SOMMARIO: Intervenendo nel dibattito precongressuale (XXX Congresso del Pr - Roma - 31 ottobre/4 novembre 1984) Mauro Mellini non credeche abbia un senso interrogarsi se il mancato conseguimento dell'intervento italiano finalizzato al salvataggio di tre milioni di vite sia sconfitto o fallimento. E tanto meno credo che si debba parlare di sconfitta se l'obiettivo è ripetibile, di fallimento se la ripetizione, lo spostamento al 1985 deve essere escluso. Ma l'obiettivo del salvataggio di milioni di vite non passa più per l'"ottenimento" di un decreto, di una legge, né passa attraverso un partito di queste dimensioni, con questa forza contrattuale. Battere la partitocrazia non è, non può più essere il "dopo" la vittoria sulla fame. La questione della fame non può essere elusa, accantonata, ed un modo per farlo potrebbe essere, anzi certamente sarebbe, quello di ripetere impegni ed obiettivi senza prendere atto di quanto è avvenuto ed avviene. Né basta ad affrontare questa realtà uno sforzo maggiore, un maggior
sacrificio, personale e finanziario dei compagni di oggi. Occorre una forza anche contrattuale che verrà solo dall'assunzione chiara, totale, intelligentemente mirata su obiettivi idonei, del ruolo di antagonista al regime.
(NOTIZIE RADICALI N. 69, 14 aprile 1984)
Una cosa è certa: non potrà essere un congresso di ordinaria amministrazione, di conferme ripetitive, di dilazioni, di appuntamenti per future verifiche. Non potrà neppure essere, ne sono altrettanto convinto, un congresso che volti le spalle a programmi, obiettivi, valutazioni che sono stati nostri negli ultimi anni ed in tutti gli anni passati.
Il carattere "annuale" del Partito radicale non può essere confuso con la teorizzazione della discontinuità. Occorrerebbe anzitutto tener presente che annualità e monotematicità del partito sono state concepite ed hanno un senso in funzione di un carattere autenticamente federativo di una ricchezza di associazioni ed organismi federati che di fatto non esiste e che le condizioni del paese, non soltanto del partito in sé, rendono estremamente difficile concepire oggi. L'annualità del programma e degli obiettivi rimane peraltro come espressione di concretezza e garanzia contro le fughe nell'ideologia e nei programmi-alibi.
D'altro canto continuità e non ripetitività ci sono imposte dalle cose. Negli ani scorsi abbiamo posto molta carne al fuoco, in maniera implicita e, soprattutto, esplicita. Fame nel mondo, denuncia della partitocrazia e del suo regime di soppressione reale di ogni alternativa democratica. Sono punti diversi su piani diversi: uno l'obiettivo di salvezza perseguito in questi anni, l'altro è, per usare il linguaggio che non ci è particolarmente caro, l'analisi del sistema politico in cui ci movimao. Eppure la connessione e l'intreccio sono evidenti.
Un intervento finalizzato alla salvezza di milioni di vite umane nelle zone dello sterminio è stato perseguito ed ideato non soltanto come avvio di una diversa politica dei paesi industrializzati nei confronti del terzo e del quarto mondo, sconvolgente rispetto all'inconcludenza della "politica dello sviluppo" ed a quella degli equilibri di terrore tra est ed ovest, ma anche come dato sconvolgente rispetto ad un sistema politico del nostro paese, quello partitocratico postclericale e postcorporativo in cui è impantanata la vita politica del nostro paese.
