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Archivio Partito radicale
Corleone Franco, Panebianco Angelo, Strik Lievers Lorenzo, Teodori Massimo - 1 ottobre 1978
RADICALI O QUALUNQUISTI?: (4) Radicali sotto accusa
di F. Corleone, A. Panebianco, L. Strik Lievers, M. Teodori

SOMMARIO: Un saggio sulla natura e le radici storiche del nuovo radicalismo e un confronto sulla questione radicale con interventi di: Baget-Bozzo, Galli, Ciafaloni, Tarizzo, Galli della Loggia, Lalonde, Alfassio Grimaldi, Are, Asor Rosa, Corvisieri, Orfei, Cotta, Stame, Ungari, Amato, Mussi, Savelli.

(SAVELLI editore, ottobre 1978)

Indice:

Parte prima

I Politica e società (1376)

II Radicali sotto accusa (1377)

III Il Pr come partito bifronte (1378)

IV Radicalismo e socialismo (1379)

V Radicalismo o marxismo, convivialità o tecnofascismo (1380)

Parte seconda

Un confronto sulla questione radicale (1381 - 1397)

"I radicali »piccolo borghesi "

Cosa significa nell'Italia di oggi fare una politica da »piccoli-borghesi , come suona la prima delle accuse rivolte ai radicali? E che senso ha stabilire la relazione fra uno strato sociale e una forza politica che ne rappresenterebbe interessi e valori?

Nel momento in cui si discute della crisi dei partiti nella loro capacità di rappresentare esaurientemente le istanze che si formano nella società, è necessario chiedersi anche se la crisi del sistema politico non sia anche crisi di rappresentanza sociale. Se mai il legame tra l'appartenenza a una determinata classe sociale e l'appartenenza a un movimento politico ha potuto essere usato come strumento generalizzabile di interpretazione, a noi pare che oggi esso sia, sempre meno, una chiave di lettura soddisfacente del rapporto tra società e politica.

I confini di classe che in una fase protoindustriale avevano ancora una corposità non solo sociale ma anche antropologica divengono più sfumati, più intrecciati, più complessi. E ciò perché sono mutati e stanno mutando i luoghi capitali dei conflitti sociali, moltiplicando di conseguenza le strutture di dominio che percorrono le nostre società.

Diamo la parola ad Alain Tuoraine da cui, per semplicità, possiamo prendere in prestito le definizioni di alcuni caratteri della società industriale avanzata (definita »post-industriale ) che per gran parte riguardano anche l'Italia dei nostri giorni. Scrive il sociologo francese: »La classe dirigente è definita dalla gestione degli apparati di produzione. I tecnocrati sono i dirigenti delle grandi organizzazioni che utilizzano il progresso scientifico e tecnico e che sono gestite conformemente alle regole del pilotaggio dei sistemi complessi. Queste organizzazioni impongono la loro "dominazione" all'insieme della società, accaparrando per il loro profitto e la loro potenza le risorse che potrebbero servire a un campo della vita sociale, a un tipo di domanda sociale. Questi apparati di decisione si trovano molto spesso associati allo Stato che permette loro di estendere la loro dominazione al di là del campo dei beni o dei servizi che essi producono (...) Questa dominazione di nuovo genere non può essere più

definita attraverso lo sfruttamento del lavoratore ma molto più largamente attraverso la manipolazione della domanda, il deterioramento delle condizioni di vita, l'accaparramento delle risorse e della capacità di decisione (...) Siamo abituati a definire la classe dominata come una categoria di lavoratori, e per questo abbiamo difficoltà ad accorgerci che l'estensione della dominazione all'insieme della vita sociale e culturale obbliga a definire la classe dominata in termini più generali e a fare attenzione ad altri problemi ed ad altre categorie di quelle di un tempo (...) "L'importanza della vita al di fuori del lavoro non è che la contropartita della penetrazione della dominazione sociale al di là della produzione, nell'informazione, nel consumo", ecc. (Alain Touraine, "La produzione delle società", Bologna, Il Mulino, pp. 218, 220, 221, 222).

La trasposizione meccanica tra ceto, classe e partito è inadeguata. Come punto di riferimento e categorie interpretative vanno utilizzate nozioni diverse da quelle che la volgata marxista ha largamente diffuso indipendentemente dal contenuto storico e temporale a cui potevano essere applicate. I moventi economici diretti si attenuano come motivi di lotta sociale e l'opposizione al regime esistente assume forme di »resistenza culturale dovute anche a fattori altri da quelli economici. Le conseguenti aggregazioni di movimenti antagonisti passano attraverso una molteplicità di fattori.

E' per ciò che l'atteggiamento di chi vuol leggere ostinatamente la lotta politica d'oggi come il gioco di grandi strutture in rapporto funzionale con le classi sociali che si incontrano e si scontrano in rappresentanza di specifici interessi, finisce per essere una lettura distorta della realtà che contribuisce a mantenere il sistema politico bloccato.

La polemica anti-radicale ha anche qui le sue radici. Già Togliatti (e si potrebbe anche far ricorso, con paralleli storici, al Gramsci de "Il risorgimento" e anche al Marx di "Le lotte di classe in Francia") si rivolgeva al Partito d'azione della Resistenza e del dopoguerra, e al ?Partito radicale degli anni Cinquanta, ammonendoli a rappresentare gli interessi della borghesia progressista, ritenendo utile non concepire altre forme di rappresentanza politica che non fossero quelle di classe.

Così anche oggi, nella visione della democrazia organizzata e del compromesso storico, ogni partito "deve" essere espressione di una posizione di classe: una visione che portata alla parodia trova riscontro nel »socialismo realizzato di alcune democrazie popolari dell'Est in cui sono stati inventati i partiti dei contadini, quelli dei cattolici, ecc. per far corrispondere artificiosamente sistema politico e sistema sociale. Nel rivolgersi ai nuovi radicali, interlocutori e contraddittori continuano a compiere quell'"identificazione tra radicalismo e piccola borghesia" che è divenuto un assioma mai dimostrato e verificato neppure sul piano sociologico empirico.

La storia (e le interpretazioni della storia) in questo caso si ripete. Ancora una volta accade quello che è avvenuto per il radicalismo di fine Ottocento rispetto al quale la storiografia marxista ha spesso ragionato secondo un'assai curiosa logica »di classe : dando per scontato che i radicali siano l'espressione politica della piccola borghesia, sulla base dei loro comportamenti politici (dunque in base ad un'analisi puramente »sovrastrutturale ) si sono inventati gli »interessi oggettivi della piccola borghesia stessa, ritrovandoli poi trionfalmente rispecchiati - guarda caso - nell'orientamento dei radicali.

