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Pannella Marco - 25 novembre 1978
(32) TUTELA DELL'ONORE E MEZZI DI COMUNICAZIONE DI MASSA
Atti del Convegno giuridico "Informazione Diffamazione Risarcimento" promosso dal Centro di Iniziativa Giuridica Piero Calamandrei (Roma, 24/26 novembre 1978, Hotel Parco dei Principi)

Assassinio o tortura dell'immagine: difendersene, impedirlo per salvare con la "persona" la vita civile e il fondamento della democrazia

di Marco Pannella

SOMMARIO: Ripercorrendo le vicende che hanno visto la sistematica diffamazione e censura nei confronti del Partito radicale, del partito della nonviolenza, Marco Pannella indica gli strumenti con i quali il "nuovo Leviatiano" colpisce l'oppositore. Non più l'omicidio ma la censura, il silenzio, il linciaggio, la diffamazione. La censura e la diffamazione sono peggio dell'assassinio, perché colpiscono al cuore i fondamenti della democrazia, il diritto a conoscere per poter giudicare. La necessità di armare giuristi e magistrati di nuovi strumenti per contrastare questo nuova e più grave minaccia alla democrazia.

(TUTELA DELL'ONORE E MEZZI DI COMUNICAZIONE DI MASSA, Giangiacomo Feltrinelli Editore, ottobre 1979)

Se io, come mi accade di prediligere - ritenendo che sia nel narrare e nella narrativa l'unica seria possibilità di comunicazione popolare ed anche di dialogo, fra due e non solo fra due milioni di persone - se appunto io potessi, e volessi, o se si volesse che io portassi una testimonianza, credo che dovremmo stare qui molto a lungo; non ore, ma giorni. Franco De Cataldo, il quale da lustri ormai ha a che fare con le diffamazioni delle quali si presume o qualche volta sembra che io sia - o dovrei essere - vittima, sa che solo a scartabellare citazioni, processi, vicende, cose fatte, c'è da mettere insieme molti volumi.

E più ancora sono le cose non fatte, le iniziative che non abbiamo preso: per quella sorta di scoramento che si insinua in noi anche al di là del grado di coscienza e di decisione e in qualche misura ci rende conniventi, facendoci realizzare - non per disattenzione, ma per stanchezza - qualcosa che sembrerebbe non mi si possa normalmente rimproverare: vale a dire quel tipico rapporto sado masochista che c'è fra il torturatore e il torturato, che porta normalmente il torturato a tacere per "pudore", a non gridare troppo, o a gridare solo se sa che al di là della porta non lo possono ascoltare. E' una delle armi che viene più frequentemente invocata: il buon gusto, l'inutilità, il "tanto non serve a nulla" o il "comunque c'è la libertà di stampa... stiamo attenti..."

Noi non abbiamo mai compiuto questo passo logico. Ma davvero penso che è più quel che abbiamo fuori che quel che abbiamo dentro le carte giudiziarie. Suggerisco a Stefano Rodotà di tenersi pronto, perché forse sarà facile a lui e ad altri amici, se un giorno si riterrà opportuno e se ci sarà un mercato, fare con minore fatica quello che hanno fatto per Pasolini: vicende giudiziarie incardinate, elenchi, processi, processi ricattatori tentati; nel senso, per esempio, di quella forma di diffamazione, tipica di questo regime, che è la calunnia, la calunnia di Stato, imperseguibile, quella per la quale io, in realtà, dovrei essere grato alla giustizia italiana perché, nelle denunce avute, penso di essere stato prosciolto almeno nell'80% dei casi; dico prosciolto, e per il resto, il 19,99%, assolto, mentre ogni volta la stampa da sí notizia della denuncia - o la dà se ritiene conveniente darla - ma mai la notizia del proscioglimento (devo dire che fino ad alcuni anni fa - addirittura fino a 10 o, correggetemi, 8

anni fa - molto spesso la stragrande maggioranza di queste denunce non veniva nemmeno comunicata al denunciato).

E' dunque una situazione abbastanza complessa, quella sulla quale potrei portare testimonianza: credo con qualche utilità, per nutrire di fatti la riflessione scientifica. Se questa continuasse, infatti, ad avere come oggetto soprattutto se stessa, cioè la riflessione sulla riflessione, si manterrebbe in quella impasse nella quale mi pare che in termini di dottrina e di giurisprudenza ci si trovi rispetto ad un problema, a mio avviso, centrale per la stessa esistenza di un tessuto civile, democratico e costituzionale nella vita di un paese.