L'obiettivo del "decreto di vita" per la salvezza di tre milioni di morituri per fame, individuato, prescelto e reiterato nelle deliberazioni annuali degli ultimi anni presupponeva la capacità dell'apparato pubblico di operare con determinazioni univoche in direzioni non corporative e non usuali ed una capacità di recupero delle forze ideali e dei valori di base dei partiti e delle culture presenti nel nostro paese, capaci di superare logiche, consuetudini, inefficienze, alibi e deficienze di fantasia della partitocrazia e dello sfascio delle sue istituzioni. Non dobbiamo dimenticare che un obiettivo simile non consiste nel fAre, ma nel "far fare", "far votare". Nello stesso temo questo obiettivo, nelle contingenze in cui ce lo siamo posto e per mezzi con i quali lo abbiamo perseguito, non presupponeva una dimensione del Partito radicale, una forza da esso diversa da quella esistente, o meglio diversa dall'azione stessa diretta a mobilitare opinione pubblica e forze politiche per quell'obiettivo. In altre pa
role ci ripromettevamo di sfruttare soprattutto le spontanee crisi di valori altrui, la prontezza e la sorpresa dell'iniziativa, garantite soprattutto dalla sua apparente "eccessività", l'efficacia dei mezzi nonviolenti sulle riserve di valori ideali ancora presenti nella base delle altre forze politiche e nella pubblica opinione. Semmai dal successo di questa battaglia e dalle nuove situazioni che essa avrebbe determinato il Partito radicale avrebbe potuto trarre spunto di crescita e legittimazione di nuova dimensione oltre che nuovo spazio e rapporti nuovi anche per altre iniziative con le altre forze politiche. Un parziale aggiustamento a questo rapporto tra dimensione partito e raggiungimento dell'obiettivo e relative modalità è stato posto lo scorso anno con il concorrente obiettivo dei tre miliardi di autofinanziamento, un aggiustamento che non ha peraltro posto chiaramente la questione dello sbocco verso un partito di dimensioni diverse.
Io non credo che abbia un senso interrogarsi se il mancato conseguimento dell'intervento italiano finalizzato al salvataggio di tre milioni di vite sia sconfitto o fallimento. E tanto meno credo che si debba parlare di sconfitta se l'obiettivo è ripetibile, di fallimento se la ripetizione, lo spostamento al 1985 deve essere escluso. E sono convinto che non abbia senso spostare di anno in anno il termine per questo obiettivo e pretendere che questa sia continuità ed identità di politica. Al contrario, la ripetitività cambia la natura, il significato, il risultato possibile dell'impegno, oltre che la sua credibilità e la probabilità di realizzarlo. Se non altro perché i morti sono morti, perché il subito di oggi, ammesso che sia subito, è il tra cinque anni di cinque anni fa. Ma non solo di questo si tratta. Il progetto del "colpo di mano" sulla questione della fame non è riuscito perché il regime è assolutamente incapace di produrre altro che non sia oggetto di pasticci, lottizzazioni, spartizioni, tangenti,
accomodamenti con le varie componenti corporative. Non è neppure questione di volontà politica: sono ormai i meccanismi istituzionale a sopravanzare e vanificare ogni soprassalto di eventuale, diversa volontà politica. D'altro canto la riscoperta dei "valori" da parte della base dei partiti del regime è ipotesi sempre più chimerica. I guasti della partitocrazia, che ha avvilito e svuotato i partiti sono assai più profondi di quanto non apparisse qualche anno fa: essi si estendono al tessuto sociale, travolgono, condizionano, "arcizzano" (da Arci, organizzazione di edulcorazione e dilettantizzazione delle "diversità" etc.) vasti settori del dissenso. C'è la tendenza e ci sono gli strumenti per "arcizzare" anche le espressioni degli interessi più generali che sfuggono alla logica corporativa (si pensi alla questione della pace).
Questa valutazione, a mio avviso non è affatto una constatazione di fallimento. I punti fermi stabiliti nella battaglia per la fame (superamento culturale e politico dell'alibi dello sviluppismo, l'aver fatto emergere una posizione politica che sostituisce alla preminenza del rapporto est-ovest quella del rapporto nord-sud e, soprattutto la scoperta di una dimensione intercontinentale dello sfruttamento, del pauperismo, del socialismo, sono successi indiscutibili e di enorme rilevanza. Ma l'obiettivo del salvataggio di milioni di vite non passa più per l'"ottenimento" di un decreto, di una legge, né passa attraverso un partito di queste dimensioni, con questa forza contrattuale. Battere la partitocrazia non è, non può più essere il "dopo" la vittoria sulla fame.
