, sceglie egli stesso una strada di semplificazione istituzionale, che può essere un boomerang, i cui effetti oggi è diffic

ile valutare.

 
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