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Boato Marco - 7 aprile 1978
L'ANTAGONISTA RADICALE: (28) Movimenti di massa, organizzazione politica e istituzioni
di Marco Boato

SOMMARIO: Gli atti del convegno sullo statuto e sull'esperienza del Parito radicale che si è svolto a Roma all'Hotel Parco dei Principi nei giorni 5, 6 e 7 aprile 1978.

("L'ANTAGONISTA RADICALE" - La teoria e la prassi del partito nuovo, socialista e libertario; e lo statuto e l'esperienza del PR nella società e nelle istituzioni - Convegno del consiglio federativo del Partito Radicale - Roma, aprile 1978)

Marco Boato

MOVIMENTI DI MASSA, ORGANIZZAZIONE POLITICA E ISTITUZIONI

Sono interessato a questo dibattito, e mi dispiace di non aver partecipato fin dal primo pomeriggio. Credo che non vi sia qui una questione di diplomatizzazione reciproca, di saluti, e neanche soltanto il fatto che abbiamo fatto insieme una serie di battaglie, l'ultima quella dei referendum. Ritengo che fosse una battaglia fondamentalmente giusta, quella dei referendum, che non si può limitare nei termini di unità d'azione. Se fosse una questione di unità d'azione, quella che si chiama volgarmente la tattica, evidentemente si potrebbe rimanere sul terreno diplomatico: ma credo che ci sia invece e senza enfatizzare una intersecazione profonda fra progetti strategici e anche concezioni politiche molto diverse, tra noi di "Lotta Continua" e il "Partito Radicale": tra progetti strategici diversi, tra radici teoriche diverse.

Voi non vi dichiarate, non siete, marxisti, anche se fate propria una parte, credo, del patrimonio del marxismo, almeno nel suo aspetto creativo e antiautoritario; noi non siamo radicali nel senso storico di questo termine, anche se specialmente in questi ultimi anni abbiamo riconquistato al terreno della lotta di classe, al terreno del marxismo, la necessità di un rapporto positivo con la tradizione migliore della democrazia borghese, inteso questo concetto in senso tecnico: e non soltanto a questo livello, diciamo molto alto, della teoria, ma anche per quanto riguarda questioni come quelle che ho sentito riprendere stamattina, cioè per esempio il rapporto tra personale e politico, tra trasformazione individuale e trasformazione collettiva; tra ciò che si riesce a realizzare di socialismo nella vita quotidiana, nella realtà, diciamo, del nostro arco storico di vita e ciò che si proietta sul futuro. Sono tutti temi che attraversano, che qualche volta dilacerano, credo anche positivamente, tutta la sinistra d

i classe, in modo particolare noi di Lotta Continua: mi ha fatto piacere perciò sentirli anche duramente e polemicamente ripresi qui dentro.

La seconda cosa che volevo dire riguardo la questione, il tema che io mi ero scelto: ``Movimenti di massa, organizzazione politica e istituzioni''. Dirò soltanto poche cose, il tema è vastissimo, evidentemente. Noi viviamo oggi, e lo dico pubblicamente perché è cosa nota, una profonda crisi di trasformazione e un dibattito interno travagliatissimo, che facciamo per fortuna alla luce del sole, senza bisogno di comunicati clandestini e neanche di nessuna diplomatizzazione. Non voglio raccontarvi i fatti nostri, ma credo che questa cosa sia importante dirla qui, perché credo che sia il sintomo di un processo di trasformazione del rapporto fra rivoluzione, fra processo rivoluzionario, intendiamolo in senso ampio, di trasformazione radicale della società, e rapporti di produzione, Stato, istituzioni e individui.

La crisi della concezione del processo rivoluzionario, come storicamente ci è venuta dal movimento operaio ufficiale, dal movimento comunista internazionale e come negli anni anche recenti, dal '68 in poi, l'abbiamo vissuta noi con la rottura anche rispetto al passato, ma anche con la recezione di alcuni elementi del passato, la crisi di questa concezione del processo rivoluzionario determina inevitabilmente - secondo me giustamente - una crisi profonda anche dei modelli organizzativi. Voi avete il tema del partito, dello Statuto, dei modelli organizzativi: che non sono una questione di tecnica dell'organizzazione, ma sono strettamente inerenti al modo con cui ciascuno concepisce il rapporto tra la propria trasformazione individuale, la trasformazione collettiva dei suoi compagni, dei compagni che con lui combattono la lotta, e la trasformazione collettiva dei larghi strati sociali, di massa. Questa è una crisi di carattere, mi si passi il termine enfatico, epocale: cioè non è in crisi "Lotta Continua"; è in

crisi un intero bagaglio storico, sostanzialmente un secolo della storia del movimento operaio e del movimento comunista internazionale.