Analisi di questo tipo si ripetono costantemente e non è difficile trovarne esempi. Asor Rosa stabilisce direttamente il legame tra il radicalismo di Cavallotti e quello di Pannella: »L'illusione radicale di fare la lotta al "sistema" senza riferirsi chiaramente a posizioni di classe ha una lunga storia nel nostro paese (...) Oggi il radicalismo esprime la rivolta di un settore minoritario della borghesia italiana contro i pericoli di un accentramento statuale che passi attraverso il compromesso delle grandi forze politiche di massa e porti a ribadire la coercizione, o addirittura l'accresca, delle libertà eminentemente individuali (Asor Rosa, vedi parte seconda). Anche Ruggero Orfei, non marxista, adotta le stesse consuete categorie interpretative: »(...) il punto nodale per cui tra il radicalismo e il socialismo non può esservi connubio, almeno durevole, sta nel fatto, tutto storico e culturale ma anche di base reale, della sussistenza di una divaricazione storica originaria. Cioè il radicalismo nasce com

e sinistra, anche estrema, della borghesia. Il socialismo nasce come espressione politica del proletariato (Orfei, vedi parte seconda).

L'aver dato corpo a battaglie di libertà con le quali poi hanno dovuto sempre fare i conti anche le altre forze di sinistra e laiche; il seguito che queste istanze ritenute »illuministiche hanno riscontrato nel paese allorché è stato possibile verificarne anche direttamente il consenso attraverso i referendum; i tentativi di costruire uno sbocco politico e istituzionale per quelle porzioni dei movimenti e comportamenti traducibili in trasformazioni normative: di tutto ciò ricorrentemente e insistentemente si è detto trattarsi di posizioni e iniziative »borghesi o »piccolo borghesi perché proposte dai radicali e, di converso, possibili per i radicali perché di carattere non proletario e di natura non »strutturale . Si continua a usare il vecchio e logoro assioma che mutua vicendevolmente giudizio politico sulla base di ricostruzioni dottrinarie e soggetto storico-politico secondo definizioni sociologistiche per giustificare l'un termine dell'asserzione con l'altro.

»Struttura e sovrastruttura , »classe operaia , »borghesia , ecco i termini ai quali, con maggiore o minore articolazione, finiscono sempre per riferirsi i critici di parte marxista (e non solo), nel definire e nell'analizzare il nuovo radicalismo. Occorre chiedersi se queste categorie, riferite al fenomeno radicale, hanno nell'attuale situazione pertinenza come strumenti interpretativi; e se, seguitando a invocarli, in realtà non si rischi di argomentare con concetti tutti basati su un notevole grado di astrattezza.

E' assai dubbio che si possa continuare a parlare - se mai se ne sia potuto parlare - della classe operaia come della classe generale portatrice in sé dei valori alternativi del processo di trasformazione sociale e a riferirsi a essa come al punto obbligato su cui misurare esclusivamente conflitti sociali e protagonisti sociali. La sinistra storica, nonostante che la sua stessa composizione sociale ed elettorale sia profondamente mutata, continua a farsi schermo di una siffatta interpretazione che ogni giorno di più assume le sembianze di una mitologia. Ed anche gran parte della sinistra nuova - o almeno dei gruppi che hanno tentato, e fallito, di costruire le loro fortune politiche sull'onda dei movimenti dell'ultimo decennio - ha assunto come forza motrice la mitologia operaistica, dovendo poi accorgersi di quanto essa risultasse nei fatti fittizia.

Basta qui ricordare, perché non è luogo per svolgere una compiuta analisi, che la stessa classe operaia ha subìto negli ultimi decenni notevoli trasformazioni qualitative e quantitative. Essa infatti si è grandemente diversificata al proprio interno sicché il proletariato industriale - a cui ritualmente viene attribuita la funzione di avanguardia sociale - si è sempre più ridotto a una porzione assai ristretta del proletariato; e, al tempo stesso, si è ristretto il peso complessivo dei lavoratori industriali, e tende presumibilmente a restringersi nel futuro nella stratificazione sociale e occupazionale delle moderne società industriali, inclusa l'Italia.

Se queste modificazioni oggettive rendono ancor più problematica di quanto lo fosse in passato la tesi della classe portatrice di interessi generali, ancor meno credibile è la riproposizione delle varie "mitologie operaistiche" che hanno alimentato sinistre marxiste vecchie e nuove. Un giovane sociologo italiano che ha centrato l'attenzione sul rapporto tra movimenti sociali e sistema politico ha scritto in proposito: »Alimentare il mito generico della centralità della classe operaia, senza chiarire a quale livello del sistema ci si riferisce, se ai rapporti di classe o ai rapporti politici, se al capitalismo maturo nel suo insieme o ai singoli casi occasionali, diventa ormai un puro esercizio rituale. Questa ambiguità può avere per la sinistra un duplice costo. Da una parte di non utilizzare appieno e in maniera esplicita il potenziale di pressione e di mutamento politico della classe operaia organizzata, mantenendo in vita a fini puramente ideologici l'immagine illusoria di una classe compatta e capace di

un rovesciamento generale del sistema, dall'altra di sottovalutare, ignorare o addirittura reprimere l'espressione nascente dei nuovi conflitti di classe. E' evidente che nel caso specifico dell'Italia, ogni trasformazione possibile passa attraverso un rapporto, che resta ancora da definire, tra la rappresentanza politica della classe operaia, divenuta uno dei perni del sistema politico, e i nuovi movimenti (Alberto Melucci, "Appunti su movimenti, terrorismo, società italiana", Bologna, Il Mulino, 1978, p. 255).

L'emergenza di nuovi conflitti e il loro estendersi in luoghi diversi dalla fabbrica porta alla ribalta nuovi protagonisti sociali. E' la stessa dinamica sociale e politica dell'ultimo decennio a mettere in evidenza il fatto che, accanto alla combattività operaia - laddove e quando si è manifestata - devono essere riconosciuti molti altri soggetti collettivi in lotta per specifiche liberazioni da particolari situazioni oppressive, repressive o autoritarie. Le »strutture economiche e le »sovrastrutture culturali, politiche e personali - per usare categorie divenute gergo - si sono intrecciate, e in molti casi magari le une si sono sostituite alle altre nei ruoli di molle sociali centrali ai processi di trasformazione. Tant'è che anche quando il fattore di classe, tradizionalmente inteso, conserva la sua importanza come molla decisiva dell'azione sociale e politica, esso probabilmente deriva tale carattere in forza dell'aspetto culturale che penetra in profondità quello direttamente materiale.

