di F. Corleone, A. Panebianco, L. Strik Lievers, M. TeodoriSOMMARIO: Un saggio sulla natura e le radici storiche del nuovo radicalismo e un confronto sulla questione radicale con interventi di: Baget-Bozzo, Galli, Ciafaloni, Tarizzo, Galli della Loggia, Lalonde, Alfassio Grimaldi, Are, Asor Rosa, Corvisieri, Orfei, Cotta, Stame, Ungari, Amato, Mussi, Savelli.
(SAVELLI editore, ottobre 1978)
Indice:
Parte prima
I Politica e società (1376)
II Radicali sotto accusa (1377)
III Il Pr come partito bifronte (1378)
IV Radicalismo e socialismo (1379)
V Radicalismo o marxismo, convivialità o tecnofascismo (1380)
Parte seconda
Un confronto sulla questione radicale (1381 - 1397)
"Il radicalfascismo"
La polemica fra gli altri partiti della sinistra e i radicali, che assume in certe occasioni i toni e le forme di una vera e propria contrapposizione frontale, non è soltanto - anche se questo elemento può giocare un ruolo importante - il frutto di una chiusura dei gruppi politici già insediati verso una forza emergente, logica conseguenza della natura competitiva di un regime politico democratico. In particolare, inoltre, l'accusa di »radical-fascismo che ha caratterizzato, nei commenti della stampa comunista, la campagna dei referendum dell'11 giugno ha motivazioni più profonde della polemica sulle crescente pretese »collusioni fra Pr e Msi (ostruzionismo parlamentare sulla legge Reale): una polemica come è evidente scopertamente strumentale che volutamente ignora il dato elementare che l'opposizione alla maggioranza parlamentare non può non esprimersi in comportamenti di voto simili da parte delle ali estreme dello schieramento senza che per questo possa esserci convergenza nelle motivazioni politiche.
L'accusa è, invece, il frutto di una chiave di lettura che ritorna costantemente, quando la cultura politica che si ispira al marxismo si interroga e vuole giudicare movimenti politici come quello radicale. Almeno tre elementi convergono a determinare il giudizio sul »radical-fascismo : la definizione del movimento radicale come movimento piccolo-borghese; la diffidenza verso gli intellettuali politici privi di legami »organici (in senso gramsciano) con le masse popolari; infine la totale incomprensione dei caratteri dell'antifascismo radicale.
Già si è detto del ricorrente giudizio di parte marxista sul radicalismo come »movimento piccolo-borghese , cioè »rappresentante di interessi e aspirazioni propri di settori della piccola borghesia. E' noto inoltre che nell'universo concettuale marxista la piccola borghesia è una classe sociale che, in certe congiunture storiche può allearsi alla classe operaia e accettarne l'egemonia all'interno di un progetto di trasformazione socialista della società; più spesso però questa classe si muove nella direzione politica contraria, è l'elemento sociale più disponibile alle avventure autoritarie di destra.
E allora se si definisce il radicalismo come espressione politica di questa classe o di frazioni di essa, il gioco è fatto, la conclusione ineccepibile: quando il radicalismo cresce nella società è perché la piccola borghesia, anziché accettare l'alleanza con la classe operaia aderendo ai suoi partiti, si orienta verso soluzioni reazionarie e antidemocratiche.
La seconda costante che spiega questo giudizio consiste nella profonda diffidenza verso quel personale politico che non ha o rifiuta di dare vita a partiti di »insediamento sociale cioè con legami organizzativi stabili con settori della società civile. Si tratta cioè della diffidenza, radicata nel marxismo, verso l'intellettuale e il personale politico »disorganico che agisce autonomamente nella lotta politica senza la pretesa di »rappresentare permanentemente interessi di questo o di quel segmento della struttura sociale.
