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Archivio Partito radicale
Corleone Franco, Panebianco Angelo, Strik Lievers Lorenzo, Teodori Massimo - 1 ottobre 1978
RADICALI O QUALUNQUISTI?: (7) Radicalismo o marxismo,
Convivialità o tecnofascismo

di F. Corleone, A. Panebianco, L. Strik Lievers, M. Teodori

SOMMARIO: Un saggio sulla natura e le radici storiche del nuovo radicalismo e un confronto sulla questione radicale con interventi di: Baget-Bozzo, Galli, Ciafaloni, Tarizzo, Galli della Loggia, Lalonde, Alfassio Grimaldi, Are, Asor Rosa, Corvisieri, Orfei, Cotta, Stame, Ungari, Amato, Mussi, Savelli.

(SAVELLI editore, ottobre 1978)

Indice:

Parte prima

I Politica e società (1376)

II Radicali sotto accusa (1377)

III Il Pr come partito bifronte (1378)

IV Radicalismo e socialismo (1379)

V Radicalismo o marxismo, convivialità o tecnofascismo (1380)

Parte seconda

Un confronto sulla questione radicale (1381 - 1397)

"L'alternativa secondo i radicali"

Per oltre tre lustri i nuovi radicali si sono posti nel paese come parte - partito - politica dando corpo con lotte di libertà e di liberazione alla strategia proposta già fin dall'inizio degli anni '60 di "rinnovamento, unità e alternativa delle sinistra". Faticosamente ma costantemente è venuto emergendo sia il carattere di protagonista della forza radicale nella scena politica, sia la nuova affermazione di una tendenza profonda nella società, il radicalismo, a cui il Pr ha dato voce e di cui è stato interprete. Pur fra rari e talora tardivi riconoscimenti, i radicali si sono mossi in tutti questi anni secondo una visione che riconduceva le singole battaglie a un'impostazione strategica d'insieme e questa a un'impostazione ideale originale.

Tra il 1975 ed il 1976 è potuto parere a molti che le condizioni per la realizzazione dell'alternativa cominciassero a maturare, anche da un punto di vista numerico sul piano parlamentare e dei rapporti di forza tra i partiti. Non era, certo, quella della alternativa una questione solo di schieramento: ma la forza della sinistra notevolmente accresciuta nel suo insieme, pur con la grande preminenza comunista, costituiva premessa a che potesse verificarsi nel nostro paese almeno un ricambio di classe dirigente, dopo trenta anni di predominio democristiano. Del resto quello spostamento di voti verso la sinistra, verificatosi tra il '75 e il '76, era solo la traduzione in termini elettorali-istituzionali della spinta che alla base del paese si era in tante forme manifestata dopo il '68.

I radicali avevano notevolmente contribuito - e in ciò anche la loro attiva partecipazione alla crescita dell'alternativa - a proporre quei temi come il divorzio che, tra gli altri, avevano favorito la liberazione di energie alternative dall'assetto moderato e clericale del paese. Certamente sui diritti civili, e attraverso essi, si era rivelata una maggioranza di trasformazione e di riforma tra i cittadini: e ciò aveva aperto nuovi orizzonti alla stessa sinistra e ne aveva provocato l'allargamento della base elettorale che clamorosamente si concretava il 20 giugno 1976.

Ad oltre due anni di distanza quella spinta popolare, espressasi prima nel 1974 e poi nel 1976, e l'atmosfera di Grande Speranza, che aveva accompagnato e pervaso una stagione di rinnovato vigore per la sinistra, sembrano essere cadute. La suicida politica comunista di sostegno all'assetto democristiano e alla sua permanenza al centro del sistema di potere e di governo in Italia, ha distrutto il fervore di mutamento prima ancora che la possibilità di questa o quella formula politica. Se l'alternativa resta ancora il punto di riferimento insostituibile per chi crede

alla necessità di una traduzione politica e istituzionale di un sistema di valori, di pratiche e di forze sociali contrapposte a quelle dell'ordine esistente, certamente l'ipotesi della sua realizzabilità è molto più lontana e improbabile di quanto apparisse nel 1976. I comunisti in primo luogo, e la sinistra tradizionale nel suo insieme, hanno dissipato la spinta popolare in nome di giochi tutti interni al sistema dei partiti.

E' ormai chiaro che in tempi politicamente brevi l'ipotesi di un'alternativa è impossibile, così come non sono configurabili »programmi comuni della sinistra tra forze che - nel concreto del loro operare prima ancora che nei loro richiami ideologici - hanno dimostrato tanta divergenza di posizioni, di atteggiamenti e di obiettivi. Il Pci ha raccolto ancor meno che nel passato le istanze di libertà e di trasformazione in senso laico di cui i radicali, tra gli altri, si sono fatti portatori. I vincoli imposti dalla cosiddetta »solidarietà delle forze consociate nella Grande Intesa hanno sospinto le forze di sinistra a sostenere politiche moderate e di restaurazione (cruciale quella sull'ordine pubblico) trasformando forze, che per la loro collocazione dovrebbero costituire la base della alternativa, in gestori del consolidamento del vecchio ordine.