Se democrazia presume, in qualche misura almeno la fiducia nel metodo del dialogo, della polemica e del dramma, presume sempre anche - nell'agorà - una sorta di rappresentazione scenica: tra opposizione e governo, tra maggioranza e minoranza. Non necessariamente tragedia. In questo io non sento tutto il fascino del "diverso" del "differente" come nell'arco che va da Fortini a Pasolini Lì, per loro, la dimensione della esistenza e anche dell'esistenza democratica e civile è tragica; per me è drammatica, con quindi degli scioglimenti del nodo scenico diversi, che possono essere - appunto - quelli non letali, non fatali, di un destino necessariamente negativo. Se democrazia è questo, o presume questo, credo si possa meglio comprendere quel che noi radicali intendiamo dire quando, avendo affermato che per noi non esiste "perverso" e non intendiamo recuperarlo nella politica, abbiamo a lungo ripetuto che all'interno di qualsiasi "perversione" è la diversità che va colta, se si vuole superare il fatto "perverso" (

secondo la morale o il buon senso comuni). Ecco, se noi questo ci gloriamo di fare, da laici, non possiamo evidentemente recuperare nella politica il concetto di perversione, di perverso; la demonologia, se volete, o il soggettivismo demonologico, o l'iconografia demonologica.

Ebbene, noi abbiamo cercato di sottolineare il trattamento del "perverso" (perverso per gli altri), del diverso, della vera minoranza sotto l'"antifascismo". Premetto, anche, che se è tale, una minoranza lo è innanzitutto a livello di linguaggio o di modulo di pensiero, o espressivo. Una minoranza o è tale anche nel senso - se volete - dell'antropologia culturale, o altrimenti resta un dato interno alla maggioranza del sistema, interno alle sue prospettive storiche; diverso nella cronaca, ma uguale nella prospettiva della storia, al di là, appunto, di un'epoca, di un momento estremamente circoscritti. Da questo punto di vista da 25 o 20 anni, quotidianamente, abbiamo cercato di fornire una chiave di lettura diversa da quella dell'arco dei partiti postfascisti costituitisi in arco dei partiti antifascisti (dico: "costituitisi"; non a caso il Partito d'Azione, il partito antifascista per eccellenza, è stato giustiziato, è scomparso): abbiamo dunque detto che ci troviamo dinanzi ad un arco di partiti - di gover

no, di potere - postfascisti. Il problema era infatti di capire se la lettura migliore della storia italiana fosse quella che si aveva accettando l'equazione (o l'autoequazione) postfascisti = antifascisti oppure, per avventura, l'altra: postfascisti = eredi del fascismo. Naturalmente, né l'una né l'altra in toto; bisognava però cercare di comprendere se fosse maggiore la continuità nel senso dell'eredità o invece nel senso della alternativa, del superamento di quell'epoca storica.

Apparentemente senza pudore, una volta di più legati a costoro, a questi antifascisti postfascisti, dalla conoscenza - che è amore - mentre loro non l'avevano; addirittura rischiando di bestemmiare, sembrando anche a noi stessi di essere presuntuosi e superbi, e quindi stupidi, dicevamo che la condizione del radicale in questo ventennio aveva un antecedente preciso, ed era quella del radicale nel ventennio precedente; facendo notare che non c'era bisogno di rendere più nero il fascismo, per esempio non apprezzando nella sua giusta consistenza il fatto che sotto il fascismo Benedetto Croce potesse pur stampare a migliaia di copie da Laterza il suo discorso, la sua critica: che ci fossero insomma dei perimetri di libera espressione, a certe condizioni. Col dipingere di nero assoluto quell'epoca, il giovane non la comprende. Occorrerebbe in qualche misura comprendere come attraverso i fermenti "bottaiani" di già si potevano riscontrare alcuni linguaggi, alcune culture che senza soluzione di continuità portano,

per esempio, con ammirevole fedeltà e con profonda crescita senza drammi di sconfessioni, di ripensamenti, dal Fanfani di allora al Fanfani di adesso; ma dirò di più: dall'Ingrao dello splendido "Masse e potere" agli avanguardisti, ai littori, ai fermenti resi possibili da Bottai in quegli anni; alle cose che, attraverso la mediazione gentiliana o idealistica, venivano rese possibili anche a livello dello scritto, anch'esso "scientifico", cioè a circolazione ridotta.

E così non era vero che vi fosse censura assoluta nei confronti di Ernesto Rossi, cioè di G. L., di un certo tipo di antifascismo. Perché? Perché quando essi erano processati, la notizia del processo, del Tribunale speciale, c'era sul giornale. Il processo consentiva di parlare della opposizione radicale di allora, di parlare criminalizzando, attraverso la diffamazione degli ideali e delle prassi collettive e della persona. Quanto meno quell'opposizione era presentata al buon senso della gente, lì dove il coraggio filtrava tra le cronache di regime, come fatta di esibizionisti, di utopisti, di irresponsabili rispetto al dovere di lavorare; al dovere, magari, di non rischiare, attraverso l'affabulazione e il discorso politico, la propria libertà e soprattutto il pane (perché allora non si trattava solo di companatico, ma del pane per i propri figli). Erano - in qualche misura - soggetti e non solo oggetti se badassimo solo a un fatto formale. Quando presero o attribuirono a Ernesto Rossi il petardino, la "bom

betta" messa in un ufficio di tasse (dimostrativo no? Rossi sceglie quell'azione propagandistica per sottolineare il classismo, già allora, il classismo vero, gli evasori fiscali, ecc.) se ne parlò: solo che non venne detto che era un petardino innocuo, che non poteva accadere nulla, nemmeno per errore, perché si dice: alla Banca dell'Agricoltura forse fu un errore certo magari sarà stato anche un errore: la bomba non doveva esplodere, però è un errore che ha portato alla strage). Proprio, non poteva: anche per errore, un petardo non può fare male; può forse bruciacchiare la mano di chi non sa usarlo.

