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Archivio Partito radicale
Cotta Sergio, Corleone Franco, Panebianco Angelo, Strik Lievers Lorenzo, Teodori Massimo - 1 ottobre 1978
RADICALI O QUALUNQUISTI?: (19) Perché dissento dai radicali
di Sergio Cotta

SOMMARIO: Un saggio sulla natura e le radici storiche del nuovo radicalismo e un confronto sulla questione radicale con interventi di: Baget-Bozzo, Galli, Ciafaloni, Tarizzo, Galli della Loggia, Lalonde, Alfassio Grimaldi, Are, Asor Rosa, Corvisieri, Orfei, Cotta, Stame, Ungari, Amato, Mussi, Savelli.

(SAVELLI editore, ottobre 1978)

Indice:

Parte prima

I Politica e società (1376)

II Radicali sotto accusa (1377)

III Il Pr come partito bifronte (1378)

IV Radicalismo e socialismo (1379)

V Radicalismo o marxismo, convivialità o tecnofascismo (1380)

Parte seconda

Un confronto sulla questione radicale (1381 - 1397)

Perché dissento dai radicali

di Sergio Cotta

(»Argomenti radicali , n. 6, febbraio-marzo 1978)

C'è un punto sul quale sono d'accordo coi radicali: il modo d'intendere il partito politico. In una democrazia autentica, esso non può essere un connubio di oligarchismo e burocratismo, una macchina di potere, cui servono di copertura, troppo spesso mistificante, delle ideologie generiche e astratte (chi non dice di voler la giustizia, il benessere, ecc. ecc.?). E' questa la degenerazione partitocratica messa in luce da Roberto Michels già più di mezzo secolo fa. (Per inciso, non comprendo allora come i radicali abbiano potuto nutrire tanta "speranza", come ha detto l'on. Pannella, nel Partito comunista, che è il più oligarchico e burocratico dei partiti italiani). Il Partito democratico deve essere invece un'organizzazione aperta alla gente, tanto agli individui quanto ai gruppi, capace di intenderne i bisogni e le opinioni, nel quale il libero dibattito delle idee e delle proposte è la condizione per raggiungere il consenso e la convergenza nell'azione politica.

Per questo sono favorevole al ricorso allo strumento del referendum. Vinto o perso che sia (io sono stato fra i promotori e i perdenti del referendum sul divorzio e non lo rimpiango), esso costituisce l'occasione preziosa per una seria presa di coscienza personale, molto più impegnativa del voto per un partito alle elezioni, voto che finisce troppo spesso ad essere una semplice delega. Ma per ciò stesso sono contrario alle »raffiche di referendum, che rischiano di dissolvere questa precisa presa di coscienza in un atteggiamento genericamente e fantasiosamente protestatario, e quindi non costruttivo. Il referendum deve servire alla costruzione della democrazia, ossia alla responsabilità personale rispetto alla cosa pubblica.

Detto questo, resto lontanissimo dalla mentalità e dalle idee dei radicali. Mi limito a indicare due punti esemplari nei quali un certo accordo iniziale si rovescia in disaccordo totale.

"Primo punto". Pur non considerandomi un non-violento nel senso specifico della parola, sono decisamente contrario alla violenza (come i radicali), soprattutto per la mia fede cristiana ma anche perché della violenza conservo indelebile il ricordo, avendo partecipato alla Resistenza come partigiano combattente. Ma la violenza per me si supera scavando dentro la propria coscienza e impegnando ogni giorno le proprie forze nel difficile compito di eliminarla dai propri sentimenti, idee, parole e comportamenti, per essere, per quanto possibile, testimoni in tutto dello spirito di pace. Sarebbe troppo comodo pensare che la violenza sia solo quella dell'avversario, dell'eterno »fascista di turno.

Senza questo impegno, l'abolizione del servizio militare (per non parlare di quella della guerra) resta un modo formalistico di scaricare sulla società e sulle istituzioni un problema che invece è dovere di ciascuno di noi affrontare e risolvere.

In questo spirito non condivido, anzi considero grave, l'uso violento della parola, cui troppo spesso, a mio parere, indulgono i radicali: nella nostra »civiltà di massa, le parole accendono la violenza quanto e forse più di tanti atti. Più in generale, diffido molto dell'"uso politico" della non-violenza, che spesso si rovescia in violenza psicologica: in democrazia (diverso è il caso in un regime totalitario) uno sciopero della fame può coartare la legittima libertà degli altri. In breve: non basta essere non-violenti per essere pacifici e apportatori di pace.

"Secondo punto" di dissenso: la concezione della libertà. Io non ritengo vera libertà quella per cui ciascuno agisce come vuole e secondo quel che gli pare o, per essere più precisi, la libertà di chi la assegna come misura la propria autorealizzazione.

"Questa" libertà non è altro che la "potenza" di nietzschiana memoria; è una libertà selvaggia che si ottiene e si assicura soffocando le ragioni dell'altro e rendendo impossibile il dialogo. Non c'è libertà autentica senza il rispetto dell'altro come persona, senza la comprensione che si è liberi "insieme" e per ciò stesso "obbligati"; la realizzazione di sé passa per la necessaria comprensione di questo rapporto fondamentale con l'altro. Perciò rifiuto la cosiddetta »liberazione sessuale , che ritengo una reciproca lotta per l'asservimento, è appena il caso di dire che donna e uomo hanno per me pari dignità personale. Ma il caso in cui il mio dissenso si mostra più netto è quello dell'aborto, che io considero non libertà ma sopraffazione. In questo caso, infatti, la vita stessa di un essere umano innocente e indifeso viene a dipendere integralmente (e dunque asservita) dalla libera decisione di un altro, che non è nemmeno sempre e necessariamente la donna (e allora si ha una doppia sopraffazione). Nella ri

vendicazione della sua generalizzata libertà, l'aborto provoca la morte non solo del concepito ma anche della libertà umana.

Questo, senza belletti e dette molto in breve, sono alcune delle ragioni principali per cui dissento dai radicali. Mi sono servito di parole molto semplici, senza preoccuparmi di sottigliezze e delle possibili contro-deduzioni cui possono dar luogo, perché continuo a ritenere che la semplicità sia il modo migliore per stare in rapporto con la gente.

 
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