Per tornare ai dati concreti che riguardano la realtà italiana di questi anni, è apparso con sempre maggiore evidenza che un atteggiamento della sinistra che volesse davvero non risultare astratto dovrebbe tenere conto, "allo stesso modo", di una molteplicità di elementi del reale, e in essi si dovrebbero considerare insieme gli elementi politici e quelli economici, quelli culturali e quelli civili e le loro reciproche connessioni, senza attribuire valore determinante solo ad un fattore. Le difficoltà e le crisi della sinistra oggi in Italia sembrano discendere anche dall'illusione, perseguita in questi anni di programmi globali che, in termini politici, sono stati la trasposizione del processo ideologico di riduzione ad unità.

"I radicali »qualunquisti

Il dibattito sul "qualunquismo", di cui si discute ormai da un'intera stagione, viene messo in relazione, da più di un orizzonte, con il dibattito sul "radicalismo", associando esplicitamente o implicitamente i due termini sia nella dimensione concettuale che in quella direttamente politica. Dopo aver riconosciuto che nel paese circola un nuovo umore antipartitico, e dopo aver constatato che esso risponde a una molteplicità di fattori, talora ritenuti tutti negativi, talora giudicati un intreccio di giuste esigenze e di spinte regressive, più d'uno indica nei radicali la forza che tenderebbe a cavalcare la tigre cercando uno spazio politico che altrimenti non avrebbe.

E' la tesi avanzata da Asor Rosa il quale, diversamente da altri esponenti e intellettuali comunisti, compie un'analisi articolata del fenomeno. In sintesi egli sostiene: primo, che la parte più in tensione del paese ha risentimenti e diffidenze nei confronti del corso inaugurato con il 20 giugno 1976; secondo, che tale sfiducia colpisce i partiti e anche il Pci; terzo, che il Pci è colpito perché ha accettato di lavorare all'interno delle istituzioni; quarto, che v'è contraddizione tra la »presenza in Italia di una democrazia forte e organizzata (partiti) e il diffondersi della sfiducia; quinto, che la causa va ricercata nel »chiudersi del sistema politico in se stesso che taglia fuori dal »gioco del potere molta gente. Il paradosso sarebbe proprio nel fatto che »la forza innegabile e positiva delle organizzazioni finisce in molti casi per apparire come un limite ostile, uno strumento di prevaricazione nei confronti dei settori non organizzati della società . Di tale situazione trarrebbero giovamento i d

emocristiani e i radicali: »La manovra radicale (in tutte le sue componenti) - argomenta Asor Rosa - è abbastanza chiara: gli anti-istituzionali tentano di forzare esattamente la cerniera che collega le forze politiche (i partiti) come componente strutturale del sistema istituzionale, e masse sociali non organizzate, società civile in ebollizione, per assumersi la rappresentanza di quest'ultima, "contro" le forze del potere "comunque dato" (Albero Asor Rosa, "E' mutato qualcosa nel »senso comune ?", in »L'Unità , 30 giugno 1978).

L'intellettuale comunista non usa mai il termine »qualunquista ma allude ad esso nei concetti che esprime. E' Gerardo Chiaromonte a chiamare in causa il termine riferendolo ai particolarismi: »Sembra a me che quella parola (qualunquismo) sia legittimo usare. Per vari motivi. Innanzi tutto per la somiglianza che hanno alcune argomentazioni di oggi »contro i partiti con quelle che furono dell'``Uomo Qualunque'' (...) (Gerardo Chiaromonte, "I nuovi particolarismi", in »Rinascita , 21 luglio 1978). E Fabio Mussi, vicedirettore di »Rinascita , è esplicito nello stabilire il collegamento tra qualunquismo e radicalismo portando una serie di riferimenti in sostegno alle sue tesi. Egli dapprima afferma che »i radicali hanno tentato (con il referendum sul finanziamento pubblico dei partiti) un'operazione vecchia quanto il cucco; tendere una mano al "senso comune", mettere in contraddizione i dati immediati della coscienza con quelli più sviluppati e organizzati (...) ; e poi, dopo aver richiamato le basi su cui pog

gia nel sud la sfiducia dei rappresentati-governati, scrive: »nel Mezzogiorno anche il pensiero borghese democratico, sia radicale che moderato, fu ed è pieno di umori ``antipartitici'' contro ``quelli di Roma'', i quali tante volte hanno anche segnato l'ambiguità di movimenti autonomistici di massa . Infine, a proposito dei processi posteriori al 1975, sostiene: »Nel radicalismo di strati urbani, borghesi ma anche operai, confluivano proteste, attese e speranze che hanno dovuto misurarsi con le durezze della crisi del paese (Fabio Mussi, "La questione del Sud e delle grandi città", in »Rinascita , 23 giugno 1978).

Di parere convergente è Giuliano Amato che attribuisce ai radicali l'intenzione di cavalcare il ribellismo, o di accondiscendere ad esserne cavalcati, anche se la sua prudenza e il suo rigore intellettuale non gli fanno parlare esplicitamente di qualunquismo: »Accanto a questa matrice, la rivolta che ha portato i radicali sulla cresta dell'onda ne aveva anche un'altra, profondamente diversa, ma separata dalla prima da un confine non sempre percepibile. Era l'antica diffidenza nei confronti dello Stato, lo spirito spontaneistico, la rabbia anti-istituzionale che cova da sempre sotto le ceneri di un'Italia che non s è mai interamente rassodata. Nel clima rovente degli ultimi anni, i radicali si sono trovati a fare da miccia e i loro intenti originari ne sono usciti completamente stravolti (Amato, vedi seconda parte).

Di fronte alla diffusa opinione, di cui abbiamo riportato solo alcune voci, che stabilisce un qualche tipo di connessione tra il nuovo qualunquismo e il nuovo radicalismo cerchiamo di analizzare su quali basi poggiano le argomentazioni. Non prendiamo come riferimento il fenomeno dell'»Uomo Qualunque che è legato a un determinato periodo storico nel quale esso ha offerto una specifica risposta politica a specifiche condizioni politiche e sociali. Di analogie certo se ne possono trovare e inventare a iosa, ma avrebbero comunque un artificioso carattere meccanico. Prendiamo invece in esame la categoria »qualunquismo e vediamo quali ne sono stati i tratti caratterizzanti nell'uso fattone in Italia in questi trenta anni di assenza di una forza politica che si richiamasse esplicitamente al torchietto di Guglielmo Giannini che ebbe fortuna tra il 1945 ed il 1947.