Cioè, in fondo, il consenso di allora era un consenso che consentiva il dibattito, sia pure tra iniziati. In fondo, se guardiamo a quel momento secolare del nostro diritto che è il codice Rocco, dentro il quale c'è il meglio, in assoluto del sapere giuridico borghese e quindi - ahinoi - il meglio del sapere giuridico del secolo fino a quel momento; ebbene dobbiamo pur constatare che all'interno della costruzione dei codice Rocco era possibile dire "no" a cose che il Parlamento repubblicano ha fatto sì che diventassero legge urgentemente, quattro mesi fa, con soli quattro oppositori.

Non possiamo dimenticare i no dei nove (mi pare, o undici) senatori del Regno, al Concordato del 1929: di questi no, la stampa fascista, il "Tevere", dava atto con un tipo di polemica che non era diffamatoria rispetto all'avversario; perché attraverso la appassionata soggettività, se voi volete, del linciaggio esplicito, si rendeva possibile - direi necessaria - la lettura critica, da parte di chi leggeva. E la lettura critica di questa invettiva di già costituiva in chi la leggeva un elemento di restaurazione possibile della distanza e della separazione dal fatto e dall'opinione di chi lo presentava.

Invece noi, che oggi ci stiamo muovendo contro quel Concordato riconsacrato non tanto dall'art.7 ma dai 30 anni di unità che vanno da Almirante a Tullio Vecchietti, i quali hanno avuto come filosofia comune a tutti quella appunto del meccanismo revisionistico e anche, se mi consentite, dell'interclassismo concordatario, noi - noi parlamentari - non abbiamo avuto diritto alla stessa ospitalità di cui hanno goduto Benedetto Croce, Ruffini e gli altri i quali, come Senatori del Regno, dicevano no. Per motivi e ideali che venivano riferiti, per essere poi linciati se volete, ma - ripeto - non era linciaggio vero.

Di fatto, nella stampa, quando gli Alberto Giovannini, gli Enrico Mattei, quelli ancor vivi dei mastodonti, dei residuati della preistoria di questa nostra stampa, quando costoro intervengono, lo fanno con un grado - in realtà - di civiltà democratica che è invece sconosciuta alla banda dei giornalisti "democratici", gente che non conosce se stessa, gente la cui ignoranza - in termini dell'abc del pensiero liberale e laico - la rende sempre più pericolosa e persino, in realtà, sempre più vittima di se stessa.

Quando Enrico Mattei è direttore de La Nazione porta in prima pagina la questione dell'Isolotto; attacca Don Mazzi, il dissenso cattolico. In prima pagina. Il dissenso cattolico, Don Mazzi, nascono così per la coscienza della gente: perché Enrico Mattei li porta in prima pagina, per giorni e giorni. Ed ecco, il dramma interno della Chiesa diventa, attraverso la invettiva di Mattei contro Don Mazzi e attraverso la risposta di Don Mazzi, dramma civile italiano. E si estende. Senza questo postfascista - non antifascista - di Mattei, probabilmente la operazione di regime sarebbe durata per sempre; e sarebbero morti - ammazzati e diffamati nella loro dimensione parrocchiale - Marco Bisceglie, Mazzi e gli altri. Fino a Enrico Mattei nessuno - figuratevi, l'Unità, i concordatari ad oltranza - nessuno aveva dato dignità di cronaca politica al dissenso drammatico e tragico dei religiosi del "no" al divorzio, per esempio.

Questi devono essere i parametri del giudizio, per capire. Ecco perché il postfascismo degli antifascisti significa in realtà, mi pare, sempre più pericolosamente continuità smaccata tra Eiar e Rai Tv, con gli stessi meccanismi. E' possibile rompere il loro silenzio, rompere la loro censura, in modo che possa essere presentata - anche in modo deformante e diffamatorio, ma nelle loro idee innanzitutto, e nelle persone - la presenza, nella vita civile, di qualcuno?

Ma guardate la dovizia di dettagli, di particolari, sulla opposizione terroristica. Badate, quando oggi in Italia si vuol far passare un messaggio nella sua "testualità", nella sua nuda testualità ma con una "contestualità" contraddittoria e diversa cosicché non sia più quel messaggio, c'è un modo, un sistema: si ammazzano due persone, gli si mette nel taschino un pezzo di carta - magari una mozione del congresso del Partito radicale - e quella sarà pubblicata tutta quanta. Questo, mentre in vent'anni noi radicali non abbiamo avuto un nostro documento politico, uno in vent'anni, espresso, comunicato, illustrato; non uno! Non temo smentite: da un giornale, da un organo di opinione, nemmeno da un settimanale, non una volta ! Ma quando, rese dozzinali, grottesche, quelle stesse tesi sono magari riprese dalla criminalità terroristica, dalla decisione di portare a conseguenze davvero contraddittorie l'opposizione libertaria, cristiana, socialista, laica, nostra, nel momento in cui questa può essere rappresentata

da un assassino, in quel momento ecco che circolano. Per liquidarle, diffamarle, per incollarle a coloro che, in modo collaticcio, così, hanno deciso per due mesi di scegliere quei temi invece che altri.

