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Strik Lievers Lorenzo - 7 aprile 1978
L'ANTAGONISTA RADICALE: (22) Prospettive dell'alternativa e politica delle alleanze
di Lorenzo Strik Lievers

SOMMARIO: Gli atti del convegno sullo statuto e sull'esperienza del Parito radicale che si è svolto a Roma all'Hotel Parco dei Principi nei giorni 5, 6 e 7 aprile 1978.

("L'ANTAGONISTA RADICALE" - La teoria e la prassi del partito nuovo, socialista e libertario; e lo statuto e l'esperienza del PR nella società e nelle istituzioni - Convegno del consiglio federativo del Partito Radicale - Roma, aprile 1978)

Lorenzo Strik Lievers

PROSPETTIVE DELL'ALTERNATIVA E POLITICA DELLE ALLEANZE

Può sopravvivere, ha ancora un senso il Partito Radicale? Sono domande legittime se si tien conto della crisi che ha colpito due aspetti di fondo della sua impostazione tradizionale. Da un lato infatti sembra aver perso ogni credibilità l'ipotesi dell'ununità delle sinistre in vista dell'alternativa; ed è l'ipotesi che il PR ha sempre posto al centro della propria azione, e in vista della quale ha sempre deciso e promosso la proprie battaglie. Dall'altro, l'isolamento intransigente del PR all'opposizione contro la quasi totalità delle forze politiche rende impraticabile la via che tante volte gli ha assicurato il successo: ché tutte le vittorie radicali - spesso eccezionali vittorie - sono state realizzate costruendo, benché sempre attraverso lotte durissime, alleanze sulle singole battaglie con uomini, gruppi e partiti, e per questa via creando maggioranze in parlamento e nel paese - mentre oggi la durezza dello scontro frontale fra i radicali e gli altri brucia le possibilità di convergenze parziali.

Non si delinea forse, così, l'immagine di un partito privo di una proposta strategica plausibile e impotente ormai, a differenza che in passato anche a strappare riforme specifiche - come del resto starebbero a dimostrare alcune innegabili sconfitte da esso subite negli ultimi anni? A questa stregua davvero il problema dei rapporti con il resto della sinistra, il problema delle alleanze, assume il rilievo di questione capitale per il Partito Radicale.

In realtà, come è ben noto, le relazioni fra il PR e quelle forze della sinistra comunista e socialista cui in primo luogo esso rivolge il suo appello unitario sono sempre state difficili e tese. Non è difficile individuarne le ragioni di fondo.

Innanzitutto, il PR reca in sé un ``carattere originario'', la cultura politica liberale, del liberalismo rivoluzionario e libertario, che non ha mai cessato di improntare e strutturare la sua azione politica. Nei suoi fondamenti, nei suoi principi e nei suoi riflessi il PR è stato sempre un partito profondamente ``occidentale'', che contesta gli equilibri di potere e di classe delle democrazie occidentali in nome dei valori più alti espressi dal loro sistema politico. Di qui la profonda, intima insofferenza nei confronti dei radicali e di quella gran parte della sinistra italiana che si ispira ai valori del marxismo comunista - anche nei casi in cui si sono verificate parziali convergenze. Lo stesso rifiuto del terzaforzismo e della discriminante anticomunista, lo stesso progetto dell'unità di tutta la sinistra, comunisti compresi, i radicali li hanno espressi - quando ancora ``democratico'' e ``anticomunista'' suonavano sinonimi nel linguaggio di tanti filocomunisti attuali - proprio perché solo così si po

teva dare concretezza di progetto al principio tutto liberale e occidentale dell'alternanza; progetto e principio estranei a quelli che il PCI, coerente con la propria ispirazione politica, perseguiva e persegue. Fin dagli inizi del centro-sinistra, insomma, alla base del rifiuto dei radicali interlocutori stava il fatto che insieme agli obiettivi dell'unità e dell'alternativa della sinistra, essi proponevano quello del suo rinnovamento secondo valori che la cultura comunista e la strategia e le prassi socialiste respingevano.

Inoltre, i radicali hanno sempre concepito i rapporti tra sé e gli altri partiti come rapporti tra pari e uguali - se non in forza, in dignità politica; non hanno mai accettato, quali che fossero i rapporti di forza, una condizione di subordinati. Questa è stata da un lato una delle ragioni maggiori della loro efficacia - perché il rifiuto di piegarsi, nelle idee, nelle analisi, nelle iniziative, ai conformismi prevalenti consentiva loro di cogliere elementi della realtà italiana che ad altri sfuggivano, di portare contributi di lotta davvero originali, creando spesso occasioni inattese di arricchimento, unità e forza per tutta la sinistra. Dall'altra parte però il non adeguarsi, subendole, alle esigenze strategiche e tattiche delle altre forze, infinitamente maggiori e più autorevoli, il muoversi guastando stesso i loro giochi determinava necessariamente uno stato permanente di conflitto; tanto più in una sinistra in cui la regola tradizionale dell'unità era quella frontista, fondata sull'indiscussa egemoni

a comunista, e che alle componenti minori di estrazione non marxista riservava il ruolo melanconico degli obbedienti indipendenti di sinistra.