Anche l'esperienza francese dell'Unione delle sinistre - per una stagione punto di riferimento di una possibile e auspicabile linea di evoluzione anche della situazione italiana - ha, con le elezioni del marzo 1978, messo in evidenza la fragilità di accordi globali, fra le sinistre. Per ragioni diverse e attraverso strategie diverse, le vicende parallele del Pci e del Pcf hanno liquidato, per il momento, le candidature della sinistra in schieramenti unitari alla direzione del governo in Italia e in Francia. E' una situazione di cui occorre apertamente prendere atto perché non c'è dubbio che, come in Francia, così in Italia, una nuova fase politica con nuovi problemi si è aperta nell'ultimo anno.

La tesi radicale secondo cui il compromesso storico, o qualsiasi forma di collaborazione con la Dc, si sarebbe dimostrato perdente anche rispetto alle intenzioni dei suoi proponenti, ha finito per risultare vera. Allorché i radicali mettevano in atto iniziative e battaglie che, soggettivamente e oggettivamente, tendevano a ostacolare e contrastare l'incontro unanimistico fra i partiti di opposta collocazione, e in particolare tra Dc e Pci, si proponevano un doppio ordine di obiettivi: dare corpo a battaglie di libertà, i cui contenuti sono indispensabili per qualificare lo schieramento delle sinistre nel suo carattere alternativo; e innescare dinamiche unificanti che dalla società potessero salire al sistema dei partiti, sì da portare al successo la parte progressista del paese.

In questo senso, e per quello che le lotte per i diritti civili hanno rappresentato, nel decennio scorso, il contributo radicale nel far crescere fattori sia di unità non frontista che di rinnovamento della sinistra (meglio: di unità di battaglie e atteggiamenti nuovi), è andato ben al di là dell'aver creato occasione di convergenze programmatiche e organizzative. In ciò, anche, il radicalismo è potuto divenire uno dei protagonisti dell'oggi di cui si è dovuto finire per prendere atto, come di una tendenza che attraversa la società e i partiti.

Ma di fronte alla nuova situazione in cui, da un lato, la sinistra non ha voluto perseguire una propria candidatura alla direzione del paese e del suo processo di trasformazione, e dall'altro il suo stesso fallimento ha creato divaricazioni di cui non si capisce né il significato reale né il possibile sbocco, occorre chiedersi se il progetto radicale conserva la sua validità, se la forza radicale ha possibilità e ragione di ulteriore sviluppo, e in quale direzione il radicalismo oggi si muove.

Per rispondere a tali interrogativi in primo luogo occorre tener ben presente il fatto che il progetto "rinnovamento, unità e alternativa" non è stato mai inteso nei suoi termini meccanici. Il "rinnovamento" della sinistra passa - ed è preparato -, in prima istanza, nei valori politicamente fatti vivere in funzione »rivoluzionaria nella coscienza della pubblica opinione e di settori militanti del paese come premessa di qualsiasi operazione partitica. I radicali sono riusciti in questi anni a riproporre, inizialmente isolati, proprio quelle istanza laiche, umanistiche, e libertarie del socialismo, della democrazia e del liberalismo che poi sono penetrate profondamente nell'azione politica mettendo in moto intere fasce sociali fattesi su di esse protagoniste politiche di contrapposizioni politiche ideali.

"L'unità" propugnata dai radicali non è mai stata concepita come pura alleanza tra partiti indipendentemente dai contenuti e dai movimenti unitari che avrebbero dovuto sorreggerla, ma sempre come un modo laico di trovare obiettivi unitari di lotta fra forze che non avrebbero dovuto in nulla annullare le loro caratteristiche. In questo senso sono stati innescati molti progetti politici che hanno contribuito in questi anni a trovare momenti unitari vincenti e non alleanze consociative.

Nella nuova fase che si è aperta, proprio perché non sono possibile né unità delle forze della sinistra basate su alleanze di partiti, né ipotesi di governo alternativo, il ruolo radicale rimane ancora quello di sviluppare, al di fuori di ogni prospettiva di formula e di schieramento, ulteriori momenti unitari e ulteriori momenti alternativi che davvero contribuiscano a rifondare la sinistra, o, almeno, a fare crescere al suo interno e nel paese queste istanze.