Credo che l'autobiografia sia, per umiltà, l'unica cosa che, dinanzi a questi dati, ciascuno di noi può proporvi, come elemento di riflessione. Ma guardate: io ricordo dalla quasi infanzia, la vita di Jaurès, quelle cose così belle, che forse dovrebbero circolare di più. Ricordo come, per esempio, nella vita di Jean Jaurès, c'erano due o tre frasi ricorrenti messe in giro da parte dei suoi nemici per distruggerlo; erano dei falsi, ma continuavano a circolare. Già allora. Ebbene, guardate, parliamo delle elezioni nel Trentino: durante la campagna elettorale, Repubblica, in ultima pagina, attribuisce a un uomo di sinistra, o comunque a un uomo "democratico", la seguente frase detta in un comizio: "Il vero partito nazista è il Partito comunista italiano"; la scrive un giornalista che aveva assistito, e poteva dimostrarlo, a questo comizio di due ore, badate: di due ore. Avete visto smentite su Repubblica? No. Dunque il fatto è vero: non c'è nemmeno una smentita. Ebbene, l'indomani è giunta a Repubblica una dich

iarazione di 400 cittadini e cittadine di Merano e Bolzano, che avevano ascoltato Radio Radicale (dove in due giorni abbiamo dato, integrale, tre volte, quel discorso) i quali scrivevano: "E goebbelsiana, questa menzogna, non è tollerabile; abbiamo sentito noi: ha detto esattamente l'opposto". Sono arrivate a Repubblica le telefonate e i telegrammi e le ingiunzioni di legge, perché almeno ne fosse data informazione: non secondo le norme della rettifica, non con lo stesso rilievo, nella stessa pagina, ma magari fra le lettere al direttore. Nemmeno questo si è ottenuto, perché il direttore Eugenio Scalfari, ha risposto che quella lettera era offensiva. I 400 lo offendevano perché dichiaravano di avere udito, e lo dichiaravano prima della conclusione della campagna elettorale.

Adesso, da qualche giorno, avete visto, c'è Pannella in prima pagina, o in seconda, o in quarta. "Condito" da Bocca; con amicizia, non importa. Ma che ne viene fuori, che ne resta? Che in un mio comizio è venuta fuori - come dall'"in vino veritas" come dalla stanchezza - la verità, la mia cultura. Ecco, é dalle pieghe dell'attività di un uomo politico, non quando è pronto e preparato, che si coglie la verità; magari a Merano, dove lui pensa che i giornalisti non ci sono, ed esprime finalmente il suo pensiero: il nazismo non esiste, invece è lo stalinismo, sono i comunisti... Per buona sorte avevamo registrato: i 400 hanno sentito. Certo, si farà, prima o poi.

Ma su che cosa, ormai? Io credo che nella diffamazione noi abbiamo soprattutto a che fare con la fama, è presunto un dato di fama; c'è qualcuno che agisce sulla fama, prima ancora che sulla persona (qualcuno avrebbe detto la "vociferazione", la "affabulation"). Cioè in sostanza la diffamazione colpisce la fama, dà una fama diversa. Non abolirla, ma mutare la fama. E chi è - in realtà - il vero soggetto della fama, che ha un qualche rapporto con il mito? E' chi la sopporta storicamente, cioè chi ha nella coscienza la fama di quella cosa: ecco, la fama si costruisce nella massa, non è un attributo della persona.

Andiamo - ecco - nel cuore del problema. Sotto il fascismo era possibile scrivere splendide ed eterne pagine in difesa della libertà, le pagine di Don Benedetto Croce; ma non era possibile fare un volantino sulla disoccupazione del falegname che abitava a cento metri di lì, a Spaccanapoli. In quel caso, con quel volantino, saresti stato arrestato. Dobbiamo toglierci dalla mente che sotto il fascismo l'antifascismo era scomparso. Dobbiamo toglierci dalla mente questa visione incredibile, purtroppo aiutata da cattive o sbagliate interpretazioni di Croce, riprese poi in modo interessato da tutti quanti, quelle del fascismo come "parentesi", come ritorno del demonio nella nostra storia, come momento di follia, senza legami di carattere strutturale. Dentro questa visione, si capisce che abbiamo il fascismo come Antistoria, Antirisorgimento: cosa volete, è successo. E come è venuto, se ne andrà. Un po' come l'amore: l'amore per Mussolini, che viene e va. Che ci si può fare? E' il destino; questo Paese si è fatto p

ossedere da un demone...

Ma se invece mettiamo da parte questa visione, vediamo che c'è una continuità profonda. Pensate - dunque - alla minuzia con la quale viene fatta conoscere, viene notificata, la violenza, ed alla necessità nella quale costoro si trovano - anche per loro ignoranza, per non riflessione individuale - di non trasmettere invece checchessia sulla nonviolenza.

Su questa, nessuna informazione. Nulla. Noi siamo, noi del partito radicale, un'associazione per delinquere.