Con tutto ciò, o meglio in forza di tutto ciò, in molte e decisive occasioni i radicali sono riusciti a far sorgere momenti di unità; di un'unità, però, ``diversa'', laica, prefigurazione affascinante di altre, più durature e decisive unità possibili. E non per nulla quelle esperienze, oltre a consentire successi per tutta la sinistra, sono state fra i fattori maggiori di crescita comune.

Oggi questo non sembra più possibile. Privo di spazi per convergenze o alleanze, il Partito Radicale ha ancora una prospettiva e una funzione? Per tentare una risposta occorre cogliere almeno alcuni elementi significativi della situazione italiana odierna.

La prima considerazione che si impone è che, nonostante le apparenze, non siamo affatto più lontani dall'alternativa oggi di quanto non lo fossimo qualche anno fa, quando molti ne parlavano e molti la pronosticavano ormai alle porte. La verità che occorre pur dire è che in questi anni l'alternativa in tempi brevi non è mai stata veramente possibile. I rapporti di forza reali nella società, i condizionamenti internazionali, la natura del nostro sistema politico, i caratteri del PCI di fatto non avrebbero mai consentito a una sinistra che avesse conquistato più del 50% dei voti di governare da sola. Così, pur prescindendo da ogni giudizio negativo o positivo, non si può negare che la grande coalizione rappresenti una svolta storica di grande portata: con essa, per la prima volta in oltre un secolo di storia unitaria - a parte il periodo eccezionale dell'immediato dopoguerra - i partiti rappresentanti le classi subalterne entrano nell'area del governo; ed è probabilmente vero che - al di là delle sue forme e de

i suoi esiti specifici - l'attuale costituiva l'unica via possibile, una sorta di passaggio obbligato, per un primo accesso delle sinistre al potere.

A questo si è giunti anche attraverso e in virtù di un profondo processo di trasformazione della sinistra stessa. In particolare il PLI ha saputo promuovere e subire una modificazione in profondità di se stesso, dei propri modi di essere, aprendosi agli apporti più disparati, raccogliendo eredità, spinte e istanze di ogni tipo provenienti dalla società, riplasmandosi su di esse, e traducendole però negli schemi della propria specifica cultura (primo cardine della quale rimane la supremazia del partito sulla società). Per questa sua duttilità, lo rende tanto diverso da altri partiti comunisti, esso ha effettivamente accolto - come non riconoscerlo? - molte delle istanze e degli appelli che nei duri anni quaranta e cinquanta gli rivolgeva la miglior cultura democratica e socialista; ma nello stesso tempo ha raccolto, dagli umori di una società tanto segnata dalla eredità e dalle dinamiche clericali, confessionali e corporative, con i loro autoritarismi e cinismi, motivi di tutt'altro segno che ben possono coni

ugarsi con aspetti del retaggio stalinista. Certo, comunque, nella sua sensibilità realistica esso è giunto ad accantonare, a lasciar cadere e deperire nei fatti - nei comportamenti e negli obiettivi concreti - perfino la stessa finalità del socialismo, almeno nell'accezione della via per eliminare lo sfruttamento di classe attraverso la socializzazione dei mezzi di produzione; giacché ormai, in una realtà sociale come quella italiana, non è più quello l'ideale, il mito cui guardano le grandi masse lavoratrici e proletarie.

Gli sviluppi politici attuali, così, presentano insieme aspetti positivi e negativi. La sinistra, il PCI per la prima volta davvero ``si fanno stato'', si pongono nell'ottica non più solo di condizionare il regime, ma di assumersi la responsabilità, i diritti e gli oneri del governo almeno a pari titolo delle forze ``borghesi''; e in pari tempo si vengono legittimando in tale ruolo agli occhi dell'opinione pubblica interna e internazionale. Con ciò, lo si è già osservato in molte sedi, matura una premessa indispensabile a rendere possibile, quando e qualora ce ne fosse la volontà politica, l'alternativa di sinistra; e in questo senso il fenomeno non può non essere salutato con soddisfazione.