Le argomentazioni di Asor Rosa sono illuminanti a questo proposito, esprimono in una versione colta, meno rozza rispetto alle invettive dell'»Unità sul »radical-fascismo , l'istintiva diffidenza dei comunisti verso tutto ciò che, come i radicali, contraddice, con la sua stessa esistenza, l'idea della politica come »rappresentanza di interessi di classe relegando nella patologia politica quei fenomeni che non sono interamente interpretabili all'interno di questo quadro di riferimento. Scrive Asor Tosa: »Ma è proprio del radicalismo stare in bilico tra "destra e sinistra": non è, in fondo, una battuta vana quella di Pannella che vuole trovare interlocutori anche al di là del confine classico tra antifascismo e fascismo. La lotta al sistema, come sistema rigido di partiti che dirigono le grandi masse e possono colludere in una gestione di potere di tipo mafioso, a danno dei singoli e delle minoranze, ha inevitabilmente una doppia faccia (...) Io direi che il radicalismo non ha in sé né può avere la propria de
finitiva e stabile collocazione politica. La trova cammin facendo nel suo rapporto con le altre forze politiche e nel modo con cui le altre forze politiche si atteggiano nei confronti delle sue tematiche e del suo spirito. Altrimenti, il radicalismo è un masso erratico, che si sposta di campo in campo seguendo gli impulsi ponderali che provengono dal suo interno e sfondando nella sua marcia imprevedibili steccati di ogni genere . (Asor Rosa, vedi parte seconda).
La fragilità di queste tesi appare evidente. E' certamente vero che il movimento radicale non ha né intende avere, perché del tutto estraneo alla sua cultura e al suo progetto politica, alcun legame stabile, organizzato, quindi »organico , con settori precisi della società civili. Ma questo non ne fa affatto un »masso erratico senza collocazione stabile (e dunque disponibile anche ad avventure reazionarie). Questa tesi perde infatti significato al di fuori di una visione semplicistica della politica come »sovrastruttura , come epifenomeno della lotta fra le classi, oggi in crisi. Se la politica non è questo ma trova in larga misura in se stessa, nelle sue autonome manifestazioni e nelle sue leggi la principale spiegazione, la collocazione di una forza politica, a destra o a sinistra, in difesa ddell'ampliamento delle libertà o, all'opposto, in direzione di una soluzione autoritaria non può essere valutata sul metro degli "interessi sociali" rappresentati. Ne fa fede il noto esempio del movimento cattolico i
n Italia e dei partiti conservatori in Europa nella cui bandiera si riconoscono organizzativamente ed elettoralmente settori notevoli delle classi lavoratrici. Vale del resto anche, come l'esperienza insegna, il ragionamento opposto: organizzare le classi lavoratrici non significa essere necessariamente »a sinistra , cioè non essere portatori di germi o di progetti autoritari.
Il metro di valutazione deve sempre fare riferimento ai caratteri del progetto e della cultura politica del movimento o del partito in questione e valutare il grado maggiore o minore di coerenza fra le battaglie che ha di volta in volta condotto e quel progetto e quella cultura. Soltanto la non conoscenza e l'incomprensione dei tratti essenziali della cultura politica dei radicali può consentire di definire quello radicale come un movimento non collocato stabilmente a sinistra.
Direttamente legato a motivazioni e componenti politiche - la tematica dell'antifascismo così come è stata impostata negli ultimi anni in Italia - piuttosto che il riflesso di categorie culturali, e di uno stile di pensiero in senso lato marxista, è invece l'altro elemento che gioca un ruolo di un cero peso nella accusa di radical-fascismo, e cioè la diversità fra l'antifascismo radicale e l'antifascismo generico della sinistra.
E' un fatto che a partire dalla metà degli anni Sessanta l'»unità antifascista è stata la strada attraverso la quale si è sperimentato, da parte comunista, il tentativo di fare cadere le barriere che separavano il Pci dagli altri partiti. Si evocava un »nemico privo ormai di reale peso politico, il fascismo del Msi, per aggregare un fronte comune che comprendesse la Dc: da qui, per esempio, i »comitati antifascisti in realtà momenti di anticipazione delle future »larghe intese .
In questo modo l'Msi, espressione di un estremismo antidemocratico, che inevitabilmente esiste in qualunque sistema democratico, senza che questo né spaventi né soprattutto blocchi la dialettica e il conflitto fra progressisti e conservatori, diventava il pericoloso avversario capace di fare crollare il sistema se non bloccato dalla »solidarietà democratica .