E allora diciamo: è vero! L'organizzazione nonviolenta con il suo metodo di disobbedienza civile programmatica, con il suo metodo socratico di accettare fino in fondo la legge nella sua logica, per farne esplodere la nequizia dinanzi a coloro che si presume siano i soggetti formatori della legge di domani, questo metodo che, appunto, è il nostro, ha dimostrato di avere, mi pare, una grossa forza politica. Possiamo pur dirlo, siamo unici, a sinistra degli statolatri, a sinistra dei giacobini di un certo tipo, a sinistra dei violenti per senno, per assennatezza, cioè di coloro che sono violenti solo perché debbono salvare un programma, la "programmazione". Chi pensa davvero che milioni di contadini del Volga o del Don morirono fra carestie e deportazioni solo per Stalin o perché la burocrazia comunista era stalinista o leninista?

No! C'erano anche lì delle cose molto più - direi quasi - lamalfiane: c'era la "programmazione", che doveva essere salvata. Non scherziamo: la programmazione, l'"assennatezza" della programmazione, anche allora.

Ingrao sta facendo saltare, da solo, scheggia dopo scheggia - dopo un anno e mezzo non ne resta quasi più nulla - il Regolamento, cioè la Costituzione, del Parlamento italiano. Ogni giorno, con la diligenza un po' "folle" del buon padre di famiglia che ritiene di risolvere il problema del disastro che incombe da ogni parte cercando di far saltare i piccoli obblighi ai quali teneva, per se stesso e gli altri della famiglia: l'andare a cena alla stessa ora, quel minimo di educazione reciproca che comporta comunque lo stare insieme di quattro, di due o di tre persone; far saltare anche quello. Sicché poi dentro non c'è più nulla che giustifichi l'esistenza di quel perimetro familiare; o del Parlamento. Nulla, se i regolamenti e le costituzioni vanno via e sono violate. E di tutto questo dalla stampa non viene riportato nulla.

Uno dei motivi per i quali so che Adelaide Aglietta l'anno scorso comprese e stabilì che bisognava sospendere l'attività politica nazionale del Partito radicale fu che eravamo giunti - e siamo giunti - al punto in cui se starnuta il mio carissimo amico Valerio Zanone e starnutendo, avendo un po' di raffreddore, non può andare ai mille incontri di questa danza, certe volte un po' macabra, dei segretari dei partiti lo starnuto è notizia: Zanone è indisposto, ha dovuto rimandare l'incontro con Craxi o con altri. Ebbene, un anno e mezzo fa è accaduto che la segretaria nazionale di un partito ha digiunato per 62 giorni senza che nemmeno al 62esimo fosse spiegato alla gente perché opponeva questa resistenza nonviolenta alla violenza della diffamazione, alla violenza della censura, alla violenza della legge contro se stessa. Non viene mai detto per esempio che il nonviolento, se vuole essere tale, non digiuna, non disobbedisce, non fa mai l'obiettore di coscienza in difesa della legge che lui vuole, ma sempre perch

é il potere rispetti la legge che esso si è e ci ha dato: se no sarebbe violenza o ricatto, sia pure solamente morale. E che ogni volta noi andiamo avanti fino in fondo con questa continuità - favolosa, se volete - di una civiltà dialogica, di una civiltà nonviolenta che si affida appunto alla comunicazione del dialogo, all'agorà, tempio della società e dello stato. E' su questo che la diffamazione è selvaggia. Nemmeno più la comunicazione di che cosa è un digiuno della sete, di quanto dura, di quanto può durare, del perché lo si fa; non la comunicazione che se non vi sono ogni sei ore le analisi del sangue, le dialisi, è possibile che già dopo tre giorni la persona abbia un blocco renale e cardiaco: cioè la drammaticità, la nitidezza, la "follia" di alcune iniziative; di questo nessuno sa nulla, mentre tutti sanno delle "mauser" o delle altre armi che vengono usate, delle altre tecniche dei terroristi.

Allora, quello che mi pare debba costituire, per nostro conto, il nostro impegno militante è di mettere al centro la lotta contro il nuovo Leviatano. Il nuovo Leviatano non è tanto quello che ci colpisce ammazzandoci direttamente in una strage (ma sì, anche in queste, delle quali non si deve sapere nulla, attraverso la diffamazione di chi non è colpevole, magari), ma quello che ci colpisce attraverso, per esempio, la censura costante di quale sia la realtà dell'armamento dell'esercito italiano; la censura di noi parlamentari, e quindi del Parlamento, la censura del fatto che un aereo voluto, imposto dal Pci per una sua Lockheed (le Lockheed intellettuali e morali, più gravi delle Lockheed finanziarie, così come la malafede è meno pericolosa di certe buone fedi, accampate sul piano della ragione di Stato, di partito, sul piano delle doppie verità che incalzano sempre di più e sono la vera, unica aggregazione possibile, o possibilità, o capacità di aggregazione della maggioranza che abbiamo oggi in Parlamento)

, l'aereo MRCA, dicevo, è stato votato in Parlamento mentre noi dicevamo che i conti che ce ne presentavano, già immensi, erano falsi che invece di sette miliardi ne sarebbe costato quattordici, che probabilmente sarebbe arrivato a ventuno, mentre l'Unità e gli altri tutti attaccavano la nostra "demagogia". Passati due anni, si è oggi a 22, 23 o 24 miliardi, non si sa.