Il qualunquismo come categoria generale poggia su alcuni elementi che possono essere così schematizzati. "Primo", la contrapposizione alla politica "in toto" in quanto si tratterebbe davvero di una attività »sovrastrutturale rispetto alla quotidianeità della vita e ai problemi della gente comune. Nella sua versione originaria la sfiducia nell'attività politica si traduceva per il qualunquismo anche nell'ipotesi che la buona amministrazione sarebbe bastata a governare la vita collettiva. "Secondo", la politica è inutile e dannosa e quindi bisogna combattere i suoi artefici, i politici. I politici, poco importa a quale partito appartengano, sono tutti eguali perché fanno i loro affari e quindi devono essere considerati come dei politicantinon mossi da nessun'altra molla che non sia quella dell'interesse personale o del proprio gruppo. In questo senso destra e sinistra si equivalgono perché tra le due parti non si vede alcuna sostanziale diversità. "Terzo", la sfiducia nella politica e nella possibilità di mut

amenti attraverso la politica conduce a un ritiro nel privato, e a privilegiare gli aspetti particolari della propria vira individuale e familiare, rispetto a quelli collettivi. Questa filosofia basata sul »pensare ai fatti propri può trovare momenti di aggregazione e di mobilitazione collettiva in particolari periodi contro specifici bersagli identificati come il nocciolo della politica.

Se tali sono i caratteri del qualunquismo, vediamo quali ne sono presenti oggi e perché, e in che misura il radicalismo ne è parte. E' stato definito qualunquistico come protesta antipartitica il fatto che a più riprese recentemente masse di elettori non hanno seguito gli orientamenti dei partiti. Lo si è detto in particolare quando con i due referendum dell'11 giugno una vastissima porzione dell'elettorato (15% circa pari a sei milioni per la legge »Reale , e 37% circa pari a quindici milioni sul finanziamento pubblico) non ha risposto agli inviti anche pressanti dei rispettivi partiti a votare contro le abrogazioni. L'ulteriore verifica di questa tendenza è stata considerata l'affermazione di liste locali e regionali nelle regioni di confine alle amministrative del giugno 1978. Occorre allora domandarsi a quali spinte risponda un elettorato che si svincoli, per un determinato caso o intorno a una scelta determinata dai legami permanenti - siano essi di natura ideologica, organizzativa o clientelare - con i

l proprio partito di appartenenza o a cui usualmente indirizza la preferenza elettorale. Si tratta di un fenomeno regressivo e »qualunquistico o di un fenomeno di evoluzione e laicizzazione di una parte dell'elettorato?

L'immobilismo della situazione italiana deriva anche dal fatto che per oltre vent'anni (dal 1953 al 1972) i comportamenti elettorali sono stati rigidi, gli spostamenti assai marginali e le realtà partitiche notevolmente indipendenti da programmi, scelte e orientamenti specifici. L'appartenenza partitica ha fatto sempre aggio sul giudizio politico specifico. Oggi tutti questi segni (che erano già elettoralmente oltre che socialmente apparsi con il referendum del 1974) indicano che il processo di secolarizzazione o laicizzazione di alcune decine di milioni di cittadini ha fatto un notevole salto in avanti. Ed è chiaro allora che un tale orientamento elettorale, basato su giudizi individuali che si spostano di volta in volta e che sono favoriti da forme di consultazione elettorale di tipo diverso dalle consuete elezioni - i referendum - entra in contrasto con la concezione del partito insediato che costituisce a poco a poco le proprie radici sociali attraverso l'espansione dei vincoli organizzativi.

Ma accanto a una componente, di rivolta politica, sicuramente presente, causata dall'immobilismo eternamente negoziatorio del quadro politico e del verbalismo che copre l'inerzia operativa su efficaci provvedimenti e riforme, c'è dell'altro. E' la volontà di riappropriazione da parte dell'individuo-cittadino della politica sottraendo ai partiti una delega totale, in bianco, e valida una volta per tutte. Non si tratta della sfiducia nei partiti in astratto e in generale ma della manifestazione concreta di una volontà di intervento diretto su determinati problemi di questo determinato momento in cui tutta la dialettica partitica si è appiattita. »All'origine del fenomeno - commenta Pizzorno - ci sono trent'anni di delusioni, di promesse non mantenute, di impotenze, di arroganze, di inganni della politica. All'origine del rifiuto intellettuale - soprattutto giovanile - c'è la caduta delle distinzioni ideologiche e programmatiche fra i partiti, e la conseguente difficoltà di socializzare a un qualsiasi credo pol

itico le nuove generazioni . (Alessando Pizzorno, "E intanto il mondo cambia da solo", in »L'espresso , 30 luglio 1978).

Insomma, si tratta di un avvertimento ai partiti suscettibile di svilupparsi e dilatarsi, il cui esito futuro dipenderà dalle politiche e dai comportamenti dei partiti. A questo proposito si è già precedentemente osservato che la concezione delle masse rispetto a cui è modellata la proposta di »democrazia organizzata che vede il partito come l'unico - o quasi - strumento di inquadramento e mediazione politica, non risponde più ai caratteri reali della società contemporanea. Se dunque ci sono sintomi di rivolta, essi sono indirizzati contro quei comportamenti dei partiti che pretendono di occupare tutto lo spazio sociale e di monopolizzare la mediazione politica, e non contro i partiti generalmente intesi.

Che cosa significa di nuovo, se e nella misura in cui è presente, l'umore collettivo di condanna della classe politica che è un altro elemento caratterizzante la rivolta qualunquistica? Innanzi tutto va ricordato che l'idea dei politicanti che fanno i propri interessi è sempre circolata, anche se nei giorni nostri assume certamente una diversa luce. Non si tratta - a noi pare - della banale asserzione che un'intera classe politica è corrotta - pur se in parte il giudizio è pertinente - ma piuttosto dell'assimilazione da tutti gli orizzonti e verso tutte le direzioni di una classe politica percepita come separata dal paese.

I fatti nuovi dal 1976 ad oggi, che sono all'origine di un tale atteggiamento, risiedono in due questioni: l'aver realizzato e esaltato teoricamente un blocco che si vuole omogeneo di partiti che si autodefiniscono »democratici , identificando la democrazia con tutto quello che essi unanimemente e concordemente rappresentano e fanno, e l'esser venuta meno ogni tensione ideale, ogni diversità e scontro tra i diversi, ogni contrapposizione in termini di valori e di politica. Non è l'opinione pubblica a fare un unico fascio di partiti come la Dc e il Pci, il Psdi, il Psi e il Pri, ma sono gli stessi partiti che costantemente vogliono accreditare l'omogeneità del loro modo di essere e di agire, ponendo una linea di demarcazione tra loro e il resto delle espressioni politiche, tra i »legittimi e gli »illegittimi .

