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Ceccolini Laura - 7 aprile 1978
L'ANTAGONISTA RADICALE: (29) Partiti e società civile
di Laura Ceccolini

SOMMARIO: Gli atti del convegno sullo statuto e sull'esperienza del Parito radicale che si è svolto a Roma all'Hotel Parco dei Principi nei giorni 5, 6 e 7 aprile 1978.

("L'ANTAGONISTA RADICALE" - La teoria e la prassi del partito nuovo, socialista e libertario; e lo statuto e l'esperienza del PR nella società e nelle istituzioni - Convegno del consiglio federativo del Partito Radicale - Roma, aprile 1978)

Laura Ceccolini

PARTITI E SOCIETA' CIVILE

Si è molto parlato in questo convegno dello scollamento esistente tra ``società dei partiti'' e società civile, delle difficoltà sempre maggiori che incontra la società civile nel trovare sbocchi politici adeguati alle proprie istanze, dell'occupazione dello Stato sempre più generalizzata portata avanti dai partiti.

E non c'è dubbio che noi radicali abbiamo sperimentato sulla nostra pelle la realtà di tale situazione: la sentenza della Corte Costituzionale, che dichiarava improponibili quattro degli otto referendum radicali in base a valutazioni fortemente condizionate dalla realtà del quadro politico, ci ha dimostrato che il processo di occupazione delle istituzioni condotto dai partiti è giunto a compimento, sì che non è più prevedibile la possibilità non solo di prese di posizione, ma addirittura di sopravvivenza di organismi al di sopra delle parti, in qualche modo non legati alla logica degli equilibri politici in atto. Con soddisfazione dunque viene accolta soprattutto dal PCI la sentenza della Corte, che assicura stabilità al progetto politico dominante, vale a dire all'accordo DC-PCI, contro quanti non avevano esitato a mettere in discussione gli equilibri politici ``costituzionali'', quasi a volerne saggiare il punto di rottura.

Occorre d'altra parte sottolineare che il processo di occupazione delle istituzioni condotto dai partiti non si verifica solo a livello centrale, ma si estende alle sedi istituzionali periferiche, agli organismi regionali, sindacali, sì che là dove il ``potere'' si esprime, esiste un processo di uniformazione ai modelli nazionali. Pare insomma che non possano neppure più esistere quelle forme di municipalismo che tanta parte hanno avuto nella storia d'Italia e che, almeno in parte, giungevano ad esprimere la specificità della società civile e la sua volontà di autonomia dalla mediazione dei partiti attraverso la frequente resistenza alle direttive del potere politico centrale.

Appare evidente quindi che questo stato di cose, frutto di processi sviluppatisi in gran parte in questi ultimi anni, non può non costituire un tema di riflessione importante per il Partito Radicale, il partito delle autonomie locali, del federalismo, il partito che, per statuto, nella dimensione regionale ha posto la propria unità di grandezza primaria.

Si è detto inoltre in questo convegno che, occupate dai partiti le sedi istituzionali, lottizzati l'informazione e i mezzi di comunicazione di massa, ogni sede di potere pubblico e privato, ben pochi spazi restano per le istanze della società civile. Ma quali sono le caratteristiche di questa società civile? Si può ancora ritenere valido e in che senso quanto affermavamo all'indomani della vittoria sul divorzio e cioè che esisteva una società civile più avanzata, più progredita della sua classe dirigente?

Senza dubbio il problema è di vasta portata ed arduo sarebbe trovarne un'adeguata soluzione senza il supporto di indagini e sondaggi. Mi limiterò dunque a qualche osservazione preliminare, che potrà forse rappresentare un utile punto di partenza per ulteriori approfondimenti della questione.

Credo che la larga maggioranza raggiunta dai no all'abrogazione della legge istituente il divorzio in Italia abbia in sostanza dimostrato due cose: in primo luogo, che i cittadini erano meno condizionati del previsto rispetto alla cultura cattolica ritenuta egemone e tendevano invece ad accorciare le distanze, in tema di libertà civili, nei confronti della tradizione anglosassone; in secondo luogo che i cittadini, posti di fronte ad una scelta precisa - si o no, intorno ad un problema a forte contenuto sociale - avevano seguito logiche diverse da quelle proprie dei partiti.

La larga maggioranza di no ottenuta si spiega solo con l'esistenza di un consistente numero di persone che hanno votato a favore del mantenimento del divorzio senza fare riferimento alle posizioni assunte dai due principali partiti in campo: la DC e il PCI. Si è iniziato così quel processo di sganciamento dell'elettorato dalle direttive dei propri numi tutelari, che non sarebbe stato senza conseguenze negli anni a venire.

Società politica e società civile hanno dunque dimostrato in quell'occasione di seguire logiche diverse, ma ciò non significa che quel tipo di rapporto - il numero dei no e dei sì ottenuti nel referendum sul divorzio - possa rappresentare, più globalmente, una chiave di lettura della società italiana in termini contrapposti di conservazione e progresso. Non è detto, cioè, che la società civile, chiamata direttamente ad esprimere la propria opinione su problemi inerenti altri settori della vita (mondo del lavoro, sicurezza personale, sessualità), si comporti conseguentemente alle posizioni assunte rispetto al divorzio.

Se è infatti peculiare del partito politico compiere il collegamento tra le risposte date nei vari settori dell'attività umana e la propria collocazione nella società, non è invece assicurato che il cittadino, dimostratosi nel '74 favorevole al divorzio, sia necessariamente, poniamo, favorevole oggi alla socializzazione dei mezzi di produzione, oppure all'abolizione dei reati d'opinione, all'aborto libero ed assistito e così via.

Non è dunque che la società civile sia più avanzata di quella politica: semplicemente essa segue logiche e tempi diversi, per cui è possibile che vi sia, come ha rivelato un'inchiesta Doxa, più del 60% degli italiani favorevole alla pena di morte ed una percentuale anche più alta favorevole all'abrogazione delle norme in difesa della stirpe.

Questa constatazione ci può condurre a due considerazioni egualmente importanti per il nostro futuro politico.

La prima è che in una situazione politica ``normale'' le nostre battaglie per i diritti civili non obbligatoriamente troveranno i cittadini disponibili con lo stesso slancio che vi è stato all'epoca delle lotte per il divorzio e per l'aborto: differenziate - e non necessariamente univoche - possono infatti essere le risposte date dal cittadino nei vari settori della propria esistenza. Da ciò discende che sempre più uno dei nostri obiettivi primari deve essere quello di affinare gli strumenti a nostra disposizione che ci permettano di cogliere e comprendere la ``complessità'' della società civile e le sue implicazioni.

La seconda è una considerazione che fa filtrare un dato di speranza nel quadro complessivamente non rosa che veniamo delineando rispetto al futuro della democrazia nel nostro paese.

Gli esempi dello scollamento esistente tra società civile e società politica, che numerosi sono venuti alla luce nel corso del convegno; i segni della crisi che sembra coinvolgere le grandi parole d'ordine caratterizzanti fino ad oggi la cultura politica della nostra società e, accanto a tutto ciò, la crescita e l'approfondirsi di quel processo di liberazione dell'elettorato dalle direttive dei vertici dei partiti, offrono qualche elemento di speranza: forse è ancora possibile, attraverso la società civile, portare avanti un progetto diverso da quello dominante, caratterizzato dall'abbraccio DC-PCl, un progetto di democrazia radicale che si fondi su battaglie di contenuto, e non di schieramento, di libertà e non di falsa partecipazione.

 
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