Ogni giorno si ripete questo strazio di verità. Perché la cronaca del Parlamento non è possibile se non in modo diffamatorio e diffamato? Noi siamo stati i più ragionieri, i più di routine dei parlamentari italiani, dal primo giorno, andando a verificare i conti: mai niente di tutto questo è stato trasmesso. Ho avuto prima, forse, la debolezza di sovraccaricare Leonardo Sciascia di un'altra preghiera di lettura, fra le tante che gli arriveranno in questo periodo; quante volte avevo sentito dire: proprio voi, nonviolenti, su Moro non vi siete mossi! Io stesso ho finito per convincermi. Ho risposto: "Abbiamo tanto da fare, cosa volevate che facessimo?" Poi, quando ho riletto - io stesso - la documentazione di quello che avevamo fatto tutti i giorni in Aula, alla Camera, dando comunicati ai giornali, andando umilmente e anche, devo dire, qualche volta indebitamente, a supplicare che una frase venisse ripresa!

Perché dicevo: ma badate, qui state diffamando, qui muore Moro! Un uomo come Moro non muore perché è assassinato in un momento. Muore - certo - la persona Moro per noi, soprattutto per noi radicali più che per lui, noi che sappiamo che vale quello che prende corpo, tutto quello che ha corpo, noi che temiamo la dialettica sbagliata degli spiritualismi e dei materialismi assoluti da una parte e dall'a]tra. Eppure, ecco, noi sappiamo che nulla vale la morte nemmeno il sacrificio, nulla. Ma comunque, quando si è un uomo che ha scelto il dialogo pubblico, ha una funzione pubblica, quando si è voluto dare, si è preteso, si ha avuto la superbia - magari - di sperare di poter dare il corpo il proprio, quello di Aldo Moro, alle proprie idee... Ecco dicevo: guardate che lo state ammazzando voi! Ma vi rendete conto che in questo momento Moro può guardare la televisione e sentire Pellegrino, Giovanni Ferrara, quelli che lui riteneva vicini, i suoi allievi, i suoi clienti, la gente della corte dire: "Ma non sei più tu, s

ei peggio di un qualsiasi ragazzino preso dai nazisti, che aveva coraggio di tacere, perché a quelli, tutt'al più, gli si estorceva una firma: tu scrivi ogni giorno pagine e pagine; sei indegno, sei un verme, non rappresenti più nulla..."

Eravamo lì, ricordo, quando è giunta la prima lettera: lo sdegno, la rabbia che ho avuto, il dolore verso Antonello Trombadori e gli altri, che guardavano esterrefatti e dicevano: "Questo ormai lo possono ammazzare perché tanto è morto; dopo aver scritto questo è finito. Non esiste più". E sono corso su, a scrivere una dichiarazione: mai come in questo momento, con questa lettera, il presidente della Democrazia cristiana Aldo Moro testimonia, anche a chi fra noi non lo aveva compreso, della sua potenzialità umana e politica; e se sarà - come dovrà - essere liberato noi oggi per la prima volta comprendiamo e riterremo che potrà, attraverso questa sua vicenda, probabilmente avere titoli maggiori per divenire presidente della Repubblica. Noi i radicali, io: io che avevo interrotto Moro - anche questo non si faceva alla Camera dei deputati - proprio sul processo Lockheed quando Moro viene, buttando il peso, la spada di Brenno alla Camera: "Noi siamo la Dc e quindi siamo onesti" dice al Parlamento che lo ascolta,

che lo ascolta affascinato, curvo anche: "Voi sapete che Tanassi è un galantuomo". Io l'ho interrotto, per dirgli: "Vallo a dire alle vittime delle stragi di stato e dei terrorismi!"

Dopo il rapimento mille cose potevano suggerire che ci trovavamo di fronte a una nemesi, una catarsi; ma in quel momento il nostro dovere era intervenire contro la diffamazione del suo pensiero. Non è passata una parola in 40 giorni, credo, di queste nostre posizioni. Più efficaci, se fossero passate, di quelle dei nostri compagni socialisti: il nostro volere incardinare il dibattito della Camera... Ebbene, in tutto questo: la diffamazione è nel tempo. La diffamazione come assassinio - badate: io ho sempre paura, quando qualcuno dice "peggio che un assassino" (penso ai difensori ad oltranza dello zigote, gli stessi che accettano poi, a milioni, le morti necessarie nei nostri tempi per bombe atomiche o per stragi di stato). No, credo che nulla sia peggio dell'assassinio nulla, dell'assassinio di quel corpo: nulla! Però c'è del vero: se esiste altro, se esiste la concretezza delle idee e se le idee e le immagini possono davvero costituire una continuità "genetica" diversa, per dar corpo ad altre cose in futuro

; ebbene questo strazio continuo della verità, questo strazio continuo della possibilità della gente di conoscere per giudicare, questo strazio di coloro che non hanno potuto condannarci in questi anni perché non ci conoscevano, a cui è stata sottratta la possibilità di poter votare - in coscienza, sapendo - per proposte diverse dalle nostre, questo strazio della democrazia, del tessuto civile, della vita della società; ecco, questo io credo metta al centro il problema del quale oggi stiamo discutendo.

