di Ernesto Galli della LoggiaSOMMARIO: Un saggio sulla natura e le radici storiche del nuovo radicalismo e un confronto sulla questione radicale con interventi di: Baget-Bozzo, Galli, Ciafaloni, Tarizzo, Galli della Loggia, Lalonde, Alfassio Grimaldi, Are, Asor Rosa, Corvisieri, Orfei, Cotta, Stame, Ungari, Amato, Mussi, Savelli.
(SAVELLI editore, ottobre 1978)
Indice:
Parte prima
I Politica e società (1376)
II Radicali sotto accusa (1377)
III Il Pr come partito bifronte (1378)
IV Radicalismo e socialismo (1379)
V Radicalismo o marxismo, convivialità o tecnofascismo (1380)
Parte seconda
Un confronto sulla questione radicale (1381 - 1397)
Il »qualunquismo e i radicali
di Ernesto Galli della Loggia
(»Argomenti radicali , n. 3/4, agosto-novembre 1977)
1. Un italiano »di sinistra (vaghezza ineluttabile delle parole) che abbia come chi scrive 35-40 anni ha il diritto di fare un bilancio di ciò che la storia del proprio Paese gli ha riservato durante i tre lustri che coprono la sua vita adulta.
I bilanci, d'accordo, dovrebbero basarsi soltanto sui fatti, ma in certe circostanza anche le sensazioni, prese di per sé, diventano fatti; senza contare che le sensazioni alludono comunque a dei fatti: averli ritenuti secondari o poco importanti, più di una volta si è dimostrato un grave sbaglio.
La sensazione generale degli ultimi tre lustri, dunque, è quella di una »lunga marcia , di tipo particolare, che non assomiglia né a quella di Mao né a quella, un tempo fantasticata, attraverso le istituzioni; la nostra ricorda sempre più una lunga marcia verso il »Sempre Eguale verso l'»Eterno Vuoto come in una famosa novella d fantascienza (s'intitola "La frontiera" se non sbaglio) dove l'umanità, raggiunto ormai il confine dell'universo conoscibile oltre il quale "non si può" andare, passa il suo tempo ad organizzare lunghe gite con lo scopo di sostare al limite estremo dell'esistente e di lì gettare sguardi inutili al Niente per riceverne di ritorno, come in uno specchio, l'immagine di ciò che è alle spalle dei gitanti stessi, che essi già conoscono, e che d'ora innanzi sarà il loro non mutabile palcoscenico.
Molti italiani avvertono questa impressione. Eppure lo sappiamo che »si sono fatti molti passi avanti (i risultati elettorali non lo dimostrano?), che oggi stiamo meglio di 15 anni fa (anche se al prezzo, probabilmente, di aver gettato le basi per gravi crisi future), ed è anche vero che per molti versi oggi siamo più liberi (nonostante basti tuttora la firma di un signor prefetto per sospendere un paio di diritti costituzionali a tre milioni di cittadini: adesso però, rispetto a prima, gli ci vuole il permesso dell'»arco costituzionale ).
Il fatto è che a questa »avanzata e a questo »miglioramento non si è accompagnata alcuna avvertibile immagine di risarcimento sociale, di riparazione nei confronti di una parte, di ristabilimento di eguaglianza (si sono create anzi diseguaglianze nuove: vedi la giungla retributiva). Il »miglioramento ha riguardato "tutta" la società e dunque non meraviglia che esso sia sentito, in fondo, come qualcosa di »naturale . E' accaduto, insomma, che la sinistra non solo non è riuscita a dare a questo »miglioramento il proprio »segno , ma che, dandoglielo anche il Potere, esso non sia sentito come una »conquista bensì come un ovvio prodotto dei tempi e delle cose, e in un certo senso quindi lo sia.