Quella che è caduta, anche a sinistra, è la percezione della diversità del proprio campo come campo della speranza alternativa, del futuro diverso. A sinistra la spontanea tendenza all'estraneazione dalla politica e alla sua condanna era fino a qualche tempo fa controllata dalla carica sacrale e religiosa di cui venivano circondate le proprie forze, quelle che rappresentavano le speranze del domani e l'accumulazione delle lotte di ieri. L'entusiasmo per il proprio partito faceva sì che i sentimenti antipartito venissero rovesciati sugli altri, sul campo avverso, allorché sussisteva una dialettica generale riconoscibile. Il valore sacrale e la correlata tensione ideologica sono caduti proprio per opera di quelle dirigenze, prima socialiste e poi comuniste, che si sono adoperate per fare accettare il nuovo valore dello »stare insieme con gli avversari politici e di classe di ieri, con coloro sui quali - a ragione - veniva indirizzata tutta la carica di condanna che derivava dalla quotidiana osservazione di sc

andali, malversazioni e corruzioni della vita pubblica. Quando esponenti comunisti si sforzano di argomentare che è errato parlare indiscriminatamente del »sistema dei partiti perché il Pci è diverso e non può essere accomunato in questa generale categoria, essi entrano in contraddizione con la politica da loro seguita in questi ultimi anni che è stata tutta tesa ad accreditare l'omogeneità del Pci agli altri partiti e la necessità della »formazione di un blocco organico di forze democratiche .

Pertanto, nel momento in cui maggioranza e opposizione si identificano e, dietro le false contrapposizioni ideologiche, appare una non diversificazione dei programmi politici nonché un'assimilazione dei comportamenti, accade che la spinta critica si trasferisce dall'opposizione ai partiti al potere, all'opposizione al sistema dei partiti i quali sono percepiti come sostanzialmente simili. Ha ragione Ernesto Galli della Loggia quando osserva: »Il qualunquismo prende atto dei caratteri del sistema che ha di fronte e li ribalta: se il sistema non comporta più alcuno scontro ideologico-politico, ebbene esso sarà contro le ideologie e contro la ``politica''; se nel sistema è la classe politica che di fatto governa rinnovandosi per cooptazione, allora esso sarà contro la classe politica e per la sua radicale scomparsa; se il sistema viene sentito come qualcosa di estraneo dalla popolazione il qualunquismo proclamerà la propria estraneità al sistema (Galli della Loggia, vedi parte seconda).

Si può parlare, infine, come tendenza dei nostri giorni, di un »ritiro nel privato , e di un generalizzato »pensare ai fatti propri , che rappresenta l'ulteriore lineamento del qualunquismo inteso come fenomeno regressivo? A noi pare che sia più adeguato sostenere che in Italia si sta sviluppando una tendenza collettiva che trova anche al di fuori dei partiti i suoi punti di aggregazione e di espressione. La sfera del politico non si esaurisce nei partiti e numerosi processi sociali di ricerca di identità collettiva e di espressione di tale identità non possono essere assorbiti nella mediazione partitica.

Quello che è andato decadendo in seguito ai successivi fallimenti della sinistra storica, e poi di quella nuova, nell'offrire sbocchi e prospettive, è semmai il sentimento dell'utilità e della possibilità di trasformazioni ispirate alla totalità ideologica, e quindi riferentisi a una concezione organica della totalità sociale. Si attribuisce segno negativo non solo ai fenomeni corporativi ma ad altri tipi di particolarismi - come quelli a cui fa riferimento Chiaromonte, e cioè per esempio, l'ecologia e la rinascita dei sentimenti di autonomia regionale e locale - che non costituiscono affatto regressioni nel particolare ma consapevolezza dell'importanza di nuovi conflitti che non si vogliono subordinare alle cosiddette ragioni politiche generali.

E' così che, nella polemica sul qualunquismo, e in particolare nei riferimenti al suo rapporto con il radicalismo si mescolano cose diverse. Quasi che si volesse usare quel noto metodo sovietico dell'"amalgama" nel mettere insieme, per condannare i dissidenti, fenomeni criminali reali e dissenso politico. Si definisce qualunquismo al tempo stesso il corporativismo particolaristico e il ritiro della delega totale ai partiti, la sfiducia nella possibilità che accada qualcosa attraverso la politica e, contemporaneamente, le manifestazioni di ricerca di identità sociale, la condanna della politica dello stallo concordemente condotta da tutti i partiti del cosiddetto »arco costituzionale senza rimarchevoli differenze, e una presunta condanna metastorica dei partiti. Occorre, per uscire fuori dall'invettiva, utilizzata in particolare nei confronti dei radicali, partire da una distinzione analitica dei diversi fattori che si rapportano al neoqualunquismo.

Certamente il radicalismo è stato ed è uno dei motori che hanno cercato di attivare politicamente gli umori del paese dando la parola alla »gente . E lo è stato perché le sue analisi postulano come elementi centrali della crisi del paese i funzionamenti degenerativi e immobilistici delle istituzioni, la statizzazione dei partiti, la mancanza di dialettica e di scontro. In questo senso si può accettare per comodità il termine da qualcuno coniato di »qualunquismo di sinistra riferito appunto a un fenomeno a cui "da sinistra" - in quanto riferentesi alla riconquista di gradi di libertà e di democrazia connessi con il sistema rappresentativo - i radicali hanno tentato di dare forma, forza e sbocco politico. Dando voce, ancora una volta nel solco della tradizione democratica italiana, a quella che il comunista Paggi chiama »la vecchia e candida diffidenza salveminiana verso i partiti (Leonardo Paggi, "Un »qualunquismo di sinistra ?", in »Rinascita , 4 agosto 1978), i radicali sono in grado forse di mostrare che

oggi essa non è tanto vecchia né tanto candida, perché siamo in presenza di una spinta diffusa cui possono essere offerti esiti positivi, o che si può abbandonare pericolosamente a se stessa.