Ma questo stesso processo reca in sé anche ben noti fattori di tutt'altro valore: le spinte conformistico-autoritarie, neppure compensate da un incremento di efficienza, derivanti dalla scomparsa dell'opposizione: l'esaltazione dei riflessi di intolleranza tradizionali del PCI; la soffocante occupazione della società da parte dei partiti, sintesi della pratica lottizzatrice-clientelare democristiana e dell'ideologia comunista della supremazia del partito; il rischio, sempre più realtà, del ``corrompersi'' della sinistra nell'abbraccio con la DC e del suo perdere credibilità e legittimità come soggetto alternativo. Ed è concreto il rischio che l'incontro fra il ``realismo'' comunista e quello democristiano si risolva nella sintesi fra l'abitudine trasformistico-democristiana di assicurare il compromesso di governo evitando le scelte, rinviando, affidandosi al gioco anarchico e demagogico del saccheggio del potere pubblico ad opera dei più forti, da una parte: e dall'altra la prassi ad essa speculare della cop

ertura progressista, perché sindacale, a una miriade di corporativismi paralizzanti: prassi che, benché contraddetta oggi da molti comportamenti dei comunisti, fa pur parte del loro bagaglio tradizionale e non è l'ultima loro ragione di forza. Del resto gli sforzi del PSI per conquistarsi una posizione autonoma, per quanto efficaci possano risultare ai fini di un rafforzamento del partito, per quanto appaiano effettivamente il frutto di una consapevolezza nuova nel gruppo dirigente del PSI, sono lungi dall'aver fatto emergere per ora processi aggregativi, costumi e contenuti politici davvero alternativi, dei quali quindi sia il caso di tener conto qui.

L'altra fondamentale considerazione da fare è che l'equilibrio della grande coalizione, comunque, appare fortemente instabile. Sono vivi e si moltiplicano nella società conflitti che in questo quadro politico di universali convergenze non riescono a trovare sbocco e rappresentanza, e perciò tendono a destabilizzarlo. Inoltre è nelle cose un riemergere, sia pur nell'ambito della coalizione, di una conflittualità fra DC e PCI per determinare a quale dei due debba toccare l'egemonia sostanziale nella fase storica che si apre; e anche il PSI va impegnandosi a fondo per aumentare il proprio peso. Si può dunque prevedere senza difficoltà che la situazione entrerà presto in movimento. In quale direzione? Difficile dirlo; non si può nemmeno escludere il delinearsi di meccanismi di alternanza....

Certo, in ogni modo, i dati degenerativi presenti oggi sono destinati a proiettarsi anche sugli sviluppi futuri; ed esistono forti probabilità che il nuovo assetto veda quella che uscirà come forza egemone tentar di controllare con strumenti di nuovo autoritarismo la caotica crisi italiana. Non ci si può nascondere infatti che la richiesta forse maggiore che sale dal paese e cui le forze politiche, oggi e domani, dovranno in qualche modo dare una risposta è una domanda di ordine. Domanda che, al fondo, non va tanto e solo contro la delinquenza politica e comune, quanto contro il generale disordine corporativo-clientelare che in trent'anni di dominio democristiano ha permeato l'intera società, e del quale quella delinquenza forma semmai la punta emergente, e quasi il simbolo. A questa domanda le grandi forze politiche, oggi coalizzate, domani magari avversarie, sanno però tutte quante rispondere, e di fatto rispondono, solo nei termini di un ``serrate le fila'' che equivale a un serrarsi del funzionamento nor

male delle istituzioni: il popolo legiferante direttamente attraverso il referendum, il parlamento, persino il governo vengono espropriati dei loro poteri, e gli affari pubblici vengono gestiti direttamente dai partiti, anzi dai comitati partitici e interpartitici sempre più segreti e ristretti; i quali espropriano persino gli espropriatori, gli organi statutari dei partiti. E il risultato reale è un sommarsi di autoritarismi a ulteriore disordine e a ulteriore paralisi.

Solo i radicali in sostanza, tra le forze politiche, indicano con i comportamenti oltre che a parole una strada alternativa, quella di un ordine da conquistare facendo funzionare davvero le istituzioni, dunque garantendo e ampliando gli spazi di libertà. Senza di loro resterebbe concretamente in campo solo il tipo si soluzione sin da ora incarnato nella prassi, negli istituti e nelle dottrine proprie del sistema politico italiano. Che certo non si può far conto, in vista dell'affermarsi di una tendenza efficacemente alternativa, solo sui movimenti spontanei di opposizione che pure, nell'una o nell'altra forma, già sorgono e di sicuro sorgeranno dalla società civile nei prossimi mesi ed anni contro le dinamiche di regime. E' assai elevata la probabilità che, ove non incontrino il punto di riferimento e di appoggio di una forza portatrice di un'impostazione alternativa adeguata, essi non arrivino a contrastare con la forza, la coerenza e dunque l'incisività necessarie le tendenze espresse dai grandi centri di

potere; o magari prendano la piega di una contestazione non tanto delle degenerazioni di regime, quanto del la logica democratica.