Ecco in che senso credo che la censura e la diffamazione siano peggio che l'assassinio. Perché sicuramente è peggio di un assassinio - rispetto alla vita della storia della città, della società - quella verità uccisa che, appunto, toglie l'anima della salvezza, la ragione della sua salvezza, alla vita democratica e nonviolenta.

Mi pare che un'analisi un tantino più marxiana dei meccanismi per cui si arriva a questa situazione vada fatta. Va a mio avviso ripensato anche, e va esaltato, il problema del risarcimento. Perché? Ma per colpire quei meccanismi del profitto che malgrado tutto restano, se non sovrani, estremamente importanti per l'editoria e la stampa: se la diffamazione è peggio dell'assassinio o se comunque è peggiore dell'assassinio per la vita civile e se, dove si assassina la verità, lì c'è il presupposto di stragi anche di anime e di persone violenza che incombe come candidata, necessaria e vincente, nello scontro tra le parti sociali e le varie parti di una città.

Eccitare il meccanismo del risarcimento per colpire il meccanismo del profitto. Novella 2000 ha un milione di lettori, ha un editore che la porta avanti per questo. Allora, scusatemi, dinanzi a qualche cosa che colpisce, insozza, colpisce ancora, e che essi fanno per avere lettori, per vendere - per poter aver poi, naturalmente, dalla Sipra i soldi in base al fatto che vendono, ma anche per vendere - ebbene, lì si pone il problema di centinaia di milioni, cioè il problema ipotizzabile, di miliardi, se riguarda un corpo collettivo e il dolo diventa manifesto, costante. Sentivo le cose dette, un momento fa, da Pecorella; ma certo, occorre anche restituire, mi pare, alla diffamazione la sua durata, ed è allora, appunto, necessario l'intervento: per interrompere il reato, e ancora di più la sua durata.

Ad esempio sono convinto che Leonardo Sciascia non conosca noi, non conosca il Partito radicale: proprio non ci conosca. E parlo di Sciascia, che ritengo sicuramente fra le persone più attente a scorgere, a capire i "segni" - addirittura - nella nostra vita civile e nella nostra storia. E perché? Perché, da alcuni anni, sta perfino cessando di esistere quella grande salvaguardia che noi radicali avevamo, che consisteva nel fatto che la gente era cosciente, sapeva di non sapere di noi. Adesso questo margine non c'è più perché nessuno può immaginare che la distorsione, che la diffamazione sia così continua; nessuno può immaginare la volontà, direi di più, l'incapacità - ricordavo prima, in termini di antropologia culturale - di capire di una classe giornalistica promossa proprio perché non ha un certo tipo di cultura sulla quale noi laici abbiamo costruito le nostre tradizioni, la nostra civiltà, il nostro modo di essere, ma ne ha un'altra in cui non c'è più nulla di voltairiano, ma nulla nemmeno di giovanneo

, nella misura in cui possiamo trovare una continuità con, appunto, le scoperte conciliari e cattoliche, le intuizioni cristiane e cattoliche della separazione fra errore e errante.

C'è un messaggio da lanciare ai tecnici del diritto agli scienziati, agli operatori: c'è una storia che rischia di non essere scritta, la storia vera di questi nostri trent'anni, rischia di essere non scritta, non vissuta, non conosciuta. Rischia di passare e di vincere invece nella storia, di prendere corpo, la menzogna.

E allora devo dire di stare molto attenti, perché altrimenti, Rodotà, sarà molto facile: siamo rimasti dinanzi al bisogno di scrivere altri libri come quello su Pasolini, e poi non se ne potranno più scrivere; perché ormai si è raggiunta una forma di linciaggio quotidiana, dalla quale non c'è più difesa possibile: si può essere fotografati con un fotomontaggio con i dollari che escono di tasca; si può insultare e diffamare una intera città, Trieste, mentendo sulla realtà di Trieste per vincere a Trento (e poi si perde anche a Trento) diffondere a centinaia e migliaia di copie un volantino come quell'unico diffuso in tutto il Trentino - l'unico - mandato da Roma dal Partito comunista - l'unico - anche nei casolari più dispersi, con Almirante e Pannella che si tengono sottobraccio, e Pannella con dei soldi, dei dollari che escono di tasca: e questa era la comunicazione visiva. Tutto questo, ogni giorno, per saccheggiare cosa? Una esistenza? Io non credo che si tratti di questo. Io credo che di nuovo, nella l

oro rabbia, costoro si illudano che sia possibile, ammazzando moralmente o fisicamente una persona, vincere i propri demoni, esorcizzarli e vincere magari nella storia. Badate, credo che questo sia possibile. Guai a coloro che dicono: "Tanto uno muore, ma le idee non muoiono mai." Balle! Muoiono assassinate le idee, le speranze; muoiono i fatti sociali. Muore la persona e può morire l'idea. E' bene liberarsi di certo idealismo sfrenato. E possibile: non è probabile e non è necessario.