Chi ironizza per esempio sulle cose che filtrano fra le pagine delle lettere a "Lotta Continua" non si accorge che quello è uno specchio (evidentemente deformato nel senso che è parziale, non nel senso dell'autenticità) e che lì dentro c'è anche il Vietnam e la Cambogia, c'è anche quello che è successo in Cina negli ultimi anni, e le radici che inevitabilmente deve aver avuto nella fase precedente (non voglio parlare della Cina adesso); c'è la crisi della concezione non tanto e non soltanto di Lenin, ma di ciò che è diventato nella tradizione comunista il leninismo filtrato attraverso lo stalinismo. Non si accorge che questa è la crisi anche di tutto un modo economicistico falsamente materialistico, di una deformazione burocratica, dogmatica, catechistica, religiosa del materialismo, e che noi ne siamo attraversati forse perché siamo più esposti degli altri, non abbiamo eretto barriere, perché ci siamo lasciati contestare e attraversare, trasformare e disgregare per certi aspetti. Io non teorizzo mai la disg

regazione come fatto positivo, ma a chi ci diceva ``distruggete sempre tutto'' noi abbiamo sempre detto: ``E' proprio attraverso un processo di distruzione dell'esistente, che noi costruiamo la realtà futura'', il marxismo autentico in senso "laico" e non in senso religioso.

Tutto questo processo ha radici recenti, nel decennio, all'inizio del decennio che stiamo per concludere, nel decennio '68/'78, un decennio che invece Amendola ritiene rappresenti poco nella storia della lotta di classe nel nostro paese, per cui egli preferisce risalire al '60. Io ho uno straordinario rispetto e dò una straordinaria importanza alla svolta del '60, anti-tambroniana per intenderci, ma non vedo nella svolta anti-tambroniana una rottura nella tradizione del movimento operaio. Vedo una grossa capacità di mobilitazione anti-fascista militante di massa, che ha saputo sbarrare il passo a una svolta netta sul terreno istituzionale; il primo sintomo di rapporto tra anti-fascismo e lotta di classe.

Ma se vogliamo andare a vedere ciò che sta alla radice di quello che i teorici internazionali chiamano il caso italiano (e se esiste un caso italiano è perché c'è una diversità del tessuto sociale e di classe, istituzionale, politico, ideologico del nostro paese rispetto ad altri dell'occidente capitalistico) dobbiamo andare a trovare la rottura nel '68/'69. Non sono d'accordo con il compagno di "Critica Liberale", mi pare, che ha detto: il '68 era un fenomeno di dissenso borghese, e non perché a me faccia schifo il dissenso borghese; evidentemente c'è anche questo, ma è poco, troppo riduttivo dal punto di vista dell'analisi storica istituzionale e di classe. Lì noi possiamo vedere tre questioni.

Le indico, non le analizzo; primo, la nascita di nuovi soggetti sociali antagonistici. La formazione, la nascita e l'emergenza certo non vengono dal nulla, sono soggetti diciamo sotterranei nella trasformazione della società italiana, possiamo andare indietro a vedere nelle loro tendenze di fondo. Ma lì emergono, nuovi soggett sociali antagonistici, irriducibili alla logica della gestione capitalistica della economia, della società, e dello Stato. Poi si possono dire mille cose, come sono questi soggetti, come si caratterizzano, quali contenuti politici si danno, quali errori fanno quando si organizzano nel senso stretto del termine. Tutto questo è tema di dibattito, anche del dibattito di oggi, di cui, ripeto, voglio soltanto indicare la scaletta. La seconda questione è la crisi della rappresentatività istituzionale del movimento operaio ufficiale, della sinistra storica. E' la prima volta nella storia del movimento operaio italiano che c'è una crisi aperta. Non vuol dire che questa legittimità non rimanga,