La funzione del Pr non è mai stata quella di creare un grosso partito radicale ma quella di dare corpo politico ai valori del radicalismo nella sinistra e per la sinistra. Di fronte agli autoritarismi emergenti che penetrano "anche" nel corpo della sinistra, è più che mai necessario immettere e rafforzare controspinte di libertà nella società e nelle istituzioni, creando ancora una volta occasioni di lotte vittoriose su cui coagulare tanto le forze politiche quanto le energie diffuse che necessitano di sbocco politico.

E' certo che la crisi stessa di identità della sinistra (comunista e socialista), il suo intrecciarsi con la gestione del potere esistente, e lo sviluppo generale delle tendenze autoritarie e corporate richiedono più che mai nel prossimo futuro l'azione - e non le enunciazioni - di una forza ispirata al socialismo libertario che si ponga dichiaratamente fuori dai negoziati e dai luoghi della gestione del potere. Il Partito radicale la può svolgere perché è inerente al suo patrimonio il porsi problemi »di governo dall'opposizione, facendo crescere i valori in nuovi istituti, le spinte sociali in riforme, e dando corpo all'idea che non si governa solo con la gestione del potere attraverso l'apparato statale, ma contribuendo a cambiare anche fuori dal Palazzo i rapporti sociali.

"Di fronte alla svolta socialista"

La recente svolta della dirigenza socialista e le sue enunciazioni sul socialismo che deve farsi garante, nei mezzi che usa e nei fini che persegue, delle libertà, potrebbero far ritenere che l'azione socialista e libertaria del Partito radicale perda ragion d'essere nel momento in cui istanze e valori, in passato ignorati da tutte le altre forze politiche, si possono oggi ritrovare nel Psi. Si è già detto, nell'introduzione, che in tal senso ci sono state esplicite dichiarazioni di questo o quel dirigente socialista che ha manifestato l'intenzione politica del Psi di voler occupare anche il cosiddetto »spazio radicale .

In una discussione come la nostra che si occupa di delineare le linee portanti del radicalismo italiano e del suo futuro, non si può ignorare l'ipotesi del nuovo Psi, anche se per ora essa rimane legata solo a dichiarazioni verbali. Certo, è vero che quando vengono evocate radici e patrimoni della tradizione socialista irriducibilmente contrapposti, da una parte, il filone giacobino leninista e collettivista-autoritario e, dall'altra, quello libertario laico e autonomistico, si coglie una delle questioni fondamentali, in termini di ispirazione ideale, che separa storicamente le diverse posizioni all'interno del movimento operaio e rinnovatore, e in generale nella sinistra.

Una siffatta discussione è importante e non si può che auspicare che i termini della questione vengano ulteriormente approfonditi non solo in rapporto all'eredità storica ma anche ai compiti del presente; e, per ciò che riguarda il Psi, non si può che guardare con simpatia e interesse la sua ricerca di identità, pur se temiamo che essa si possa esaurire in uno sbandieramento di Sacri Testi che poco aiuterebbe a uscire dalle impasse in cui i socialisti e la sinistra tutta oggi si trovano.

I richiami libertari e liberali che appaiono nel dibattito in corso nel Psi sono anche il segno che è stato colto un certo clima del momento. Fino a oggi tuttavia tali richiami non nascono dal concreto delle battaglie promosse dal Psi ma appaiono piuttosto come una sorta di manifesto ideologico che alcuni dirigenti socialisti hanno proposto al loro partito, per cui bisognerà attendere che essi diventino quotidiano nutrimento del concreto operare piuttosto che un'arma dottrinaria sovrimposta a un corpo politico.

Sappiamo tutti quanta distanza corre tra intenzioni e loro incarnazione e, soprattutto, quante difficoltà esistono nel tradurre coerentemente dei principi in azione. Anche il socialismo democratico di Silone e Saragat nel 1974 era animato da buone intenzioni, salvo poi a esserci ritrovati, già negli anni Cinquanta, quel Psdi che tutti ben conosciamo. Se è dunque nell'azione politica che si verificheranno le intenzioni della svolta socialista, occorre anche chiedersi quali sono le difficoltà e le contraddizioni fin da ora individuabili a che il Psi si trasformi in quella grande forza socialista che tutti auspichiamo.

Innanzi tutto non si può dimenticare l'assenza dalla "promozione di lotte politiche", le sole in grado di dar corpo alle aspirazioni libertarie e liberali qualificanti una forza socialista, a meno che non si ritenga la cultura politica solo come una »sovrastruttura strumentale per condurre polemiche, salvo poi a proseguire nei comportamenti in direzione opposta o agnostica: una sola efficace iniziativa vale più di tanti richiami a Carlo Rosselli e a Proudhon. La polemica con i comunisti, a questo riguardo, assumerebbe un valore e un peso ben diversi se, invece di partire dalla diversità della concezione del rapporto tra società partito e Stato, avesse la sua ragione d'essere in contrasti su specifiche risposte a cruciali problemi della realtà.