Non ho condiviso tutte le analisi né tutte le scelte del congresso straordinario della primavera dell'83, anche se credo di aver saputo essere coerente con le scelte del partito, a cominciare dal codice di comportamento (che non deve essere un codice di non comportamento) quanto e forse più di altri. Ma sono convinto che effettivamente questo regime (e non m'importa discettare sulla differenza tra regime e processo al regime) non ha in sé nessuno spazio di democrazia sostanziale. Ciò non significa che non abbia elementi e fasi di crisi profonda e che non sia costretto a lasciare spazi, se non di democrazia, di lotta per la democrazia.
Partitocrazia e corruzione hanno, lo dicevo poc'anzi, radici profonde, forti, estese. La corruzione coinvolge, paradossalmente, sfruttatori e sfruttati. L'economia si modella sui moduli della lottizzazione e del parassitismo che la massacrano. Ma se tutto ciò è percepito e coerentemente avvertito, da una forza politica che ne faccia il presupposto del suo ruolo di antagonista del regime, non c'è dubbio che essa potrà contare su di un notevole aggregazione di forze e di consensi.
Sono convinto che il Partito radicale non abbia sviluppato appieno il potenziale di forza e di consensi che gli può derivare da questo suo ruolo. E sono altrettanto convinto che questo non significhi affatto che il Partito radicale deve "normalizzarsi", diventando un partito che, in nome della lotta al regime e per quel tanto di credibilità che le sue lotte nonviolente, la sua diversità, i suoi successi gli hanno conquistato, debba occupare sedi, potere, modalità di presenza politica, generalità e genericità di settori di intervento come tutti i partiti del regime e quindi, inesorabilmente, con contenuti, risultati, conseguenze non diverse dagli altri partiti. Il giorno che accettassimo di batterci sul terreno segnato e sui binari posti dal regime, nel tessuto sociale e culturale di cui esso è espressione, dando una risposta a tutti i "problemi" della quotidianità segnata dalla realtà del regime, il Partito radicale sarebbe null'altro che la caricatura di se stesso, secondo un copione tutt'altro che nuovo pe
r certe opposizioni cooptate dal regime.
Attenzione quindi a non cadere nelle tentazioni striscianti e serpeggianti, ingenue ed allettanti di una sostanziale "normalizzazione" del partito. Ma nello stesso tempo attenzione ai rischi di una ripetitività che non è continuità ma assuefazione e sostanziale rinunzia. La questione della fame non può essere elusa, accantonata, ed un modo per farlo potrebbe essere, anzi certamente sarebbe, quello di ripetere impegni ed obiettivi senza prendere atto di quanto è avvenuto ed avviene. Né basta ad affrontare questa realtà uno sforzo maggiore, un maggior sacrificio, personale e finanziario dei compagni di oggi. Occorre una forza anche contrattuale che verrà solo dall'assunzione chiara, totale, intelligentemente mirata su obiettivi idonei, del ruolo di antagonista al regime.
Come articolare questo partito della diversità, non è cosa che potrà dipendere da decisioni astratte. E la smettano una buona volta quanti si sentono defraudati dalla giusta considerazione delle "realtà locali" che il "centro" avrebbe il torto di non inventarsi. Se questo partito ha bisogno di crescere e se il paese ha bisogno della sua crescita, non è certo per allungare la litania delle sigle nelle tavole rotonde dei "rappresentanti dei partiti" sulla gamma dei "problemi sul tappeto".
Un partito antiregime deve essere anzitutto un partito che con le sue stesse scelte dei campi d'intervento sconvolga l'assetto ed i rituali delle istituzioni di fatto oramai modellate sugli equilibri della partitocrazia. Regioni, province, comuni, enti hanno un ruolo nel quale c'è poco da esercitare democrazia, ma che invece è da contestare perché è esso stesso determinato in funzione della soppressione di ogni reale alternativa e del monopartitismo sempre meno imperfetto di questo regime.
Spiegare appieno tutto il potenziale del partito antiregime, impegnarsi nella lotta contro le istituzioni falsificate e marce, contro le lottizzazioni e corruzioni non ci darà affatto il miracolo del successo facile, ma ci darà certamente più forza, anche quella che non c'è bastata e non ci basta per imporre determinati e positivi risultati nella lotta contro lo sterminio per fame. Un obiettivo che deve rimanere e può rimanere centrale a condizione di perseguirlo con la fantasia ed il coraggio necessari a fare un partito che non sia inadeguato a tale compito.