sul terreno elettorale, sul terreno delle manifestazioni: guai a chi vede o a chi ha visto in passato (o si è illuso) precipitazioni verticali della base comunista del PCI o dello stesso Partito Socialista o del sindacato; guai a chi si è illuso di questo. Ma guai anche a chi non riesce ad andare a guardare un po' più in là dei presenti fenomeni di polarizzazione elettorale, a vedere cosa è successo nelle fabbriche, nelle scuole, nelle famiglie, nei quartieri eccetera; c'è questo stacco, questa rottura nella capacità di rappresentatività istituzionale e quindi anche ideologica, politica, economica del movimento operaio ufficiale; ed è determinata non da qualche giacobino nascosto nelle pieghe della società, ma proprio da questo profondo processo di trasformazione, dalla nascita di questi nuovi soggetti sociali, dall'incapacità della sinistra storica non di rappresentarli nel senso elettorale ma di rappresentarli, di esprimerli dal punto di vista più profondo, di quello che magari intendiamo a volte con un l

inguaggio un po' liturgico quando diciamo che abbiamo bisogno di comunismo, o chiamatelo come volete.

La terza questione, strettamente connessa a questa, è la faccia più propriamente istituzionale, la crisi della legittimazione dello Stato e della mediazione politica. Questo è l'altro aspetto della crisi italiana, del caso italiano che noi possiamo vedere alla radice del '68/'69. Uno Stato, che evidentemente non è mai legittimato in termini materialisti ed è uno stato di classe, eccetera, ma che attraverso la falsa coscienza, l'ideologia, la mediazione politico-istituzionale riesce a conservare se stesso, a radicarsi, a estendersi, a rafforzarsi, lì trova invece l'origine di quella crisi (che oggi passa attraverso il discorso - molto ambiguo - sullo ``sfascio delle istituzioni''). La crisi della legittimità dello Stato sta proprio là dove nascono soggetti sociali più ampi, più diversi, che hanno radici nei rapporti di produzione ma non sono nei rapporti di produzione: prima ancora di teorizzarlo mettono in crisi questo processo di mediazione politica.

E qui - usare il termine ``autonomia'' da qualche anno a questa parte diventa pericoloso - qui io affermo l'"autonomia". Da qui nasce l'autonomia dei movimenti di massa, cioè il fatto che a livello dei movimenti di massa non si chiede a qualcun'altro la legittimazione per la propria lotta, per la propria esistenza, per le ragioni della propria esistenza sociale e della propria espressione in termini di obiettivi, di bisogni, di programma, di forme di lotta. La trasformazione profonda della composizione di classe di una società a capitalismo maturo in crisi impedisce (a partire da qui, non a partire dalla teoria sull'organizzazione) la riedizione storica del modello leninista filtrato attraverso lo stalinismo. La crisi di questo modello di partito è determinata da questa riappropriazione della politica al livello di massa anche nel momento in cui si aggredisce il terreno delle istituzioni. In questi dieci anni della storia nostra, quello che è comune, anche, è proprio non il rifiuto di un rapporto con le isti

tuzioni, ma di lasciarsi mediare e rappresentare passivamente in modo delegato, là dove e quando noi vogliamo affrontare il terreno della trasformazione istituzionale, e lo affrontiamo magari molto più di altri che si riempiono la bocca delle istituzioni, che delle istituzioni fanno feticcio (e sul feticcio delle istituzioni oggi si trovano i cadaveri, per esempio).

Questo rende estremamente più complesso tutto il discorso sui movimenti di massa, l'organizzazione, eccetera. Perché per esempio ritorna quello che è un terreno veramente centrale dell'analisi marxista, cioè dei rapporti di produzione, con la centralità operaia: quella che si chiama la centralità operaia e che oggi non a caso il PCI scopre, nel momento in cui l'ha trasformata veramente in un feticcio ideologico e la nega nei fatti, non solo nel partito ma anche nella lotta di massa. Questa centralità operaia però fa i conti - ed è bene che faccia i conti, non è un limite nostro, della nostra società, ma è una ricchezza della nostra società - con altre centralità, con altri poli di contraddizione, per cui è difficile stabilire, se non su un terreno puramente economicistico, una gerarchia di priorità. Su un terreno di analisi economica c'è la priorità di rapporti di produzione; ma altrettanto è certo che quei rapporti di produzione hanno determinato questo tipo di sistema capitalistico e questo tipo di composi