L'antifascismo della sinistra storica, da momento di giusta rievocazione della lotta contro il fascismo storico, diventava così niente altro che uno strumento politico di avvicinamento alla Dc in nome della lotta al »comune nemico . L'antifascismo radicale era, ed è, agli antipodi di questa concezione: più volte i radicali, tra la incomprensione generale, venivano affermando i termini della loro concezione alternativa. Non si trattava soltanto della coerente affermazione dei principi della democrazia radicale secondo cui, in una democrazia genuina tutte le opinioni, anche quelle antidemocratiche, se espresse nella legalità, devono avere diritto di espressione (vedi l'opposizione alle ricorrenti proposte di scioglimento del'Msi). Ma l'elemento fondante dall'antifascismo radicale stava soprattutto in un giudizio politico articolato sui caratteri del regime democristiano, oltre che, più in generale, sulle nuove forme, esistenti o potenziali, di autoritarismo nella nuova società industriale.
Ne segue il giudizio sui forti tratti di continuità tra lo Stato fascista e lo Stato ereditato e riplasmato dalla Dc, che porta a due conseguenze tra di loro connesse: l'idea secondo cui l'antifascismo non può non consistere oggi nella lotta per un'applicazione integrale della Costituzione, abolendo tutte le cospicue sopravvivenze giuridiche e strutturali del passato regime; e l'idea secondo cui questo antifascismo deve contrapporsi frontalmente a quel partito democristiano che della conservazione di quei tratti illiberali e autoritari è il vero garante e il principale responsabile. Da qui la lontananza da un »antifascismo , quello della sinistra storica, che si inventa un feticcio di comodo, il nuovo pericolo fascista, per allearsi proprio a quella Dc che - i radicali ritengono - richiede di essere combattuta e sostituita al governo per eliminare i tratti illiberali e autoritari dello Stato e dei suoi apparati, e quindi anche per neutralizzare quei centri che hanno alimentato le diverse strategie della tens
ione.
Più in generale gioca una visione della società industriale che nega la possibilità che l'autoritarismo possa assumere le vesti del fascismo storico o di regimi analoghi. Le nuove forme di autoritarismo nelle quali può incappare la democrazia italiana - sostengono i radicali - appaiono legate semmai a progetti ben più generali, ai rischi della militarizzazione delle economie occidentali, in definitiva a fenomeni rispetto ai quali i movimenti fascisti di tipo tradizionale, alla Almirante, risultano del tutto marginali.
"Radicali e socialisti nella storia d'Italia"
Abbiamo visto che la tesi del »radicalfascismo poggia spesso, quando supera i limiti della polemica più contingente, su uno schema storico-interpretativo che ha avuto una certa fortuna. Si tratta dell'idea secondo cui lungo tutta la storia italiana, o almeno dall'inizio del secolo in poi, i radicali sono stati gruppi di intellettuali borghesi, staccati e isolati dalle masse e perciò oscillanti tra destra e sinistra, tendenzialmente avventuristi quando sottratti all'egemonia del partito della classe operaia. Ma davvero un simile schema spiega ben poco del fenomeno radicale nella storia d'Italia; e in particolare lascia del tutto irrisolto proprio il problema in vista del quale esso, si può dire, è stato elaborato - cioè quello del rapporto storicamente determinatosi in Italia fra democrazia radicale e movimento socialista.
Questa questione fa tutt'uno in realtà con l'altra, centrale per la valutazione del posto che spetta al radicalismo nella storia italiana: quello della sproporzione fra la persistenza, il rilievo e l'influenza del filone politico-culturale radicale nel nostro paese, e la sua scarsa capacità, se non altro a partire dalla prima guerra mondiale, di esprimere un movimento politico organizzato di consistenza ed efficacia corrispondenti. E si pensi, per limitarsi al post-fascismo, alla sorte del Partito d'azione, del movimento di Unità popolare, del Partito radicale del »Mondo - mentre il Partito radicale attuale si configura come il primo benché ancora esiguo tentativo che, con uno sforzo di lunga durata, ha saputo sfuggire a questo ricorrente »destino .
Un dato balza subito evidente, se ci si interroga sulle ragioni di questo fenomeno: che in buona parte i ripetuti fallimenti sono derivati dal fatto che i settori di opinione pubblica cui i raggruppamenti radicali si rivolgevano, e che ci si sarebbe potuti attendere dessero loro consensi, rimanevano invece legati, per consuetudini e tradizioni consolidate, ad altri partiti, e segnatamente a quelli socialisti e comunisti senza per questo cessare, tuttavia, di manifestare caratteri tipici di sensibilità e impostazioni di tipo radicale. Il punto è che il »filone radicale , mai scomparso nella società italiana, in larga misura ha trovato per decenni il proprio referente politico-organizzativo nei partiti che si richiamano alla classe operaia e alla tradizione del socialismo marxista; e si tratta di un fenomeno che affonda lontano le sue radici, in una vicenda storica che fa apparire gli sviluppi del radicalismo e del socialismo in Italia così intimamente intrecciati da risultare in sostanza inscindibili, quasi a
spetti e svolgimenti di un'unica realtà storico-sociale.