Ma l'illusione che c'è, appunto, è questa: che riuscendo a far divenire "perverso" qualcuno, si armi poi, in realtà, l'arma del folle. E il giorno in cui un folle, per difendere la chiesa, per difendere il partito, per difendere la morale, per difendere i propri figli - con noi c'è solo l'imbarazzo della scelta: noi dissacratori di tutto, noi che insozziamo le cose più preziose, le più belle, le più dolci, ecc. - ecco, se lo si arma per uccidere, si dà la legittimazione morale alle censure, alle diffamazioni e agli ostracismi: contro Jaurés, o chiunque altro contro i nonviolenti, contro Martin Luther King, ecco, lo stesso Gandhi. Ma perché? Ecco, bisogna forse riflettere su questa vicenda: che la nonviolenza è a tal punto, in termini mediati, in termini non immediati, ma mediati, vale a dire di media e lunga scadenza, vincente - e così, appunto, "arma", per coloro che sanno comprenderla e sanno viverla e sanno organizzarla e sanno promuoverla - che è innanzitutto contro il nonviolento la necessità dell'uni

ca vittoria che il violento può avere contro la nonviolenza. L'immediato: su questo terreno noi siamo perdenti. In ogni singolo evento, e nell'immediato, noi siamo perdenti.

Si armano delle "cose" e poi si dirà che sono dei folli. No! Saranno dei "giustizieri", di cui si sta disseminando il paese. Termino con questo esempio: quando Adelaide Aglietta permise il processo alle Brigate Rosse - perché solo quando la segretaria nazionale del Partito radicale accettò, quella giuria fu fatta; dopo poche ore dall'accettazione di Adelaide - credo che forse fu l'unica volta da vent'anni in cui ho chiesto un favore a dei potenti. Ho detto: se è necessario, come favore da corrispondermi, ve lo chiedo.

Sono andato dal direttore generale della Rai Tv, Bertè, cattolico, cristiano. Ho fatto telefonare al Partito socialista, ai suoi massimi livelli. E ho detto: badate, tranne eccezioni le Brigate Rosse, per il momento, stanno ancora giocando una carta per la quale sono degli emblemi che devono assassinare. E quanto meno l'emblema corrisponde ad un volto,

ad una storia a dei figli, ad una moglie, a un passato, quanto meno è possibile "realizzarlo", tanto più le Brigate Rosse si muovono. E quindi si colpisce il medio - si era alla vigilia dell'affare Moro, alla vigilia di un salto di qualità - si colpisce il poliziotto medio, il magistrato medio; tutti quelli il cui volto non è mai entrato nelle famiglie, nelle case della gente come amico, come invitato al suo desco, attraverso la televisione attraverso i mass media. Se le fate, se le consentite un'intervista, ad Adelaide, segretaria di partito alla quale non avete mai fatto un'intervista - l'unica, l'unica nella storia dei segretari di partito che sia totalmente sconosciuta alle donne e agli uomini, alle Brigate Rosse e agli altri - se per un quarto d'ora la intervistate, le fate una zummata, un primo piano in cui si legga sul suo volto la sua umanità, cioè la sua diversità e la sua uguaglianza con tutti gli altri che la guarderanno, probabilmente questa sarà la difesa più grande contro l'annuncio di assassin

io che viene dalle Brigate Rosse. Hanno risposto di no. Non c'è stato "Studio Aperto", nulla!

Erano tutti d'accordo che il giornalismo lo imponeva: la prima segretaria di partito, la donna, la giurata... Nulla. Non un Maurizio Costanzo, un Biagi, uno di Tg 2, uno " Studio Aperto", non cinque minuti, non tre minuti. Perché? Perché era la radicale, la nonviolenta. Hanno paura che la gente ci conosca. Cioè hanno paura che la gente, riconoscendoci, si riconosca. Perché questa è la verità: ciò di cui hanno paura, questa gente e questa classe dirigente, non sono quelle conoscenze politiche che ogni giorno - Pajetta, Amendola, La Malfa - possono solo dire, attraverso la televisione, che sono estraneità che si confermano, ruoli che si confermano. Quello che temono è che accada come accade nella strada, come accade nella vita personale (lì scattano i fatti costitutivi essenziali nella vita di una persona, e quindi anche di un paese): hanno bisogno di evitare di correre il rischio che chi vede un volto nonviolento, un volto radicale, preciso, come quello di Adelaide Aglietta, vi si riconosca, e da quel momento

nasca, appunto, quella conoscenza attiva, fertile e feconda, quel dialogo che la democrazia esige per andare avanti, mentre questa gente ha bisogno di non democrazia.

La diffamazione credo quindi sia un dato centrale. Se riusciremo ad avere processi, ad andare avanti giorno dopo giorno, se il materiale di questo nostro, o vostro, incontro potrà servire a dare anche armi ai magistrati - i quali ne vorrebbero, magari, ma la dottrina poco gliene dà, la giurisprudenza passata poco gliene dà - io credo che avremo fatto un altro salto, un altro passo avanti nel tentativo di salvare salvandoci.

 
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