E' vero che se si lascia marcire a lungo la mancanza di aspettative e la sfiducia causata dal Grande Vuoto di questi anni, gli umori collettivi di cui si parla possono essere preda di grandi riflussi moderati o reazionari. Può diffondersi il sentimento che se nulla accade, e se nessuna forza politica è capace di fare qualcosa, allora tanto vale attestarsi sulle sponde della tranquillità dell'esistente e sulla tutela di un ordine che si conosce piuttosto che impegnarsi in battaglie che si rivelano senza sbocco. La promozione dei referendum - e tra essi quello contro le attuali forme di finanziamento pubblico dei partiti - ha rappresentato perciò anche una politica tendente a offrire strumenti istituzionali e costituzionali capaci di riaccendere fiducia nei meccanismi democratici, quella fiducia scemata notevolmente per lo scarso rendimento (quanto a produzione di innovazioni democratiche) dei partiti. E lo stesso obiettivo ha mosso quella pratica »iperistituzionale dei parlamentari radicali (come la chiama C

orvisieri; vedi parte seconda) che ha teso a vitalizzare, con una vera dialettica non affogata in una continua negoziazione, il funzionamento del parlamento, per quel che può fare una esigua minoranza.

"I radicali »irresponsabili e »destabilizzatori

Un'ulteriore critica capitale che spesso accade di veder rivolgere ai radicale è quella che essi sarebbero »irresponsabili ; che, nel perseguire con fanatismo estremista e integralista i loro singoli obiettivi, non si curerebbero degli effetti obiettivamente destabilizzanti di un tale comportamento, e anzi finirebbero per diventare alleati, portavoce e promotori di spinte eversive. Lo scrive, per esempio, Giuliano Amato: »Nati per contrastare le tendenze integralistiche del potere, da un lato le hanno eccitate, dall'altro hanno utilizzato il parlamento, la sede naturale della mediazione politica, per far valere il loro punto di vista con un integralismo non meno accentuato e inesorabilmente coerente con gli umori anti-istituzionali penetrati nel loro retroterra . Tanto che, nell'esasperare volutamente in ogni occasione lo scontro con le altre forze politiche - prosegue Amato -, sono spesso passati dall'attacco contro »le soluzioni sbagliate o non-soluzioni fornite dai pubblici poteri ai diversi problemi dell

a gente all'attacco contro »il potere in quanto tale , rendendo nella loro azione »inestricabilmente confuse le responsabilità della partecipazione democratica e l'irresponsabilità del ribellismo distruttivo . (Amato, vedi parte seconda).

Accuse dello stesso segno di quelle gravi che, nella campagna elettorale per i referendum, muovevano loro i comunisti, di promuovere cioè un uso »eversivo e anti-istituzionale dei referendum, in obiettiva, e perché no, soggettiva combutta con i fascisti. Il presidente del gruppo parlamentare comunista alla Camera, Natta, scriveva, all'inizio del '78: »(...) un atto confuso e rischioso di massiccia contestazione della funzione e della capacità del Parlamento e dei partiti di risolvere problemi, pur annosi e acuti: un tentativo, del resto dichiarato, di fare ostacolo, suscitando occasioni di contrapposizione e di scontro, alla faticosa ricerca di unità tra le forze democratiche in un momento estremamente critico della vita nazionale. (Alessandro Natta, "Per evitare i referendum che dividono, le riforme che uniscono", in »Rinascita , 13 gennaio 1978).

Senza dubbio, a ciò ha contribuito uno dei caratteri essenziali dell'agire politico dei radicali, e soprattutto in questi ultimi anni: la non ricerca, anzi il rifiuto, delle mediazioni e dei compromessi, cioè la volontà deliberata di andare con intransigenza a scontri durissimi. Al di là delle singole battaglie in Parlamento e fuori, la scelta stessa di privilegiare lo strumento del referendum - quello che vieta le mediazioni e impone lo scontro - ne è piena testimonianza. Si capisce ovviamente come un atteggiamento di questo genere susciti le più vaste reazioni degli avversari o di chi, a sinistra, segue strade opposte; si capisce anche che molti osservatori possono averlo considerato espressione di un »integralismo volta a volta divorzista, abortista, e così via. In effetti le battaglie radicali sono state spesso condotte rifiutando di recepire istanze diverse dalle proprie che altri avanzavano; possono anche, talora, avere innescato tra alcuni radicali processi di relativa chiusura alla considerazione di

complessità del quadro politico; e indubbiamente hanno raccolto e mobilitato consensi di settori di opinione pubblica sensibili »con unilateralità ai singoli temi di lotta e portati a considerarli essenziali a prescindere da ogni altra considerazione.

Questo però non significa affatto che sia lecito caratterizzare i radicali come quelli che non si pongono il problema degli effetti di ordine generale che lo loro azioni possono produrre in contrapposizione alle altre forze politiche che parrebbero invece »responsabili , capaci di subordinare, e magari sacrificare, singole battaglie o affermazioni di principio alle esigenze superiori di un disegno democratico complessivo. La contrapposizione vera è un'altra: ed è quella tra due diversi disegni generali.

Certo, nell'ottica del grande obiettivo generale perseguito o subìto dai partiti dell'arco cosiddetto costituzionale - quello di realizzare l'ampia convergenza unitaria di tutte le forze politiche italiane - i radicali possono apparire davvero irresponsabili, incoscienti, destabilizzatori. Ma se si vuole comprendere l'ottica in cui "essi" si muovono, non si può ignorare che essi perseguono un "proprio" disegno generale che va in direzione diametralmente opposta. Di molte cose infatti i radicali potranno essere rimproverati; si troveranno magari all'interno della loro impostazione carenze e contraddizioni; si dirà che la loro anali

si della società italiana è sbagliata o fuorviante; ma non si potrà negare che essi abbiano una "propria scala di valori" che si traduce in un progetto politico complessivo di lunga portata; dal quale discende una scala della priorità per individuare i temi nei quali impegnarsi.

Qui è sufficiente accennarvi. Ma come non osservare almeno che è un cardine di tutta l'analisi radicale il giudizio secondo cui proprio la mancanza di scontri aperti e rigorosi tra le forze politiche sta tra le cause prime della crisi italiana?

Riprendendo - parrebbe soli in Italia, al di là di tante declamazioni - uno dei motivi portanti del grande pensiero liberale europeo, i radicali affermano la positività in sé della presenza nella vita politica di conflitti individuati, vissuti e condotti con chiarezza; e tanto più in una situazione come quella italiana, ove la mediazione permanente, e su ogni cosa, è la regola aurea del sistema politico, perseguita, praticata e teorizzata da tutti i partiti »ufficiali : una situazione, perciò nella quale suscitare tali conflitti significa già comunque vivificare la vita pubblica, portarvi un contributo di moralità autentica, difendere e far crescere la credibilità delle istituzioni democratiche.