E', del resto, lo stesso "modo d'essere" del Psi a rendere

problematica l'eventualità che esso sia capace di »occupare il cosiddetto spazio radicale - se mai in politica si possa occupare qualcosa che non siano spazi di potere. L'intreccio tra Partito socialista e strutture di potere e sottopotere, che è ancora determinante nella sua fisionomia, fa di "questo" Psi una forza che ha vissuto e vive anche sulla pratica della lottizzazione (informazione, partecipazioni statali, enti locali...), teorizzandone addirittura la necessità come ovvia conseguenza dei rapporti di forza tra i partiti che governano. Non è forse il Psi il partito il cui corpo nel paese è tuttora costituito da qualche decina di migliaia di amministratori locali o aspiranti tali, il cui agire - in collaborazione con la Dc e con il Pci - è tutt'altro che ispirato ad un modo alternativo di gestione della cosa pubblica?

Una politica che faccia propria l'impostazione dei diritti civili non solo come una facciata posticcia, entra necessariamente in conflitto con quella misurata sul metro del potere e in cui, per tanti versi, si sono formati a ridosso delle pubbliche istituzioni i quadri del Psi nell'ambito e nell'atmosfera dei giochi interpartitici e dell'uso strumentale dell'ideologia. E' improbabile, a questa stregua, che abbia possibilità di svilupparsi una politica radicale del socialismo fino a quando persisterà una rete di condizionamenti su uomini e strutture da parte di un potere che si è configurato come strettamente intrecciato al partito.

Il Psi è ancora oggi un partito troppo plasmato dal suo rapporto vitale con le istituzioni da cui è stato occupato piuttosto che un partito radicale nella società e nei fermenti che in essa si producono.

La tara del centro-sinistra è stata, insieme alla contraddittoria collaborazione con la Dc, la pretesa di poter produrre mutamenti dalla »stanza dei bottoni senza mobilitare quei protagonisti sociali in nome e in favore dei quali si dovevano fare le riforme sociali. Così, anche oggi, la pretesa di collegarsi ed egemonizzare i movimenti emergenti a potenziale socialista o libertario si scontra con la sostanziale non consonanza del modo di essere e di agire del Psi con i movimenti stessi.

Basta, ad esempio, richiamare la contraddittorietà tra l'atteggiamento parlamentare sull'aborto con la ricerca a tutti i costi di compromessi contro il referendum, e il proclamato ma rituale sostegno al movimento delle donne. E rivelatore della stessa ambigua contraddittorietà è anche il comportamento generale del Psi nella vicenda dei due referendum dell'11 giugno: da un lato esso ha dato ufficialmente l'indicazione di opporsi all'abrogazione, non avendo il coraggio di imboccare la strada rettilinea almeno sulla legge Reale; e dall'altro ha, con la libertà di coscienza, ammiccato all'umore del paese incoraggiando un voto contro la consociazione dei partiti di cui è parte.

Certo non è facile inventare i modi attraverso cui si stabilisce un collegamento tra partiti e movimenti sociali che per la loro natura non vogliono essere mediati, ma questa ricerca non passa certo né attraverso un uso del personale politico della nuova sinistra e del movimento senza fare propria l'essenza di dieci anni di lotte extraistituzionali, né nelle proclamazioni teoriche.

Nonostante i recenti importanti rinnovamenti, la natura e la cultura politica del Psi, così come vivono nella maggior parte dei meccanismi che lo compongono, rimangono quelle di un partito funzionale alla gestione piuttosto che di un partito modellato - poco importa se dal governo o dall'opposizione - a far crescere concretamente i valori della libertà, della eguaglianza e della democrazia. Certo, all'interno dei luoghi del potere si possono esercitare funzioni diverse, di accettazione passiva dello status quo o di dialettica innovatrice con le altre forze che vi sono impiantate. E non c'è dubbio che la pubblica opinione comincia a percepire il Psi come un partito distinto e distante sia dal Pci che dalla Dc, e in competizione con essi; ma fondamentalmente esso è ancora ritenuto - e a ragione - come un socio di quel "club di partiti" rispetto ai quali monta la protesta della gente che li ritiene "tutti" responsabili delle non-soluzioni dei problemi del paese.

Un passo avanti i socialisti lo stanno facendo con il fatto di voler parlare al loro esterno e di voler raccogliere energie nuovo e valide invece che di chiudersi in un dibattito tutto interno alle questioni di cucina del partito: e di ciò potranno vedersi in futuro i risultati nei rapporti di forza con i comunisti ai quali fino a ora è stato lasciato il monopolio dell'insediamento nel paese.