zione di classe da cui emergono nuovi soggetti sociali, e quindi nuovi poli di contraddizione sociale, ideologica. Il femminismo non nasce da qui, ma attraversa tutto questo; il femminismo non nasce oggi, è una forma di espressione che ha radici più profonde, ma che in Italia ha quelle caratteristiche che ha proprio perché attraversa la trasformazione sociale, ideologica, di questo ultimo decennio. Pensiamo anche al rapporto generazionale: qualcuno ha ridotto le rivolte di massa a un conflitto padri/figli: è ridicolo. Ma un problema reale, che esiste, che i marxisti (quelli diciamo talmudici) sono incapaci di analizzare e di leggere, che nelle società a capitalismo maturo ha una sua specificità sociologica, nel nostro paese assume una connotazione anche di classe, anche politica, anche sociale, attraversa tutto il tessuto della fabbrica, si interseca profondamente con la contraddizione capitale-lavoro, proletariato-borghesia, con la contraddizione uomo-donna, e così via. Con tutto questo oggi si deve fare i

conti, quando si parla di organizzazione politica, di partito, di rapporto con le istituzioni.

Una complessità che è una ricchezza, che non è semplificabile e non si può violentare con modelli di tipo autoritario, anche all'interno dell'organizzazione della sinistra. Ed è paradossale, e questo lo butto lì così come accenno, è paradossale che gli economicisti della nuova sinistra, i potere-operaisti, quelli che oggi per certi aspetti sono sboccati su settori oltranzisti, diciamo così, dell'autonomia, ma per altri aspetti sono confluiti in massa nel Partito Comunista; che a metà degli anni sessanta teorizzavano l'economicismo più scatenato, facevano i libri da Einaudi (``Operai e capitale'' di Mario Tronti, con la fascetta: ``i giovani hegeliani all'attacco del capitale''), sono quelli che oggi teorizzano l'autonomia del politico, oggi che sono nel Partito Comunista, e che sono nello Stato; teorizzano l'autonomia del politico, cioè il simmetrico esatto dell'economicismo della metà degli anni sessanta, che soffocava l'autonomia dei soggetti sociali o era convinto di risolvere tutto con qualche formuletta

, appunto, di ``obiettivo non assorbibile'', come si diceva allora, economico, non assorbibile al sistema e per questo rivoluzionario (e che poi non era affatto rivoluzionario).

Una volta rimessa con i piedi per terra la realtà con cui abbiamo a che fare, oggi molto travagliata, drammatica, non si può non fare i conti, non si può, ancora una volta, esorcizzare tutta la questione delle istituzioni, dello Stato e del potere. Questi processi di trasformazione, se li potremo vedere e mi auguro che li potremo vedere fra venti, trenta, quarant'anni, li vedremo come processi molto magmatici, molto drammatici ma creativi; ma oggi quando li viviamo nella nostra coscienza, nella nostra storia, quando li viviamo anche attraverso il suicidio dei nostri compagni, attraverso la disperazione, non li possiamo analizzare puramente dall'esterno come intellettuali. Sono processi che distruggono sedimentazioni decennali della storia della sinistra, che per esempio, distruggono patrimoni, patrimoni in questo caso in senso negativo, cioè archetipi, vorrei dire, talmente compenetrati nella carne e nel sangue di ciascuno di noi, che quando esplodono portano anche al suicidio; e nessuno può penare di fare i

l cinico, dico per esempio, sui compagni di diciassette, diciotto, come di trent'anni, che vi arrivano anche, tragicamente, ma attraverso questo processo che è una dilacerazione storica gigantesca che attraversa le coscienze proprio perché attraversa la realtà storica.

Dentro tutto questo c'è la questione del potere, che non possiamo cancellare, perché è quella dello Stato. Una questione grosa, quella dello Stato, non feticcio in questo caso, ma dello Stato nella sua corposità, e questa questione dello Stato è al centro, per esempio, di problemi come quelli della lotta sul terreno dei referendum, contro le leggi speciali, contro il fermo di polizia, contro il rafforzamento dell'esecutivo, di problemi come quelli che citava ieri Rodotà, anche se poi sulle sue conclusioni non concordo.