Una parte decisiva nel creare questa sensazione ha avuto la strategia adottata dalla sinistra: evitare fino al possibile (e all'impossibile) lo scontro, mediare, contrattare, aggregare. Non importa discutere qui le possibile alternative; sta di fatto che nel corso di questo »miglioramento così realizzatosi è diventato inevitabile che pian piano si attenuasse fino a sembrare spegnersi del tutto ogni contrasto ideale, ogni tensione morale, ogni sentimento di sfida e di lotta. Ci si può ritenere vittoriosi, infatti, soltanto a patto che si ritenga di aver lottato; ma perché la gente pensi di aver lottato è necessario che vi siano dei "simboli" di lotta, che nasca e si diffonda, se si vuole, una "mitologia" della lotta. In un regime democratico questi simboli sono gli attacchi duri sulla stampa, i manifesti aggressivi, i grandi ed aspri dibattiti parlamentari, le manifestazioni mobilitanti, un linguaggio senza peli sulla lingua, non già le trattative estenuanti intorno a un tavolo o una decisione mediatrice sca
turita dopo tre settimane di discussione (e di mass media implacabili che informano ogni sera che si è continuato a discutere e a non decidere nulla). Ed egualmente, per fare un altro esempio, può rivestire un forte carattere simbolico positivo la conquista elettorale di una regione, ma ha un valore simbolico disastrosamente negativo affidare la presidenza della medesima regione al partito contro cui la lotta si è svolta.
La lotta politica - anche, e forse soprattutto, contemporanea - è stata sempre piena di simboli, specialmente a sinistra: dalla bandiera rossa alla falce e martello, all'appellativo di »compagno . Simboli ingenui, d'accordo, ma accanto a questi ve n'è sempre stato un altro meno ingenuo perché in concreto prefigurava un diverso tipo d'uomo e dunque una diversa società, voglio dire la diversità antropologica.
La strategia del »miglioramento e dell'avanzamento concordati fatta propria dal Pci (che in Italia oggi come oggi è la sinistra data la latitanza del Psi nel passato e il suo vano agitarsi attuale) divenendo politica quotidiana e traducendosi in una pratica unanimistica, estenuantemente interlocutoria, più attenta alle formule che ai fatti, ha avuto (o sta avendo) l'effetto fatale di cancellare agli occhi della gente proprio queste diversità antropologiche.
Non si tratta di una superficiale impressione del solito uomo della strada. In modo inavvertibile ma sempre più concreto, infatti, la Sinistra, il Pci, entrando nel Palazzo, si uniformano, tendono ad adeguare il proprio linguaggio (un linguaggio ellittico, riguardoso, sfumato), i propri modelli di comportamento, il proprio modo d'intendere e di fare la politica, perfino i propri visi, le proprie facce, a quelli che da anni si trovano là dentro. Ne risulta di nuovo legittimato, e sembra quasi stagliarsi su un futuro di immutabile eternità, tutto ciò verso cui l'italiano medio di sinistra ha accumulato in vari lustri un'insofferenza che non è epidermica o di costume ma che viceversa trae origine da giudizio politico su un'intera classe di governo e sul suo modo di governare, e dunque sulle sue stars, sul suo cerimoniale ed i suoi riti: lo »smaliziato Andreotti, l'»oscuro on. Moro, il volto vispo-ammonitorio del suo gemello »cavallo di razza , l'immancabile passaggio dell'on. Donat Cattin dalla destra alla si
nistra (o viceversa), i discorsini evasivi e rassicuranti. Tutto, ora ci viene riproposte e a tutto ci viene chiesto di credere. Come 15 anni fa gli articoli dell'»Espresso iniziano: »La sera di mercoledì Piccoli telefonò imbarazzato a Zaccagnini con quel che segue.
2. Nel repertorio concettuale e nel linguaggio della sinistra, per indicare questa sensazione che ho tentato di descrivere si usa una parola che al solo pronunciarla dovrebbe evocare all'istante il marchio dell'infamia: qualunquismo! L'aggettivo »piccolo borghese segue di solito come al boia segue l'esecuzione. Io credo, tuttavia, che non ci si debba far spaventare dalle parole e che senza vergogna si possa e si debba dire che il Partito radicale rappresenta (o tende a rappresentare, o potenzialmente rappresenta, poco importa) la protesta »qualunquista del paese. Naturalmente però, a questo punto si tratta di vedere cos'è veramente il qualunquismo.