Se saranno fatti dal Psi concreti passi avanti nel trasformare il suo modo di essere e nel promuovere attivamente quelle battaglie dei diritti civili che oggi proclama teoricamente di sostenere allora sarà naturale la convergenza tra socialisti e radicali del Pr e radicali e socialisti del Psi in qualcosa di nuovo tutto da inventare che deve nascere dal fuoco delle lotte nel paese.

Spetta per il momento ai radicali mantenere fermissima la presenza di un polo politico che è stato fattore soggettivo della ricostruzione di una politica carica di »alterità , e stimolo determinante nella crescita di quegli orientamenti di opinione pubblica a partire dai quali si rende anche possibile quella trasformazione del Psi ancora tutta in potenza. La funzione radicale è stata ed è proprio quella di avere dato corpo a una diffusa esigenza di una politica diversa - e, cosa non meno importante, di averne innalzata la bandiera -, capace di suscitare speranze e talora entusiasmi. Né il dibattito sull'egemonia, né la polemica sul leninismo sono di per sé sufficienti a ricostruire la realtà e l'immagine di un socialismo libertario capace di rispondere alla domanda di tensione ideale e di dialettica politica che l'appiattimento dei partiti ha provocato.

L'interesse alla revisione ideologica percorre non solo il Psi ma anche il Pci, e ve ne sono importanti segni. I vecchi contenuti si sgretolano perché inadeguati a fornire positive risposte e perché tutti percepiti - socialisti e comunisti - come sostanzialmente simili anche se ammantati di diversità verbali. Quella gran parte del paese che vuole il cambiamento continua in larga misura a riconoscersi nel Pci e in misura minore nel Psi. Merito dei radicali anche di fronte a queste masse è di aver reintrodotto in questi anni il valore dello "scontro politico", come fattore essenziale a non far perdere fiducia nella politica e quindi a far crescere la maturità civile del paese. L'effetto di una politica centrata sulla chiara alternatività e alterità di posizione è fatto sentire oggi nel Psi e forse anche nel Pci.

Quello che oggi occorre chiedere ai socialisti, e certamente anche ai comunisti, è di trasferire gli scontri dal campo della dottrina a quello della politica, perché solo così la sinistra potrà riconquistare reale credibilità di movimento »altro dai gestori dell'ordine e quindi sarà in grado di riaccendere la speranza di un possibile futuro migliore.

"Contro i miti onnicomprensivi"

Qual è, dunque, complessivamente, il ruolo che il nuovo radicalismo italiano assolve in presenza di quel generale rimescolamento delle carte che investe la sinistra in tutte le sue componenti e, addirittura, modifica parzialmente il significato di termini come "sinistra" e "destra"? E quali sono i caratteri distintivi, come cultura politica e quindi come politica, che avvicinano i radicali o li dividono dalle altre correnti della sinistra? Nel tentativo di analizzare la materia su cui poggiano tali interrogativi, non si può guardare solo al passato e al presente, ma occorre anche prospettare delle ipotesi per il futuro.

A noi sembra che la risposta del radicalismo tenda e debba ancor più tendere a offrire non già modelli globali definiti o anche parziali di trasformazione del corpo sociale dei suoi rapporti con le istituzioni, ma a mettere a disposizione degli individui, comunque aggregati, gli strumenti e gli spazi in cui sia possibi le esprimere la propria identità e sviluppare il potenziale che gli uomini hanno in loro di intervenire attivamente sulle scelte che riguardano le proprie vite.

Il radicalismo non è mai stato la prefigurazione e la ricerca di una società ideale ma un processo di individuazione, anche attraverso tentativi ed errori, dei nodi del potere da far deperire e delle dimensioni sempre nuove della libertà da guadagnare. Se questa è, in una formula, l'eredità storica, oggigiorno l'emergenza dei movimenti, o di semplici comportamenti collettivi di liberazione, sembra essere legata a una domanda da parte di gruppi sociali, situazionali e etnico-regionali, di poter sviluppare la propria identità e la propria diversità come controtendenza all'attuale processo di massificazione, di omogeneizzazione e di accentramento comunque contenente in sé germi autoritari.

E' quel processo già individuato da Pier Paolo Pasolini, su cui lo scrittore aveva con lucidità centrato l'attenzione negli ultimi anni della sua vita: »Oggi (...) l'adesione ai modelli imposti dal Centro, è totale e incondizionata. I modelli culturali reali sono rinnegati. L'abiura è completa. Si può dunque affermare che la ``tolleranza'' della ideologia edonistica voluta dal nuovo potere, è la peggiore delle repressioni della storia umana (...) la rivoluzione delle infrastrutture e la rivoluzione del sistema di informazione. Le strade, la motorizzazione ecc. hanno ormai strettamente unito la periferia al Centro, abolendo ogni distanza materiale (...) per mezzo della televisione, il Centro ha assimilato a sé l'intero paese, che era così storicamente differenziato e ricco di culture originali. Ha cominciato un'opera di omologazione distruttrice di ogni autenticità e concretezza. Ha imposto cioè (...) i suoi modelli: che sono i modelli voluti dalla nuova industrializzazione, la quale non si accontenta più di

``un uomo che consuma'', ma pretende che non siano concepibili altre ideologie che quella del consumo. Un edonismo neolaico, ciecamente dimentico di ogni valore umanistico e ciecamente estraneo alle scienze umane . (Pier Paolo Pasolini, "Acculturazione e acculturazione", in "Scritti Corsari", Milano, Garzanti, 1975, p. 32, già nel »Corriere della sera , 9 dicembre 1973).