E' la questione della crisi e della trasformazione dello Stato e della crisi e della trasformazione dello Stato dentro una crisi "italiana" che ha un condizionamento gigantesco nella crisi del '73,'74, nella crisi dei termini di scambio a livello internazionale e della crisi energetica, del petrolio ecc.; ma che ha altre due radici nell'antagonismo irriducibile delle lotte di massa nel nostro paese e nella crisi di un modello di sviluppo specifico del nostro paese. Non a caso, quelli che per anni si sono riempiti la bocca del nuovo modello di sviluppo come ideologia sulla classe operaia oggi non parlano più di nuovo modello di sviluppo, parlano semplicemente di ricostituzione del profitto del capitale, di priorità addirittura del profitto rispetto al salario. Gianfranco Borghini - della direzione del Partito Comunista, segretario regionale del Partito Comunista - addirittura su "Repubblica" dice candidamente: ``Ai nostri operai dell'Alfa faccio un po' di fatica a spiegare che devono prima mettere a posto il

profitto''. E grazie, caro compagno Borghini, che fai fatica a spiegarglielo!

Perché questo problema dello Stato è decisivo e non solo per esempio sul terreno delle leggi penali? Perché la crisi dai rapporti di produzione capitalistici, la crisi dei rapporti speciali, la crisi delle istituzioni, sono un insieme - l'uno per l'altro - del processo complessivo di trasformazione, di crisi di trasformazione della società italiana, che attiene a due ordini di problemi. Uno: quello che tecnicamente si chiama la valorizzazione del capitale, cioè il ruolo dello Stato in rapporto ai rapporti di produzione, in rapporto alla comune azione capitalistica. L'altro, quello che tecnicamente, diciamo così, nella letteratura anche recente sullo Stato, si chiama la legittimazione dello Stato. Oggi su questi due terreni la classe dominante, ma non solo la classe dominante, si trova a portare avanti un processo che io non chiamerei fascismo - non mi fa paura la parola, se fosse fascismo in senso tecnico, in senso storico, perché sennò il termine fascismo copre tutto - che è profondamente diverso dal fascis

mo del '22 in Italia, del '26 in Portogallo, del '33 in Germania, del '67 in Grecia, del '73 in Uruguay e in Cile, del '75 in Argentina,

l lager ci sono già in Italia, i carceri speciali, ma i lager come immaginiamo lo stadio cileno, non li avremo. Abbiamo invece sotto gli occhi un processo di trasformazione violento e selvaggio dei rapporti di produzione, un processo di trasformazione autoritaria sul terreno istituzionale. Per la prima volta, nella storia del nostro paese, ciò avviene non con una svolta a destra in opposizione a tutta la sinistra. Oggi per la prima volta ciò avviene con tutta la sinistra storica e col movimento operaio istituzionale all'interno di un processo di co-gestione (non lo dico in senso dispregiativo) di questo processo di trasformazione violenta dei rapporti di produzione: è una trasformazione di una violenza gigantesca: due milioni di disoccupati, lavoro nero, lavoro a domicilio, doppio lavoro, emarginazione; è pazzesco quale violenza sociale esprime questo processo di trasformazione selvaggia dei rapporti di produzione e di trasformazione dello Stato; ma oggi il fermo di polizia non si fa contro il PCI e il PSI,

si fa "con" il PCI e il PSI.

Diventa questione di ordine pubblico perfino la questione della ristrutturazione produttiva. Quando Lama dice: bisogna stroncare il terreno di nascita dei terroristi, in realtà non pensa alle Brigate Rosse; l'obiettivo, quando sulle pagine di "Repubblica" con linguaggio scelbiano (scusatemi il termine, ma il termine deve scusarsi lui di averlo usato) dice ``combistibile sociale'' e ``brodo di cultura'' delle Brigate Rosse, si riferisce al consiglio di fabbrica dell'Alfa e ai delegati della sinistra operaia dell'Alfa, che hanno rifiutato non la trasformazione dell'economia, ma un modello autoritario, violento, capitalistico, di trasformazione dell'economia. Certo, spazzando via la sinistra operaia dell'Alfa, non è che non rimane niente, arrivano le Brigate Rosse. Glielo hai creato tu il terreno, gli hai spazzato via la sinistra operaia di massa e lasci il terreno solo all'attentatore terroristico; facendo terra bruciata dell'opposizione radicale, dell'opposizione marxista, non clandestina, di massai glielo cr

ei tu il terreno, al terrorismo! Questo sul terreno economico. Sul terreno poliziesco, l'ordine pubblico poliziesco, c'è quello classico, diciamo, con le leggi speciali, le carceri speciali, la repressione e quello ideologico. Quando Sciascia è non il dissenziente, da cui si può dissentire a propria volta, ma è il complice, il fiancheggiatore del terrorista, quando Sciascia è il pericolo pubblico n. 1, è perché si deve portare l'ordine pubblico anche sul terreno dell'ideologia.