Lasciamo da parte la fiammata rappresentata da Giannini, la quale ebbe le sue cause singolarissime nel momento storico che la società italiana si trovò a vivere nell'immediato dopoguerra. In generale direi che il »qualunquismo è un fenomeno tipico pressoché esclusivamente dei regimi democratico-rappresentativi e specialmente di quelli »avanzati . Questi regimi sono caratterizzati da tre elementi: primo, le tensione tra i gruppi sociali per la ripartizione della ricchezza non hanno carattere di scontro "politico" ma sono variamente mediate (dai sindacati, dallo Stato) sì da eliminare, con l'aiuto tra l'altro di una forte spesa pubblica, l'eccessiva diffusione di condizioni intollerabile d'esistenza; secondo, proprio per questo la politica si riduce sempre più alla prassi della contrattazione, ci si mette d'accordo, con l'effetto da una parte del venir mento delle differenze ideologiche, dall'altra della concentrazione di un enorme potere di decisione sociale nella classe di governo che gestisce la mediazione
contrattata; da ultimo, infine, esiste in questi regimi un'omogeneità antropologica diffusa tra i vari settori della popolazione, ormai distinguibili unicamente dalla scala dei redditi, che rende ancor più improponibile una diversità ideologica reale.
E' in queste situazioni che il »qualunquismo alligna sempre in misura più o meno massiccia. Esso si esprime in vari modi: come abituale diserzione elettorale, come scarsa »coscienza di classe (non credo sindacale però), come generica indifferenza nei confronti della »politica . Il »qualunquismo , insomma, è il sintomo del fatto che i meccanismi democratico-rappresentativi con tutte le loro appendici interessano sempre di meno il cuore e il cervello della gente. La gente avverte la sensazione che il regime statuale-politico forma la propria volontà ed agisce sopra la testa dei cittadini, è loro sostanzialmente estraneo.
Il »qualunquismo , dunque, prende atto dei caratteri del sistema che ha di fronte e li ribalta: se il sistema non comporta più alcuno scontro ideologico politico, ebbene esso sarà contro le ideologie e contro la »politica ; se nel sistema è la classe politica che di fatto governa rinnovandosi per cooptazione, allora esso sarà contro la classe politica e per la sua radicale scomparsa; se il sistema viene sentito come qualcosa di estraneo dalla popolazione il qualunquismo proclamerà la proprie estraneità al sistema.
Ora, di tutto ciò si potrà dire ciò che si vuole ma è difficile negare che, stando le cose nel modo suddetto, il »qualunquismo è perfettamente adeguato all'effettiva natura della realtà, o perlomeno di una sua parte, che però in un regime democratico-rappresentativo di massa ha valore fondamentale. Esso smaschera i veli formali della pretesa "Grosspolitik" del potere e ne mostra con le piccole miserie i grandi danni inferti allo spirito autentico delle istituzioni.
Per la base su cui nasce e per i sentimenti che esprime il »qualunquismo , da ultimo, è destinato naturalmente, il più delle volte, a incontrarsi e a mischiarsi con il populismo. Quel populismo, di cui la storia nordamericana fornisce grandi esempi, e che in questo caso significa la contrapposizione al potere e alla classe politica che lo amministra da parte di un'entità indifferenziata il cui connotato è quello di essere "fuori" dal potere stesso, di non parteciparvi e anzi di sentirsene tradita; significa l'idea che il popolo deve riappropriarsi del potere che solo è suo per esercitarlo a reale beneficio della comunità. E' del tutto spiegabile, infine, che a causa delle caratteristiche generali delle società in questione, tale contrapposizione al »potere sia vissuta e si alimenti essa stessa come contrapposizione allo Stato sfociando nell'esito tipico di un libertarismo antistatualista.
3. Non voglio davvero negare la presenza nell'ideologia del Partito radicale di altri elementi, ma mi pare che oggi come oggi il fondo »qualunquismo - populistico sia il suo tratto essenziale. Essenziale perché è quello che all'esterno spicca con maggiore rilievo in ciò che il partito fa e dice e - cosa particolarmente importante - nell'immagine antropologico-comportamentale che il partito dà di se stesso. L'abbigliamento non formale ma neppure stravagante, la semplicità cruda del linguaggio ben diverso dall'astrattezza esoterica della nuova sinistra, l'autenticità dei volti, la passione un po' esibita ma reale, ne sono una prova.