A voler andare alle origini di questa simbiosi, occorrerebbe risalire ai primi decenni successivi all'unità d'Italia, quando all'estrema sinistra del mondo politico italiano si era creata una composita galassia di gruppi di democrazia avanzata, all'interno della quale circolavano, mescolandosi e combinandosi nelle più varie maniere, i motivi dell'intransigenza repubblicana rivoluzionaria, del radicalismo evoluzionistico-riformatore e del socialismo delle diverse scuole - benché poi vi predominasse indiscutibilmente l'elemento repubblicano-radicale; sotto le cui bandiere il movimento politico-sindacale del proletariato italiano stava muovendo i suoi primi passi.
La costituzione del Partito socialista, nel 1892, volle significare una rottura, una netta presa di distanza dei socialisti nei confronti di questo mondo composito, del radicalismo variamente socialistoide; ma se indubbiamente quella separazione rappresentò una svolta decisiva e irreversibile, per molti versi la frattura doveva rivelarsi meno profonda di quanto sulle prime potesse apparire.
Vero che nel Partito socialista erano confluiti con peso determinante gruppi come quelli operaisti, per i quali la contrapposizione al radicalismo borghese formava una delle ragione d'essere primarie; però accanto a loro e anzi, si può ben dire, in posizione quantitativamente e qualitativamente preminente stavano uomini, associazioni e correnti di estrazione e formazione radicale repubblicana. Ciò valeva per buona parte degli elementi dirigenti del nuovo partito (e forse anche della sua base), come si può facilmente verificare analizzando le caratteristiche dei suoi gruppi dirigenti locali, o pensando alle biografie di molti fra i maggiori esponenti del Psi tra fine secolo ed età giolittiana, formatisi alla politica in ambienti di democrazia radicale: Turati, Bissolati, Treves e tanti altri tra i futuri riformisti, o Ferri e Arturo Labriola sul versante intransigente-rivoluzionario...
La stessa feroce polemica di Turati e di tutto il Psi nei primi anni di vita del partito contro la »imbelle democrazia borghese nasceva, e spesso con piena coscienza di questa strumentalità, dalla necessità di dare respiro, autonomia, fierezza e consapevolezza di sé al nuovo partito, cancellandone il »peccato originale di radicalismo con l'affermarne una funzione contrapposta appunto a quella del radicalismo. Ma questo, certo, non bastava a eliminare il dato sostanziale, che i settori più autorevoli della classe dirigente del Psi portavano con sé un solido fondo di mentalità, atteggiamenti e riflessi tipici di una cultura politica radicale; come poi si sarebbe potuto agevolmente constatare alla prova della loro azione politica, nel Psi e poi fuori dal Psi per quelli che successivamente se ne staccarono.
Insieme a questo aspetto, ce n'è un altro di cui occorre tener conto. Il Partito socialista si trovò a verificare ben presto l'impossibilità di mantenere, nella sostanza, quella separazione fra politica socialista e di classe e politica genericamente democratica alla cui insegna si era costituito.
Un punto fermo generalmente accettato dai socialisti, come è ben noto, era rappresentato dall'idea che fosse interesse e compito storico della borghesia, e principalmente dei suoi settori più avanzati, di realizzare da un lato l'industrializzazione, ossia la modernizzazione della società sostituendo la civiltà industriale a quella militare e feudale; dall'altra la piena attuazione della democrazia politica e dello Stato di diritto, sua necessaria espressione sul piano politico. Secondo questo schema, dunque, l'onere delle lotte in questa direzione, per spezzare e superare i »residui feudali nella società e nelle istituzioni - l'arretratezza economica, il militarismo, il clericalismo, le strozzature illiberali e autoritarie nello Stato - doveva toccare alla democrazia radicale, il partito della borghesia moderna e progressista; mentre al partito del proletariato, quello socialista, spettava tutt'altra funzione, quella di preparare e attuare la lotta di classe del proletariato contro la borghesia per giungere
, quando la rivoluzione capitalistica della borghesia avesse dato tutti i suoi frutti sul terreno economico e politico, a espropriare la borghesia stessa realizzando il socialismo.