Pertanto, il radicalismo italiano, e in generale quello del nostro tempo nei paesi sviluppati - il nuovo radicalismo - se ha radici lontane nella prima età industriale di democrazia borghese, assume oggi valenze e connotati diversi. Li si può sintetizzare nell'intento di corrispondere maggiormente alla domanda di liberazione da una società bloccata e ingabbiata in una molteplicità di strutture burocratiche proprie del mondo industriale complesso, e nelle volontà di ricercare, e magari inventare, gli strumenti politici - senza pregiudizio alcuno, ideologico e dottrinario - attraverso cui possono prendere forma le molteplici spinte di "libertà", di "eguaglianza" e di "convivialità" che provengono direttamente dalla dinamica sociale.

Il radicalismo non crede nella possibilità di controllare tutti gli elementi che consentono una trasformazione globale e ritiene illusori e destinati al fallimento (o peggio, pericolosi) tutti i tentativi relativi. Al contrario esso crede nel valore di specifici progetti e di circoscritte battaglie di libertà, quali strumenti adatti a generare trasformazione e liberazione sociale.

Del resto è la stessa storia recente del nostro paese, e più in generale quella dei paesi dell'occidente europeo a dimostrare non solo la giustezza di una tale impostazione ma anche la sua efficacia in termini di risultati conseguiti e conseguibili.

Quando si parla del tramonto dei modelli, e sempre più insistentemente dello stesso tramonto dell'idea di socialismo come punto di arrivo, non si allude evidentemente soltanto al logorio della banale concezione finalistica della lotta politica, ma anche a quello del suo procedere attraverso progetti onnicomprensivi.

Cade il programma comune delle sinistre in Francia, cade il compromesso storico e si sfuoca la stessa idea di alternativa in Italia, incontrano difficoltà e sono elettoralmente sconfitte le solide socialdemocrazie scandinave: evidentemente tutto ciò non è il frutto di una contingenza politica ma anche il risultato di una perdita obiettiva di forza di tutti i progetti e dei relativi miti onnicomprensivi che hanno nutrito per tanti anni le sinistre del mondo sviluppato.

La stessa irriducibilità dei movimenti e delle loro istanze ai partiti e alle loro consuete forme di strutturazione prova che la strada percorribile per processi di trasformazione e liberazione passa ormai, senza illusioni, attraverso singoli segmenti di lotta e l'accettazione della loro coesistenza e molteplicità.

Pertanto il patrimonio ideale e la prassi di un radicalismo che guarda al futuro ne fanno oggi una cultura politica consonante a questa situazione della società industriale di massa e gli consentono di candidarsi a dare le necessarie risposte politiche in cui si è espressa la varia famiglia delle lotte socialiste e libertarie in Europa. Come nel passato, ancora una volta, radicalismo e socialismo si intrecciano fecondando reciprocamente tradizioni, culture e ipotesi di lavoro nell'ambito di una visione laica della società e della storia che è stata propria di molte esperienze politiche e politico-culturali della grande galassia del socialismo occidentale non-leninista.

"Radicalismo o marxismo, convivialità o tecnofascismo"

Come per il passato, così non si potrà ignorare per il futuro che, dalle diverse visioni della politica, discende una "contrapposizione tra radicalismo e marxismo comunista", per la loro diversità. Esserne consapevoli non significa tuttavia ipotecare scontri e contrasti irrisolvibili ma avere gli strumenti per individuare nella politica e nell'azione le possibili forme di convergenza e collaborazione tra forze che si ispirano alle due tradizioni. Infatti, se v'è un nocciolo comune delle diverse famiglie marxiste è l'idea di totalità (»Il metodo marxista è uno strutturalismo genetico generalizzato retto dall'idea di "totalità" , Lucien Goldmann, "Per un'impostazione marxista degli studi sul marxismo", in Braudel, "La storia e le altre scienze sociali", Bari, Laterza, 1974, p. 251) della dialettica sociale per intervenire su di essa al fine di delineare le caratteristiche del sistema sociale da costruire. E' una concezione della trasformazione della società e della storia che aspira a un futuro interamente pro

gettato.