Del richiamo »qualunquistico che i radicali esercitano, coloro che sembrano essere più avvertiti (e dunque più spaventati) sono i comunisti. Come Togliatti 30 anni fa con Giannini essi colgono da una parte il contenuto reale del disagio e della protesta cui il Partito radicale dà voce, dall'altra comprendono la sua potenziale capacità di espansione non solo a sinistra ma lungo linee che dalla sinistra possono arrivare alla destra anche estrema. Tanto più che il Pci sa bene che il prevedibile svolgimento della strategia del compromesso storico non farà altro che accrescere le cause che hanno fin qui spinto l'opinione pubblica ad appoggiare l'azione dei radicali. Il Pr, infatti, si presenta come l'unica forza politica - democratica e con una potenzialità da vasto seguito - che, restando al di fuori della grande coalizione del 92%, è in grado di ambire in un futuro più o meno lontano al ruolo di opposizione, ruolo, non c'è bisogno di dirlo, che il ?Pci si è abituato ad esercitare in regime di pressoché totale
monopolio e che, avendone tratto grandi vantaggi, vorrebbe continuare ad esercitare pure... stando al governo.
In questo modo si spiega la durezza estrema di linguaggio - ricambiata del resto, ma in modo diverso - che i comunisti adoperano nei confronti del Pr, con uso di termini (»mascalzone e »mascalzonate non sono infrequenti) ed una volgarità di argomenti che può arrivare nel caso dei quadri di sezione, come è capitato di sentire a chi scrive, fino ad attribuire a Pannella la qualifica di omosessuale (anzi di »frocio ), da chi la usava ritenuta evidentemente il massimo dell'infamia.
Questa violenza polemica è in realtà la veste più adatta e più ovvia per abbigliare la linea che secondo ogni evidenza il Pci ha deciso di tenere verso i radicali, e cioè quella di presentarli come una forza dai connotati ambigui, non di »sinistra , il più delle volte anzi antidemocratici e provocatori.
Personalmente non credo che, continuando il Pr ad essere quello che è oggi, questo tentativo possa avere successo. Esso, infatti, non tiene conto di un elemento capitale, e cioè che il »qualunquismo populistico rappresentato dai radicali è tale solo per l'antideologismo populistico dei suoi presupposti e della sua pratica, ma l'una e l'altra si muovono sul terreno della più schietta democrazia: non solo per la lunga e »feroce fedeltà che i radicali hanno sempre dimostrato alle istituzioni e ai principi della Carta costituzionale, ma soprattutto perché tutte le battaglie che hanno intrapreso sono state orientate dal liberalsocialismo più ortodosso.
Che del resto risulti impossibile »ghettizzare in un limbo antidemocratico e non di »sinistra i radicali, i comunisti lo potrebbero facilmente capire solo che ricordassero i temi e il tipo di opposizione da essi stessi svolto per tanti anni, perfino nelle più fitte tenebre dello stalinismo. Erano quei temi e quel tipo di opposizione anch'essi per buona parte improntati alla linea del liberalsocialismo, all'interno di un involucro di qualunquismo populistico: probabilmente perché, aggiungiamo noi, in un regime democratico questa è l'unica opposizione di massa concepibile.
Ma proprio perché l'opposizione del Pci è sempre stata democratica, a difesa della Costituzione, interclassista e scevra di ogni ortodossia operaista, essa ha fondato una tradizione nella sinistra. E' ora sommamente difficile cancellare quella tradizione e togliere a chi impugna le stesse bandiere al qualifica di »sinistra . E che sia difficile lo dimostra il tentativo, per ora sporadico, di ricorrere ad altre armi, per esempio alla »criminalizzazione , com'è accaduto a Roma il 12 maggio di quest'anno quando il Pci ha tentato di trasformare i radicali in complici dell'eversione antiistituzionale.
Insomma, il compito che l'esistenza del Pr pone ai comunisti consiste nell'accettare il fatto che in una democrazia, così come esistono i partiti di governo, possono, anzi devono, esistere anche partiti di opposizione e che questi non necessariamente sono fascisti o impugnano la P38.