Però, alle prese con la reazione di fine secolo, con i pericoli di involuzione autoritaria e conservatrice determinatasi con i governi di Crispi, Rudinì e Pelloux, il Psi, lo si sa, finì per assumersi quale compito principale proprio la battaglia »per le libertà . Così esso si faceva carico, per l'appunto, del ruolo che, secondo il suo schema ideale, sarebbe dovuto toccare ai radicali. E quante volte in effetti Turati, tormentato sempre dal problema di realizzare una divisione di compiti fra socialisti e democratici borghesi, lamentò esplicitamente che le circostanze, e il poco nerbo politico dei radicali italiani, costringessero il Psi a far lui da partito radicale in Italia! Né un tale stato di cose cessò con il venire meno delle tensioni di fine secolo; giacché sia pure in modo diverso, e magari al di là delle convergenze realizzate con gli altri »partiti popolari , il radicale e il repubblicano, l'attività del Partito socialista anche lungo l'età giolittiana si configurò per molti versi - non per tutti,
naturalmente - in senso »radicale . (Discorso questo che, se vale per l'ala riformista, va riferito anche, per quanto in chiave differenziata, alle sinistre di Ferri e Labriola).
Che questo avvenisse, anche a prescindere dalle intenzioni dei singoli protagonisti, è fin troppo naturale. Con un'industrializzazione che solo allora si stava avviando, una classe operaia ancora relativamente esigua, una società tuttora gravata da tante arretratezza antiche; con un liberalismo asfittico e trasformista, uno stato elitario per tanti aspetti lontano dal modello di un piena democrazia, con un rapporto Stato-società così ampiamente fondato su clientelismi, parassitismi e protezionismi, con un peso ancora rilevante dell'elemento dinastico-militaresco, con un'influenza della chiesa nella società così massiccia; con tutto ciò l'attenzione e le energie, a sinistra, non potevano non volgersi ampiamente alle tematiche »radicali della democratizzazione dello Stato e della laicizzazione della società, ancorché magari rivisitate in termini di lotta di classe.
Questo non significa, ovviamente, sottovalutare la novità rivoluzionaria dell'intervento sulla scena politica del proletariato industriale e agricolo attraverso il partito socialista, con tutte le sue caratteristiche specifiche irriducibili alle categorie tradizionali del radicalismo; né significa non vedere le differenze tra Turati e Cavallotti. Vuol dire riconoscere che la realtà italiana stimolava, richiedeva in qualche modo l'emergere in primo piano di una linea di tipo radicale; e che il gruppo dirigente del Psi - omogeneo culturalmente e socialmente alla classe politica radicale e repubblicana, giacché usciva dai medesimi ceti intellettuali progressisti - rispondendo anche a una propria profonda vocazione si fece pieno carico di questa esigenza, coniugandola con i fattori diversi e tipici di un politica socialista e di classe.
Forse anzi si potrebbe affermare addirittura che le energie »radicali più vive emergenti nella società italiana tra la fine del XIX e l'inizio del XX secolo si raccolsero e si manifestarono, più che nelle formazioni radicali vere e proprie, nella forza nuova e vigorosa del socialismo, capace di attrarle perché carica allora di fascino, speranze, respiro umanitario e internazionale ben più ampio che non l'antica democrazia; tanto da fare in qualche modo del Psi di quell'età la più felice espressione oltre che del socialismo anche del radicalismo italiani. Per questa via si possono meglio cogliere le ragioni per cui se l'egemonia sostanziale su tutta l'estrema sinistra, finché visse Cavallotti, spettò indiscutibilmente al Partito radicale, dopo la sua morte, nel 1898, la funzione di guida, e proprio sulle grandi battaglie »radicali per le libertà e le rifome politiche e civili, passò al Psi. Per quanto poi vada pur detto che il ruolo svolto dal partito radicale dei Sacchi e dei Marcora fino al 1914 non fu af
fatto così irrilevante come la pochissima attenzione dedicatagli dalla storiografia potrebbe far presumere.
