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Bresso Mercedes - 7 aprile 1978
L'ANTAGONISTA RADICALE: (26) I radicali e l'economia
di Mercedes Bresso

SOMMARIO: Gli atti del convegno sullo statuto e sull'esperienza del Parito radicale che si è svolto a Roma all'Hotel Parco dei Principi nei giorni 5, 6 e 7 aprile 1978.

("L'ANTAGONISTA RADICALE" - La teoria e la prassi del partito nuovo, socialista e libertario; e lo statuto e l'esperienza del PR nella società e nelle istituzioni - Convegno del consiglio federativo del Partito Radicale - Roma, aprile 1978)

Mercedes Bresso

I RADICALI E L'ECONOMIA

In varie occasioni molti compagni si sono interrogati ed hanno interrogato il partito sul perché i radicali si occupano così poco di economia. Questo problema è ormai ricorrente nei nostri congressi, al punto che molti ne escono con un senso di perplessità e di frustrazione.

E' bensì vero che i radicali di vecchia data ricordano spesso le battaglie contro la corruzione del parastato (l'ENI), o quelle contro il patrimonio immobiliare e le evasioni fiscali del Vaticano, o ancora il progetto di riconversione delle strutture militari in strutture civili (che avrebbe evidenti riflessi economici), ma credo non si possa negare la realtà dello scarso impegno del partito sui temi centrali dell'economia del nostro paese, su cui al contrario gli altri partiti sembrano accentrare la propria battaglia politica.

Senza voler cercare di dare delle ``interpretazioni autentiche'', che non mi spetterebbero, credo che una prima ragione vada ricercata nell'impostazione che il Partito Radicale ha dato alle proprie lotte in base ad una precisa analisi della società italiana. Noi abbiamo sostenuto, che quella italiana è una società corporativa, in cui allo scontro diretto fra le parti sociali si sostituiscono la mediazione politica e la spartizione dei vantaggi fra gruppi di pressione, in cui spesso anche la conflittualità del sindacato diventa ``rituale'' in attesa dell'intervento politico, e in un ceto medio enormemente sovraddimensionato riesce a strappare quote crescenti di privilegi con l'adottare la prassi e il linguaggio operaistico e barricadiero, ben sapendo di non avere di fronte un padrone ma un cliente politico facilmente ricattabile.

Da questa analisi, che non è possibile approfondire in questa sede, deriva la nostra convinzione che dalla corruzione e dall'immobilismo si esca solo introducendo nel corpo sociale degli ``elementi di conflittualità'' che spacchino il paese in due ``parti politiche'', progresso e conservazione, e creino le condizioni per una gestione del potere delle forze di sinistra, non insieme alla Democrazia Cristiana, ma con quest'ultima all'opposizione.

Noi abbiamo ritenuto e riteniamo che, proprio per le caratteristiche corporative della società italiana, quelli economici non fossero i temi adatti a creare questa contrapposizione e che essi andassero ricercati in battaglie che, come quelle sui diritti civili, consentissero di contrapporre un'Italia moderna, laica, occidentale ad un'Italia cattolica e conservatrice, ancorata ai valori di una civiltà patriarcale e contadina. Le battaglie sul divorzio, aborto, referendum, hanno dimostrato che. effettivamente c'era nel nostro paese una maggioranza progressista e che questo tipo di lotte contribuivano a farla emergere. Se ripensiamo a quelli che sono stati i principali temi di discussione e di lotta politica in campo economico di questi anni (nazionalizzazioni, programmazione, mezzogiorno, riconversione industriale) ci rendiamo conto della difficoltà per una forza politica di estrema minoranza di far esplodere delle contraddizioni su temi così articolati e di difficile comprensione per il grande pubblico, su cu

i solo la sinistra nel suo complesso avrebbe potuto portare avanti delle posizioni vincenti e che invece ha lasciato svuotare di ogni significato nel momento in cui ha scelto la via della mediazione e dell'accordo.

Dei grandi temi del dibattito economico degli anni sessanta e settanta avremmo potuto - e in qualche caso abbiamo fatto - fare nostri soltanto quelli relativi alla denuncia degli scandali, al sacco urbanistico delle città, al furto e allo spreco di denari pubblici. Tuttavia questo è stato il tema su cui maggiormente si è impegnata la cosiddetta ``area radicale'', rappresentata dall'opinione pubblica e dalla stampa laica e progressista; un ulteriore impegno del partito avrebbe avuto scarso significato, soprattutto se si considera che l'inefficienza della magistratura ha finito per svuotare, nei fatti, di significato queste battaglie. Troppi ``ladri di stato'' circolano tranquillamente, malgrado le infinite denunce, perché sia ancora politicamente possibile trascinare l'opinione pubblica su questi temi.