Sanguineti, sulla prima pagina dell'"Unità", scrive qualche mese fa che lui al consiglio comunale di Genova non capisce un cazzo, scusate il termine, di questioni di amministrazioni locali, però lui guarda il capogruppo del PCI, e se quello dice di alzare una mano lui alza la mano. E aggiunge: io non capisco niente, però alzo la mano. Fin qui va bene; ha ammesso di non capire niente e di alzare la mano; ma poi dice, ``mi sento sentinella dello Stato democratico'', trasformando perfino il consigliere comunale in una sentinella. Siamo sul terreno della ideologia!

Qualcuno chiama tutto ciò modello tedesco, altri no; non mi interessa il fatto che sia identico o no alla Germania, ma il modello di Stato che ne viene fuori. Se a livello dei rapporti di produzione due sono le questioni: la divisione rigida del mercato del lavoro, con i garantiti e i non-garantiti, gli occupati e i disoccupati, i sotto occupati e tutto il resto (le due società, su cui qualcuno poi ha teorizzato, sono il frutto di questo sistema capitalistico e di questo tipo di ricostituzione dei margini di valorizzazione del capitale); e l'abolizione della lotta di classe, non di quella terroristica evidentemente, ché non si pone questo problema, ma della lotta di classe antagonistica, pubblica, di massa, non clandestina, che va abolita, sul terreno dello Stato ci sono tre processi fondamentali, cui ho già accennato implicitamente. Quella che chiamiamo l'eversione costituzionale non è il fascismo, compagni, non è il colpo di Stato con i carri armati, è un processo molto più sottile, molto più articolato e

da questo punto di vista più pericoloso. Anche se io preferisco non avere a che fare con il fascismo alla cilena, se mi permettete, questo è un processo di eversione costituzionale: il sedicente arco costituzionale svuota dall'interno le garanzie costituzionali e i processi costituzionali, ed una costituzione borghese, come necessità storica per controllare un conflitto di classe che non riesce altrimenti a controllare: leggi speciali, confino, carceri speciali, rafforzamento dell'esecutivo, la corte costituzionale (la più di ``sinistra'' che ci sia mai stata nella storia del nostro paese) che fa la sentenza più anticostituzionale che ci sia mai stata nella storia del nostro paese, sulla questione dei referendum.

Questo processo di ``eversione costituzionale'' è necessario per chi porta avanti questo disegno, per chi oggi ne è direttamente protagonista insieme alla Democrazia Cristiana. E la criminalizzazione del dissenso. Anche qua, dire criminalizzazione è già essere un criminale, se uno usa il termine criminalizzazione è un crimine. Ma la criminalizzazione del dissenso e dei movimenti di opposizione di massa che non accettano di criminalizzarsi (c'è anche chi accetta di farlo) è una scelta tragica e suicida, che porta una passivizzazione delle masse. La terza questione è la militarizzazione dello scontro: non la militarizzazione di chi sceglie la lotta armata, ma la tecnica dello scontro militare contro chi questo scontro non lo vuole accettare, non vuole accettare questo terreno e viene militarizzato anche lui. Giorgiana Masi è un simbolo di ciò che è successo da due anni a questa parte nel nostro paese. Perfino a livello ideologico, c'è la militarizzazione: ci si rende ``l'onore delle armi'', si è su un fronte o

su quell'altro...

E allora si pone la questione che ho citato all'inizio: movimenti di massa, organizzazioni istituzionali, la capacità, per noi in modo dichiarato per voi in modo diverso, del "rapporto" tra, non della "eliminazione" di uno di questi aspetti: del rapporto tra lotta di classe e di massa, lotta di liberazione. Enzo, stamattina, mi pare diceva: lottiamo per il socialismo ai nostri figli; il suo intervento era sofferto, ma io dico che l'unico modo in cui oggi si possa lottare per il socialismo dei miei figli, dei nostri figli, è lottare per il socialismo oggi. Non c'è altra possibilità di sublimarci sul futuro, se non quello della lotta di classe, della trasformazione individuale e collettiva. Tutto il resto è pura consolazione, e non avranno il socialismo neppure i nostri figli...

 
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