Certo, in seguito la situazione si modificò. Il peso dei motivi radicali nell'ambito del Psi progressivamente si attenuò; e, soprattutto, la prima guerra mondiale, che calpestò i valori della società liberale e spezzò e schiacciò gli ideali umanitari e internazionalisti del socialismo, travolse anche il radicalismo italiano in tutte le sue componenti, lacerate, sconvolte e in realtà umiliate alcune da una partecipazione subalterna al blocco interventista-bellicista, altre dall'impotenza della loro opposizione. E non è senza significato che nel dopoguerra l'antico e illustre Partito radicale sparisse e dovessero passare poi vari decenni perché sorgesse in Italia una forza politica che ne riprendesse il nome.
Qui però non interessa seguire questi sviluppi, né le vicende delle forze che, nella crisi del dopoguerra e poi nella lotta antifascista, continuarono a condurre battaglie di segno politico radicale - giacché non si tratta, in questa sede, di tracciare una storia del radicalismo italiano. Qui occorreva solo mettere in luce come sia sorto, in Italia, quell'intreccio profondo tra radicalismo e socialismo che rende inseparabile la storia dell'uno da quella dell'altro.
Questo, in effetti, è il punto: che non ha senso parlare del »filone radicale nella storia d'Italia prescindendo da quella parte di esso che si espresse politicamente nel movimento operaio e socialista. Davvero, ad esempio, si potrà giudicare il radicalismo di un Salvemini senza accorgersi che mai egli fu più compiutamente e organicamente »radicale di quando militava autorevolmente nel Psi? O si potrà discutere del peso degli orientamenti a carattere radicale nella storia italiana trascurando il pensiero e l'opera di Filippo Turati? Per non dire poi del Psi di quest'ultimo trentennio, che ha accolto e spesso chiamato a posizioni dirigenti molti degli uomini provenienti, via via, dal Partito d'azione, dal movimento di unità popolare e dal Partito radicale degli anni Cinquanta.
A questa stregua, non resta davvero molto della pretesa di dipingere il radicalismo come una corrente storicamente e strutturalmente contrapposta al movimento operaio e socialista, oscillante tra destra e sinistra, in date circostanze disponibile perfino ad avventure reazionarie: cioè della tesi che fornisce le »armi teoriche alle polemiche contro il »radical-fascismo del Pr odierno. Tutt'al più per sostenerla rimangono i casi di uomini passati dal progressismo radicale a posizioni reazionarie; casi sui quali è sicuramente bene meditare, ma che non sono né più numerosi, né più significativi di quelli dei vari Mussolini, Bombacci e Doriot, socialisti e comunisti certo estranei al filone radicale, e divenuti protagonisti della reazione fascista.
"I nuovi temi delle battaglie antiche"
Alla luce dell'analisi svolta testè, si comprendono meglio anche alcuni dei caratteri del Pr attuale, che lo collocano in una linea di profonda continuità - pur nella novità e diversità - con la storia secolare del radicalismo italiano; e sono, quasi paradossalmente, proprio tra quelli che più lo differenziano dal suo predecessore immediato, il Partito radicale dei Pannunzio, Cattani e Piccardi.
Il »nuovo Partito radicale ha preso le mosse infatti, nei primi anni Sessanta, dal rifiuto di accettare la separazione tra radicalismo e socialismo; la sua scelta socialista, meditata ed esplicita, significava anche l'acquisizione della consapevolezza che il terreno, le energie per le battaglie rigorosamente radicali e libertarie in Italia stanno dentro, e non fuori o accanto, al campo delle forze socialiste, al loro patrimonio di tradizioni e di ideali. Si trattava di una scoperta di sé, delle proprie ragioni e del proprio posto di lotta di segno analogo a quelle che tanti altri, nella storia del radicalismo, avevano compiuto in precedenza: Turati e gli altri che con lui avevano fondato il Partito socialista; Gobetti che aveva visto nel proletariato comunista e socialista il protagonista dell'auspicata rivoluzione liberale; Rosselli, Giustizia e libertà, i liberalsocialisti e tanta parte del Partito d'azione che avevano cercato di promuovere il nuovo radicalismo non fuori dal socialismo, ma attraverso una
rifondazione socialista (e molti poi, caduta quella speranza, avevano proseguito la loro lotta nel Psi e talora nel Pci).