Ma c'è - io credo - una motivazione più profonda, una convinzione che si è andata formando in questi anni di lavoro a contatto con la gente e soprattutto con i giovani. E' stata bene messa in luce dall'intervento di Rosanvallon. Si tratta della "crisi dell'egemonia dell'economico nella società", del ruolo dominante cioè che l'economia ha avuto finora nella società contemporanea sotto l'influenza congiunta della cultura capitalistica e della cultura marxista.

Il rifiuto del primato dell'economia su ogni altro aspetto della vita collettiva sta oggi dilagando in tutto il mondo occidentale. Anche se in maniera spesso confusa e acritica i giovani cominciano ovunque a rifiutare i valori ``sacri'' della società capitalista: consumi, lavoro, primato dell'industria, mobilità, velocità, urbanesimo, concentrazione, grande dimensione, spreco istituzionalizzato. Si cercano modelli di vita diversi, si riscoprono modi di produzione ``superati'', si ricercano una manualità e un contatto con la materia che l'uomo della società industriale stava perdendo. L'evoluzione del movimento ecologista dai temi tipicamente ``protezionistici'' a quelli che investono il complesso dell'organizzazione sociale e produttiva è un sintomo ed una indicazione di tendenza.

I radicali sono stati probabilmente i primi, in Italia, a intuire prima ancora che a razionalizzare questa vera e propria svolta nelle speranze, se non ancora nei comportamenti, della gente. La frase cara a Marco Pannella: ``politique d'abord'', intesa proprio come primato della politica delle idee sulla politica della pagnotta, è in questo senso significativa. Oggi, malgrado la crisi economica e l'emergenza (che tendono a diventare permanenti in mancanza della volontà politica di agire colpendo gli interessi che è necessario colpire) dobbiamo riuscire a rifiutare il ricatto che consiste nel sostenere che tutto va rinviato, anche i progetti e le speranze, al momento in cui la crisi sarà superata. E' proprio. nei momenti di crisi che si gettano le fondamenta del nuovo. E ci sono alcuni aspetti di questa crisi che possono essere affrontati con la metodologia e la prassi radicali e che investono il campo dell'economia nel senso della ricerca di cui si parlava.

Sono i temi del lavoro e delle lotte ecologiche, su cui a mio avviso dovremo cercare di costruire un patrimonio di pensiero e di iniziative intorno al quale incentrare la nostra battaglia politica dei prossimi anni.

Il tema del lavoro non è certo assente dal dibattito politico in Italia; tuttavia, nel mare delle lamentazioni e delle idee inconsistenti, le due proposte più interessanti sono venute dalla ristampa di un vecchio libro di Ernesto Rossi, "Abolire la miseria" (che affronta in maniera suggestiva il problema di una ``leva del lavoro'' per produrre e fornire socialmente a tutti il minimo necessario per una vita civile) e dalla proposta di Benvenuto (evidentemente più legata all'attualità) di aprire la discussione sulla riduzione a 35 ore degli orari di lavoro. Certo bisognerebbe andare più avanti e, in questo senso, la distinzione di Rossi fra lavoro obbligato (il minimo indispensabile) e lavoro libero è importante, così come è essenziale l'idea della ripartizione fra tutti del carico dei lavori più sgradevoli.

Fin d'ora e da oggi si può cominciare a progettare una organizzazione del lavoro che affronti problemi quali l'autogestione, la rotazione verticale e orizzontale, l'eliminazione dei lavori più monotoni e ripetitivi (è stato dimostrato che il montaggio potrebbe essere fatto dagli stessi utilizzatori nel tempo libero), il riportare larghi settori della produzione nella sfera non mercantile mediante l'istituzione di laboratori di quartiere e di corsi per l'apprendimento delle più elementari tecnologie. Si potrebbe continuare, ma altri lo hanno fatto o lo stanno facendo. Quello che conta è riuscire a dare voce e corpo politico a queste esigenze che sono ormai sentite da tutti ma che troppo spesso sono bollate come ``utopie''.

Al tema del lavoro inteso come ripensamento di tutta la sua organizzazione si collega strettamente quello dell'ecologia. I temi dell'energia pulita delle tecnologie dolci, del risparmio di risorse, del rispetto della natura, devono essere necessariamente collegati ad un progetto di società alternativa quale quella postulata da una diversa organizzazione del lavoro e della produzione.

Si tratta di trovare i temi e i modi di lotta trainanti. L'antinucleare è un esempio significativo di come queste idee dilaghino in tutta Europa. Sottolineare la valenza europea delle lotte ecologiche è anche un modo di rispondere alla più ovvia e frequente delle obiezioni, quella dell'impossibilità per un solo paese di scelte che modificano profondamente i meccanismi della concorrenza internazionale. L'Europa è oggi una grande speranza, le elezioni del parlamento europeo possono costituire una tribuna per i movimenti che vogliono cambiare la qualità della vita. Il coordinamento delle proposte e delle iniziative consente infatti di rispondere ai governi dei singoli paesi. L'Europa può osare quello che un singolo paese non potrebbe.

 
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