E non è soltanto il socialismo reale dei paesi dell'Est ad avere fornito ampia prova del fallimento della possibilità di progettare interamente società più libere e più eguali, ma lo dimostrano anche tutte le situazioni in cui hanno agito partiti e movimenti comunisti o comunque rifacentisi al »socialismo scientifico . Se ne era accorto anche quel grande realista che è Giorgio Amendola quando nel 1964 aveva affermato, in un intervento tanto famoso quanto inascoltato, che in Europa »nessuna delle due soluzioni prospettate negli ultimi cinquanta anni, la soluzione socialdemocratica e la soluzione comunista, si è rivelata fino ad ora valida al fine di realizzare la trasformazione socialista della società (Giorgio Amendola , in »Rinascita , 28 novembre 1964).

In questo momento di disorientamento e di crisi occorre tener presente un dato di fatto, storico e attuale. La visione laica del socialismo e la visione del radicalismo da un parte, e le aspettative di trasformazione globale del marxismo dall'altra, portano inevitabilmente a conflitti che prima ancora che nella strategia hanno radici nella cultura. E' per questo che abbiamo più volte affermato che lo scontro tra radicali e comunisti in Italia ha ragioni profonde e non può essere ridotto a motivi contingenti.

E' tuttavia una realtà quella del Partito comunista che, in Italia così come in Francia, inquadra e rappresenta forze decisive di trasformazione sociale. Da qui la necessità per chi, come noi, aspira a mettere in moto processi di mutamento che non riguardino soltanto minoranze ma abbiamo come riferimento la direzione politica del paese, di costruire nella concretezza di azioni politicamente significative momenti di collaborazione tra diversi, e di confronto tra soluzioni specifiche pur ispirate da patrimoni divergenti. Questo è - senza dubbio - il grande problema dei paesi dell'area mediterranea, e dell'Italia in particolare, in cui la gran massa delle classi lavoratrici è storicamente organizzata dai movimenti comunisti.

La contrapposizione che discende dalla teoria e dai patrimoni ideali tra il campo del marxismo-comunismo e quello del socialismo-radicalismo non è tuttavia premessa sufficiente per individuare ipotesi politiche e schieramenti o appropriate convergenze e divergenze nelle lotte. Da essa non discendono automaticamente chiare linee di divisione tra le soluzioni che occorre dare ai problemi che ci sono di fronte e, con essa, non si esauriscono neppure le demarcazioni ideali e teoriche che insistono all'interno della sinistra delle forze del mutamento.

V'è un'altra contrapposizione all'interno del campo socialista che non ha le radici tanto nei Sacri Testi e nei richiami, appropriati o strumentali, che a essi si vanno facendo in questa stagione, quanto nell'atteggiamento ideale e pratico che le diverse forze assumono di fronte ai nodi cruciali del momento: "progresso e qualità della vita, sviluppo, rapporto con la natura e questione nucleare".

In gran parte le forze socialiste in Europa, dal governo o dall'opposizione, hanno fondato nei decenni scorsi e ancora oggi fondano le loro politiche essenzialmente su una gestione modernizzatrice dell'ordine esistente e sull'intervento dello Stato come ridistributore delle risorse. Ne beneficiano quei ceti e quelle classi lavoratrici che costituiscono la base delle loro forze politiche ed elettorali costituiti in gruppi di interesse, i quali, appunto, per mezzo delle organizzazioni partitiche e sindacali del movimento operaio, intervengono attivamente nel grande negoziato della scena politica nazionale.

E' la storia del socialismo democratico, del laburismo e di tutte quelle altre forze in Europa che, pur caratterizzate da una visione non leninista e non centralista dello Stato e pur formalmente rispettose delle libertà e dei diritti civili e del pluralismo, hanno fondato le loro fortune a ridosso dell'intervento regolatore del settore pubblico su un'ipotesi fondamentale di adesione a un postulato mai messo apertamente in discussione: il progresso indefinito come valore in sé, da cui discendono i corollari dello sviluppo e del benessere.

Anche in Italia la svolta politica e culturale degli anni Sessanta che si tradusse nel centro sinistra si basava su tali premesse e tendeva - se non fosse stata vanificata già in partenza dal sistema di potere democristiano - ad accreditare e realizzare la possibilità di una trasformazione sociale all'insegna dell'"ottimismo tecnocratico del progressismo".

Oggi l'adesione del socialismo italiano del Psi ai valori e alla linea cosiddetta »europea può significare la ripresa, con maggiore forza e vigore, proprio di quel filone che traduce concretamente in una politica di gestione modernizzatrice le premesse teoriche di autonomia e i richiami libertari. Come dati fondanti di questa linea, che apparentemente non contraddice l'aspirazione all'espansione della libertà e della democrazia nel perseguimento dei maggiori gradi di giustizia sociale, rimangono i postulati di sempre: progresso, sviluppo, benessere, razionalizzazione.