Tanto erano centrali questa analisi e questa scelta per i »nuovi radicali, che essi trassero molti degli aspetti più originali e specifici della loro reimpostazione di una politica radicale proprio da un ripensamento e da una riproposizione di valori tradizionali, storici del socialismo - in gran parte in polemica con le forme che della tradizione socialista si atteggiavano a uniche legittime vestali.
Nel fare la sua scelta socialista, infatti, il Pr scopriva la piena attualità e validità di alcuni dei motivi che erano stati essenziali per il socialismo italiano ed europeo nella sua grande stagione, e che poi a poco a poco, non omogenei com'erano né al leninismo-stalinismo, né alla socialdemocrazia, erano stati messi da parte e addirittura sepolti nell'oblio. L'antimilitarismo e antinazionalismo, il primato della solidarietà internazionalista, democratica e di classe sugli appelli all'unità nazionale, l'anticlericalismo, l'autonomismo e federalismo antigiacobino: in un'Italia dominata da una via clericale e corporativa al capitalismo, con una sinistra nazional-popolare e giacobina, in un mondo sempre più occupato dal militarismo - con i regimi militari dilaganti nel terzo mondo e altrove, con il massiccio gravare dei complessi militari-industriali in occidente, con la »militarizzazione autoritaria e nazionalista del socialismo nei paesi comunisti - i radicali riprendevano ragioni e battaglie »non vecchie
, ma antiche , vieppiù necessarie e vitali, del socialismo. Le proponevano all'intera sinistra, che credeva di averle »superate solo perché aveva chiuso gli occhi di fronte ai problemi, e chiedevano che esse divenissero assi portanti del rinnovamento e dell'unità fra tutte le forze democratiche e socialiste, per l'alternativa.
Proprio questo particolare approccio di un gruppo radicale al socialismo, del resto, conferma - una volta di più - quanto siano intimamente mescolate le democrazie radicale e socialista nella storia d'Italia. Temi indubbiamente fondamentali per il socialismo prefascista quelli »riscoperti dal Pr; tanto che esso, se avesse avuto come tanti altri il gusto del richiamo ai sacri testi, avrebbe potuto persino attaccare le forze maggiori della sinistra per la loro poca ortodossia.
E, indubbiamente, la sua era una rivalutazione della validità - della maggiore validità - di aspetti del socialismo preleninista che anticipava di un quindicennio tante autorevoli rivisitazioni e autocritiche. Ma nello stesso tempo era - in gran parte, va detto, inconsapevolmente - la ripresa proprio e soprattutto di quei temi che a sua volta il socialismo delle origini aveva recepito in larga misura dalla tradizione e dall'influenza del liberalismo democratico e radicale: ché tale appunto era il caso dell'antimilitarismo, dell'anticlericalismo, dell'antigiacobinismo. (Non per nulla quando, nell'Italia umbertina e giolittiana, il Psi si proponeva di realizzare alleanze con le forze radicali, puntava prevalentemente su questi temi per trovare un terreno di incontro).
In quest'ottica non rappresentava affatto una contraddizione, come qualcuno rimproverava e rimprovera loro, la decisione dei radicali di costituire un proprio partito invece di entrare in uno di quelli socialisti e comunisti esistenti; giacché il loro intento, appunto, non era quello - che poteva appartenere al precedente Pr - di fare risorgere una grande forza radicale tradizionale, accanto al movimento socialista. I radicali volevano formare, al contrario, un centro di iniziativa politica capace di lanciare dall'interno del corpo complessivo della sinistra battaglie, temi e metodi di lotta - antichi, nuovi o rinnovati non importa - che essi giudicavano indispensabili per una lotta democratica e socialista vincente; e che invece, per impostazioni politico-culturali, strategie, abitudini, alleanze e interessi consolidati, Pci, Psi, Psiup, Psdi e Pri sentivano estranei e rifiutavano.
A questo scopo non si poteva eludere la necessità di operare attraverso un gruppo politico autonomo alieno da subordinazioni e privo di complessi di inferiorità, pronto a scontri anche durissimi - e iniziarono subito - con le linee considerate negative e perdenti; ma un gruppo pronto, come il Pr ha sempre affermato di essere, a dissolversi in una sinistra davvero rinnovata, o a contribuire alla ricostituzione di una grande forza di democrazia socialista e radicale che sappia essere protagonista e guida dell'alternativa.