A questa stregua, se quanti pongono il compromesso come valore centrale nel proprio pensiero e nella propria azione sentono con indignazione e furore come offesa al buon senso, alle regole del gioco, alla democrazia, al Grande Disegno Progressivo i comportamenti intransigenti dei radicali, proprio attraverso questo modo di operare essi danno corpo con coerenza al proprio sistema di valori. Semmai suona curiosa la polemica contro queste attitudini dei radicali proprio da parte di Amato, uno dei politologi che con maggiore insistenza denunciano i guasti della »democrazia consociata , giacché la sua obiezione comporta appunto l'ossequio alle regole non scritte della consociazione; sintomo di quanta strada ancora debba compiere il nuovo corso craxiano, del quale Amato è interprete lucido e insigne, per passare dalle velleità al concreto operare politico.

In realtà, con le loro »trovate estemporanee , con la loro insistenza ossessiva su temi »inattuali , »secondari e fastidiosi, - giudicati sempre da avversari o da alleati recalcitranti come »quelli su cui di sicuro il paese "oggi" non sente il bisogno di dividersi -, i radicali non hanno rispettato l'attualità e le priorità altrui, ma si sono di volta in volta battuti per imporre altre attualità e priorità conseguenti a una diversa scala di valori. Così è stato via via per il divorzio, per l'aborto; e così per tutte quelle battaglie cui i radicali hanno costretto una sinistra che non ne voleva sapere, quella sinistra che poi, dopo averle vinte con paura o stupore, ha considerato grandi, fondamentali, vittorie democratiche, traendone forza e vigore politico rinnovati.

E a ben vedere su questa strada i radicali hanno conseguito vittorie che hanno finito per acquistare un significato ben più ampio di quello legato alle singole riforme conquistate. Tanto le loro battaglie marginali e devianti, secondo i metri altrui, erano invece centrali ed essenziali secondo il loro progetto; tanto erano funzionali ad esso, e concepite tenendo pieno contro delle loro implicazioni generali; e tanto quel progetto era adeguato alla realtà del paese, che hanno sortito l'effetto non solo di sconvolgere l'agenda politica in determinati momenti ma di modificare in profondità l'immagine della società italiana e delle sue esigenze sulla quale si fonda la scala delle priorità assunta dai partiti consociati. Non senza ragione si può sostenere, infatti, che è per effetto delle lotte imposte dai radicali che tutte le forze politiche hanno finito per riconoscere la decisiva importanza della tematica dei diritti civili, e con essa, certo ognuno a suo modo, ormai fanno quotidianamente i conti. Così, anche

, è primo luogo conseguenza dei risultati del referendum »inutile, provocatorio, pericoloso, estraneo alla coscienza popolare sul finanziamento ai partiti, la scoperta del distacco della gente dai partiti consociati e il gran interrogarsi che tutti ora fanno su di esso e sulle esigenze improrogabile di riforma che ne discendono.

Va pur detto infine che proprio questa "alterità" - nei contenuti, nei valori, nei modi di agire - dei radicali rispetto a tutte le altre forze politiche costituisce il fattore primo della forza ed efficacia stessa del Pr. Il quale, forza politica partecipe della società politica, è anche ad essa esterno e contrapposto: esercita l'opposizione mirando a dar corpo a un'alternativa al vigente assetto di valori e di potere, e perciò non rispetta le regole del gioco così detto responsabile (se »responsabilità è l'ossequio alle pratiche politiche dominanti e alle ragioni del quadro politico divenuto feticcio).

Di qui la sua imprevedibilità, per cui i partiti integrati in quelle regole del gioco che li rende omologhi non riescono a controllarne le mosse; di qui l'incisività e i successi della sua opposizione. D'altro canto, in presenza di un sistema di potere in cui i partiti tendono a perseguire gli interessi delle rispettive organizzazioni piuttosto che a farsi veicoli idealmente e ideologicamente orientati a canalizzare la domanda politica, un'opinione pubblica, che per tante ragioni ne è scontenta, sente questa diversità, questa »alterità radicale: e dà fiducia e credito al partito diverso. In molti casi, se non altro, dà fiducia e credito al partito d'opposizione che si comporta come tale, e che con le forze che ha cercato di assicurare questa funzione fisiologica essenziale di una democrazia; perché contro i sofismi e la prassi di tanti che in questo trentennio hanno solo mimato i gesti dell'opposizione è profondamente vero e sentito come tale da gran parte dell'opinione pubblica quello che scrive Ciafaloni:

»Se tutti, anche coloro che non sono e non aspirano a diventare forza di governo, che hanno poteri istituzionali nulli, si chiedono ad ogni passo se per caso il dire la verità non faccia cadere il governo o se accusare i ladri non intasi le carceri o se il difendere comportamenti ampiamente legittimi ma mediamente non condivisi non guasti l'immagine, non si cambierà mai nulla di nulla (...) (Ciafaloni, vedi seconda parte).

"I radicali »tra sinistra e destra "

L'ultima e non la minore delle accuse rivolte ai radicali, è quella - talvolta formulata rozzamente e esplicitamente, talaltra avanzata con allusioni - che non si sa bene se essi appartengano alla sinistra o alla destra; oppure che la loro politica oscilla da un polo all'altro dello schieramento politico.

Se v'è una base di tali accuse, la si deve scoprire nell'uso di concetti vieti attraverso cui si classifica l'appartenenza a un campo o all'altro, e di categorie adatte ad altri tempi e ad altre situazioni rispetto a quelle a cui vengono applicate. Così, ad esempio, quando negli anni Sessanta i radicali aprirono la polemica contro le degenerazioni di un ente di Stato come l'Eni, si gridò allo scandalo e la sinistra tutta isolò gli irresponsabili autori di un attacco verso un »mostro sacro - perché pubblico - della sinistra. Così, quando i radicali sostengono che la ferma opposizione alle centrali nucleari, la ragione del rifiuto dello »Stato nucleare e non solo quella della difesa dell'ambiente, si ricorre ancora una volta a un altro feticcio della sinistra, lo sviluppo, quale che sia la sua natura e il costo per l'umanità. Così, quando si combatte l'attuale forma di finanziamento dei partiti contro la loro riduzione a prolungamento dello Stato, e in nome di forme di sostegno dell'attività politica a dispo

sizione di qualsiasi gruppo di cittadini senza dover necessariamente rafforzare il potere degli apparati, ci si trincera dietro la funzione pubblica dei partiti scambiando questa con la loro statizzazione.