Ma i termini dell'equazione socialista stanno cambiando. Non si tratta più di rafforzare lo Stato interventista: anche laddove ha ottenuto i migliori risultati in termini di giustizia sociale e di democrazia, esso è stato avvertito come una grande struttura la cui ulteriore espansione aumenterebbe, con il suo carattere di grande apparato centrale e burocratico, i pericoli per la libertà e lo sviluppo delle autonomie. Lo Stato del benessere ha fatto il suo tempo.

Il postulato del progresso basato sulla indefinita crescita industriale è ormai in discussione come valore positivo per lo stesso futuro di una possibile sopravvivenza dell'umanità. Non si tratta più di scegliere tra mano pubblica e mano privata nella gestione della complessità economica e sociale delle società sviluppate, ma di "scegliere tra più sviluppo o più democrazia". Al benessere divenuto mito nell'era del dopoguerra dobbiamo contrapporre la ricerca di una diversa qualità della vita, a cui è necessario, magari, sacrificare l'accrescimento delle risorse materiali individuali oltre una certa soglia divenuta critica, superando la quale si ottengono effetti contrari a quelli ricercati con la liberazione dal bisogno.

Connessa con la questione del benessere e della democrazia è quella dell'"energia nucleare", il nuovo strumento per realizzare lo sviluppo e per consentire quindi il presunto miglioramento delle condizioni di vita. Il dibattito sulle fonti alternative è aperto e non abbiamo qui l'intenzione e la possibilità di riprenderlo: se non per sostenere, come schematico punto di riferimento, che ipotesi democratiche e socialiste non possono ottenere con la formula »energia nucleare più democrazia rappresentativa (come già quella comunista era »soviet più elettrificazione ), perché l'assetto che comporta il primo termine (centralizzazione, militarizzazione della società, estensione dei controlli) è in contraddizione con le esigenze del secondo.

Non è un caso che proprio rispetto a questi postulati, ritenuti fissi o al massimo neutrali, dalla stessa cultura e pratica socialista e democratica, siano insorti, con la forza delle spinte di massa i nuovi movimenti. E non è neppure un caso che i nuovi valori umanistici e libertari di cui, se pur confusamente, si sono fatti talora interpreti i nuovi soggetti sociali di cui abbiamo in precedenza discusso, entrano in un contrasto insanabile con quelli propri di un ordine apparentemente razionale fondato sull'etica del lavoro, della produttività e della potenza.

All'interno della nebulosa socialista dobbiamo misurarci - unirci o dividerci - con opzioni diverse, contrastanti e tra loro alternative: quelle di un radicalismo e socialismo libertario che si fanno carico dei nuovi valori su cui orientare il concreto operare politico conseguente a quella che è la vera »scelta di civiltà di oggi; e l'altra di un socialismo, magari formalmente democratico e autonomista, che seguita a ignorare le grandi contraddizioni del momento: la vita o la morte, lo sviluppo o la quantità della vita, la ragione industriale o quella del rapporto con la natura, la logica ferrea dei grandi apparati (statali, militari, assistenziali...) che sembrano necessari al pilotaggio del mondo moderno, oppure la ricerca di una dimensione dell'organizzazione sociale, civile ed economica su una diversa scala di priorità, in cui, solo per fare tre esempi che direttamente riguardano le cose italiane d'ogni giorno, la tutela dei diritti civili, l'accesso all'informazione e la difesa dell'ambiente assumono u

n posto centrale.

Si tratta di quella alternativa che Ivan Illich ha lucidamente individuato nella sua ricerca sulla "convivialità", un termine che - accanto a »libertà e a »eguaglianza - prende ormai il posto della »fraternità nella triade dei valori che sono alla base della rivoluzione democratica moderna. André Gorz, un marxista che ha compreso e chiarito il grande dilemma del momento, presenta così, in "Ecologie et Politique" (Le Seuil, 1978, p. 23), l'alternativa di fronte a cui ci troviamo:

» - O noi ci raggruppiamo per imporre alla produzione istituzionale e alle tecniche dei limiti che padroneggiano le risorse naturali, preservano gli equilibri propizi alla vita, favoriscono la piena realizzazione e la sovranità delle comunità e degli individui: "ed è l'opzione conviviale";

» - oppure i limiti necessari alla conservazione della vita saranno calcolati e pianificati centralmente dagli ingegneri ecologisti, e la produzione programmata di un ambiente di vita ottimale sarà affidata alle istituzioni centralizzate e alle tecniche presenti. "E' l'opzione tecno-fascista", sulla cui via ci siamo già a metà incamminati: ``Convivialità o tecnofascismo'' .

 
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