Dopotutto, abbiamo già conosciuto l'esperienza di tanti movimenti anche grandiosi e imponenti sorti a partire dal '68 che, rimasti in termini di cultura politica sostanzialmente subalterni ai modelli del populismo cattolico o comunista, hanno finito per bruciarsi, senza riuscire a diventare veri protagonisti, o antagonisti, sulla scena italiana. Di contro sappiamo quale importanza abbia avuto nel promuovere e tradurre politicamente le grandi spinte di laicizzazione e di progresso di questo decennio, la presenza di un gruppo come quello radicale, rimasto per molti anni non solo isolato e numericamente insignifcante, privo di rapporti organici con forze sociali organizzate, ma talmente estraneo agli idoli ovunque prevalente da figurare, più che controcorrente, "demodée"; e forte però della sua caparbietà nel tenere fermo a una scala di valori che gli ha consentito di impostare una politica nonviolenta delle istituzioni e nelle istituzioni a suo modo fortissima nel la realtà italiana.

Tutto ciò porta a comprendere appieno il senso, l'importanza essenziale della presenza del PR anche oggi, e quali drammatiche conseguenze avrebbe una sua scomparsa, la sparizione dalla scena della proposta cui esso dà corpo. Se saprà resistere, raccogliere consensi, irrobustirsi nell'opposizione, quando gli attuali equilibri si rimetteranno davvero in movimento e i giochi si riapriranno il PR costituirà un punto di riferimento essenziale. E dato il tipo di tensioni che, latenti o scoperte, s'accrescono ogni giorno nella vasta area della sinistra storica, in quella della sinistra nuova e rivoluzionaria e in altri ambiti e settori della società, esso potrà di nuovo, e ben più ampiamente, farsi il perno di alleanze che costituiscano la grande componente laica, liberatria e liberante, anti burocratica e socialista del l'alternativa; la quale allora sì diventerà un obiettivo realisticamente perseguibile.

Perché ciò avvenga, perché questa possibilità per la sinistra e per il paese rimanga aperta, occorre però che i radicali sappiano segnare ora con gran forza la propria posizione. In condizioni certo ogni giorno più difficili si tratta in fondo di restare fedeli all'atteggiamento tradizionale: cioè di andare avanti con rigore nella propria linea, non temendo scomuniche, scontri, lacerazioni e accuse d'essere irresponsabili e provocatori, non esitando, per una fase, ad esser soli contro tutti, destinati perciò magari anche a perdere delle battaglie. Che è quel che fanno giorno dopo giorno, con fatica ormai anche umanamente ardua, i deputati radicali alla camera: ai quali, come al PR in genere, verrebbe invece subito riconosciuto uno status rispettabile se, come altri della cosiddetta opposizione di sinistra, subissero la strategia altrui accontentandosi di esprimere qua e là garbato e civile dissenso, e anche votando - perché no? - contro il governo, ma senza mai disturbare sul serio il ``grande disegno''. Ciò

che, non occorre aggiungerlo, comporterebbe la fine di ogni funzione e utilità del PR stesso.

Della necessità di affrontare in questi termini, oggi, lo scontro politico, e con questa posta in gioco, nel partito c'è sostanzialmente consapevolezza. Di qui nasce la capacità che esso ha dimostrato di serrare le fila, di superare momenti anche difficili di tensione interna: a tutti era ed è ben chiaro che una tale determinazione unitaria costituisce una condizione indispensabile perché il partito possa cimentarsi con i compiti di ogni senso gravosissimi che ha di fronte. Ma se su questo piano oggi il PR è adeguato alle necessità, resta aperto il problema se lo sia da un altro, decisivo punto di vista.

Perché il PR possa attraversare in modo positivo questa fase dura e pesante, perché regga alla prova e possa sin d'ora far crescere controspinte di libertà opposte alle tendenze autoritarie in atto, e giungere domani a farsi nuovamente cardine di efficaci alleanze, è necessario che acquisisca in tutte le sedi capacità di lucidità, fantasia e rigore tali da poter essere ovunque motore di iniziativa politica. Il suo problema, a questa stregua è quello di stimolare la crescita ovunque, e non soltanto al centro, di gruppi a pieno titolo dirigenti, e non più soltanto moltiplicatori di iniziative altrui. Da questo obiettivo, occorre riconoscerlo, si è ancora lontani. Il partito questo problema non se lo è mai posto, subordinandolo sempre ad altre urgenze, spesso effettivamente preminenti e vitali; ma è mia profonda convinzione che, purché si sia ancora in tempo, esso debba ormai sentirlo e affrontarlo come fondamentale e indilazionabile.

 
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