In realtà tali approssimativi giudizi hanno radice anche nel modo di considerare il rapporto destra/sinistra, e in particolare nei criteri aprioristici di valutare la natura della sinistra. La questione del resto non è di oggi, anche se i radicali mutamenti del nostro tempo la ripropongono con forza e sotto diverse sembianze. Ci sono sempre stati almeno due principali filoni nella sinistra e nel modo di concepire l'appartenenza al suo campo. Il primo riferito soprattutto alle questioni politico-istituzionali (e prima ancora di indipendenza nazionale), e il secondo centrato sul programma economico e quindi sulle classi. Per le forze del primo filone l'idea di sinistra è legata innanzitutto all'"espanzione delle libertà", mentre per le seconde è il grado di sviluppare delle "forze produttive" e il benessere che costituiscono l'indicatore oggligato. In termini schematici, storicamente, qusto è il conflitto tra la cultura marxista e progressista-economicista da una parte, e la cultura iberale socialista-libertar

ia dall'altra.

In Italia, almeno fin dal dopoguerra, è stata l'egemonia della cultura marxista e variamente economicista, dapprima a emarginare le forze richamantisi alla libertà come motivo perminente e poi, a misconoscere e isolare i radicali arrivando più di una volta a contestare il loro essere di sinistra. Alcuni fatti nuovi hanno fatto tuttavia entrare oggi in crisi la concezione monopolistica della sinistra e quindi stanno inficiando anche i criteri in basi ai quali le prevalenti valutazioni politiche venivano espresse: i movimenti di massa che, a partire da conflitti reali, hanno reintrodotto nella sinistra valori che ne erano stati espulsi (antiautoritarismo, liberazione più che emancipazione, libertarismo, autonomia e identità); e la crisi degli apparati concettuali usati dalle sinistre in questo secolo inadeguati a comprendere la realtà odierna. Due soli esempi - l'atteggiamento verso i partiti e quello verso il ruolo dello stato - sono a riguardo illuminanti.

La polemica contro i partiti di massa, che era stata propria della destra moderata e liberale perché vedeva messe in pericolo le proprie forme di organizzazione politica - il partito dei notabili - (poi ripresa in Italia sempre in un'ottica moderata da Giuseppe Maranini), acquista oggi un segno di sinistra nella misura in cui la partitocrazia è divenuta una realtà di fatto con l'espansione dei partiti e quell'intreccio con lo Stato che abbiamo già messo in evidenza.

Il definire allora di destra quell'atteggiamento collettivo che insorge contro la »dittatura dei partiti in nome non già della difesa di interessi ristretti e particolari ma della riappropriazione di una parte della delega politica per la sua gestione in forme più dirette è un'operazione che mutua da un apparato concettuale ieri appropriato, giudizi che oggi si collocano in un contesto completamente rovesciato. Promuovere i referendum per dare la parola alla gente fuori dalla mediazione partitica e cobattere il finanziamento pubblico diretto che irrigidisce la dialettica tra i partiti e nei partiti acquista allora, nell'Italia degli anni Settanta, il significato di espansione delle concrete libertà democratiche, e quindi di una politica di sinistra.

Ma il nodo centrale su cui si misura la valutazione se una politica si di destra o di sinistra è quella del ruolo dello Stato. Gran parte del patrimonio teorico delle sinistre in questo secolo ha considerato l'espansione dello Stato e delle sue funzioni come un fatto positivo. Sia, ovviamente, la cultura marxista-leninista che quella riformatrice-socialdemocratica, nonché le stesse correnti democratiche progressiste che dagli anni Trenta in poi hanno fatto proprio l'interventismo keynesiano in economia, hanno visto nello sviluppo del settore pubblico, legato in qualche maniera allo Stato, la strada per conseguire maggiori gradi di ciò che alcuni chamavano democrazia e giustizia sociale, e altri socialismo. Lo Stato poli-interventista è così diventato una realtà non solo del cosiddetto socialismo realizzato (con i noti aspetti da Leviatano totalitario) ma anche degli stati del benessere realizzati dalle socialdemocrazie centro e nord-europee, nonché della stessa Italia in cui la degenerazione burocratica ha a

ssunto il gigantesco volto dello Stato assistenziale-clientelare.

Per tanti versi, perciò, quella che ieri era, o era ritenuta, da sinistra, una funzione positiva dello Stato, oggi si configura come un'ulteriore struttura che restringe le libertà e, per via dell'intreccio tra potere politico e potere economico, le stesse concrete possibilità di svolgere un correto gioco democratico. Volere oggi un'ulteriore espansione dello Stato e delle sue funzioni - economiche, sociali, culturali, civili - significa abbracciare una visione tecnocratica-autoritaria, indipendentemente dal fatto che la gestione sia nelle mani dei partiti della destra o della sinistra. Se negli anni Cinquanta, ad esempio, in Italia, con le nazionalizzazioni si poteva efficacemente colpire il potere economico per l'espansione della democrazia, oggi difendere l'enorme apparato economico pubblico e parapubblico significa certamente impedire riforme democratiche e di libertà.

La crisi delle sinistre in Italia, come in Europa, non è quindi soltanto la conseguenza delle sconfitte subite in Francia e in Italia, e nella stessa Germania se si mette in relazione politica realizzata e patrimonio ideale, ma anche crisi dei termini di riferimento, cioè di dottrina e teoria. Se i socialisti italiani del Psi riscoprono patrimoni storici abbandonati, almeno dalle loro classi dirigenti, e se i comunisti del Pci si interrogano a fondo, pur se non possono farlo apertamente e laicamente, sugli stessi loro dati fondanti, ciò significa che sono radicalmente mutati per tutti gli stessi termini che definiscono la collocazione a destra e a sinistra; e che quando si scatenano polemiche grezze come quella contro i radicali, si cerca di scaricare sugli altri problemi che travagliano le stesse proprie forze.

E' significativo e importante che di ciò abbia coscienza anche un comunista come Asor Rosa con quel che di recente ha affermato a proposito del senso che in Europa ha il termine »sinistra , pur se egli non rappresenta tutto il Pci, ma probabilmente è solo il sintomo premonitore e positivo di un lavorio che scuote anche i comunisti italiani, almeno nei settori più sensibili. »Come non ammettere onestamente - dichiara l'autorevole intellettuale, pur tra i richiami rituali - che siamo di fronte ad una crisi verticale di quelli che Claudio Napoleoni chiama i massimi sistemi e all'esigenza di una riqualificazione globale di tutte le tradizioni della sinistra di fronte al problema del "potere" in Europa (...) Non sarò io a negare l'importanza che gli strumenti delle rispettive tradizioni (socialista e comunista) possono ancora fornirci: comincio però a chiedermi se a lungo andare non avremo bisogno di una rivoluzione culturale più profonda per esprimere i bisogni che la ``terza soluzione'' prospettata da Berlingue

r mette necessariamente in gioco . (Alberto Asor Rosa, "Tra Berlinguer e Craxi..." in »La Repubblica , 24 agosto 1978).

 
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