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Signorino Mario - 14 aprile 1984
DIBATTITO CONGRESSUALE: MARIO SIGNORINO

SOMMARIO: Intervenendo nel dibattito precongressuale (XXX Congresso del Pr - Roma - 31 ottobre/4 novembre 1984) Mario Signorino afferma che mentre ci misuriamo con problemi del tutto nuovi di portata internazionale, siamo costretti a resistere in Italia ai colpi di coda di un regime che la partitocrazia ha portato alla sua crisi terminale. Sicché uno dei tanti rischi che corriamo è di essere travolti dal suicidio storico del sistema di partiti nato con la Resistenza. C'è poi, non solo nel gruppo "storico", una crescente incapacità a progettare e attuare iniziative politiche e un'attenzione nevrotica o opportunista ai dati di "gestione". Così i veri sconosciuti, i veri assenti sono la grandissima parte dei 3.500-4.000 iscritti: un numero considerato abitualmente inadeguato alle esigenze della politica radicale, quando invece il problema è che non si riesce a stabilire con questi iscritti un contatto non fugace o casuale ed utilizzarne quindi le energie militanti. Va quindi rovesciato il processo di accentrame

nto dei dirigenti nell'esecutivo; chiunque presume di avere capacità dirigenti si metta in gioco, assumendosi le responsabilità di condurre in proprio, senza necessariamente una carica formale, campagne vecchie o nuove e di ricostituire su esse nuove aggregazioni, al centro e/o in periferia.

(NOTIZIE RADICALI N. 69, 14 aprile 1984)

Troveremo mai più uno slogan così chiaro, così gratificante? "Dall'antagonista radicale al protagonista socialista": il senso della nostra marcia, la piccola minoranza che si fa grande, la scintilla che accende il processo storico di rinnovamento, unità e alternativa della sinistra. C'era tutto in quello slogan, anche la continuità ideale con quella che era stata l'ambizione del Partito d'Azione e, prima ancora, di "Giustizia e Libertà".

Dall'antagonista radicale a... che cosa?"

Oggi viviamo in un tempo radicalmente mutato. Le sinistre, cui si rivolgeva il nostro progetto politico, hanno dimostrato tali carenze e praticato tali scelte di rendere inattendibile qualsiasi ipotesi di loro rinnovamento. Ma soprattutto la nostra politica è andata molto avanti in questi anni, ha toccato spiagge prima ignorate anche da noi, è una politica di frontiera che si misura direttamente con i grandi problemi di questa fase storica.

Il nostro impegno sull'ecologia ha aperto nuovi itinerari. E oggi l'uso delle risorse, la pace, il sottosviluppo e la morte per fame, la libertà, la nonviolenza costituiscono le articolazioni di una politica che si pone nettamente fuori dai tradizionali schieramenti politici. Fuori e contro, quindi in isolamento anche dalla sinistra tradizionale.

Chi si batte come noi su questi terreni ha certamente sperimentato la resistenza delle forze conservatrici, ma ha anche incontrato sul suo cammino, come avversari attivi e tenaci, più attivi delle sue stesse forze conservatrici, le formazioni storiche della sinistra. Solo errori, ritardi come dicono i comunisti? No, ma culture, storie, politiche e interessi che sono elementi costitutivi di una scelta di campo retriva nella lotta di civiltà che si gioca oggi in Italia e nel mondo.

Siamo dunque una forza di frontiera, ma senza santuari, senza di vie di ritirata. Già i nostri antenati sono stati sempre sconfitti o uccisi, come Salvemini, Gobetti, Ernesto Rossi; e nella storia dell'Italia contemporanea le scelte di regime più dure sono passate sempre con la loro sconfitta. Nei giorni scorsi, con Riccardo Lombardi, è svanita una delle ultime testimonianze dello spreco di speranza consumato dalla crisi dell'azionismo. Un passato scomodo e poco rassicurante, dunque. E il presente è ad altro rischio: perché mentre ci misuriamo con problemi del tutto nuovi di portata internazionale, siamo costretti a resistere in Italia ai colpi di coda di un regime che che la partitocrazia ha portato alla sua crisi terminale. Sicché uno dei tanti rischi che corriamo è di essere travolti dal suicidio storico del sistema di partiti nato con la Resistenza.

Ecco le ragioni della nostra incertezza, è questa la nostra crisi. Crisi ricercata e voluta come condizione permanente del nostro modo di far politica, della nostra novità mai contraddetta. Neanche le nuove esperienze politiche maturate in questi anni in Europa riescono a resistere a lungo ad una simile tensione. Guardate i Grünen, emersi da pochi anni e minacciati dalle scelte cieche di dirigenti che paiono sempre più simili ai gruppuscoli rivoluzionari che cancellarono il movimento del '68.

Di questo contesto bisogna tener conto nel discutere le prospettive della politica radicale, nel ricercare le risposte anche alla specifica scadenza congressuale.

Tra gli opposti manierismi

Sarebbe pericoloso, tuttavia, stemperare nel contesto ogni problema specifico, annullare nell'oggettività esterna anche gli elementi soggettivi da cui dipende la nostra politica. Come ignorare, ad esempio, che tra coloro che in varia misura sono impegnati nel nostro partito si avvertono da tempo un'assenza di convinzione, un tono pessimistico, la sensazione di seguire un itinerario non sempre felice né pagante, con troppe aree di indeterminatezza, interrogativi senza risposta, prospettive confuse?

Una tale condizione soggettiva non può non essere spiegata interamente con la difficoltà dei problemi e nemmeno con gli handicap particolari che ci derivano, direi inevitabilmente, dalla scelta felice del "partito non-partito", vale a dire di un modello di partito libero da condizionamenti di strutture, da insediamenti di potere, da interessi di autoconservazione.

C'è dell'altro. E in primo luogo un dato di fatto: il cammino del partito non sembra più lineare. Dopo una lunga fase, diciamo, di incubazione e di lotte paurosamente solitarie, ha registrato una crescita di successi e di consensi di grande rilievo, cadenzata delle vittorie elettorali del '76 e del '79; ma negli ultimi anni la curva in ascesa si è spezzata. Oggi dobbiamo constatare che l'antagonismo radicale ha prodotto un piccolo partito, piccolo come i dati numerici dimostrano. Chiedersi allora se quella attuale è la nostra misura massima, non è domanda oziosa. Chiedersi se talune nostre scelte non hanno funzionato, non è sterile esercizio di autocritica. Anche perché, in fondo, coincide con la domanda (però con taglio volontaristico) se, nella situazione data di regime, abbiamo o no la possibilità di condurre azioni politiche efficaci.

C'è poi un problema di inadeguatezza soggettiva del partito nel suo insieme. Occorre discutere con serietà, sperando di non rimanere schiacciati tra gli opposti manierismi di chi nega che esista alcun problema e chi invece riversa sull'esecutivo del partito tutte le colpe del mondo. Attenzione, dunque: è vero che c'è una crisi evidente dei dirigenti "storici", vale a dire di quel gruppo di compagni che hanno condotto in questi anni la politica radicale. Ma se il problema fosse solo questo, non sarebbe un dramma, basterebbe lasciare il campo a nomi nuovi. E si può anche crederlo, tanto per vivacizzare un congresso. Ma il bello, anzi il brutto, è che nomi "nuovi" non se ne vedono. E soprattutto non si vedono politiche nuove, né iniziative, né proposte.

Le incapacità parallele

Nessuno degli esponenti del partito che si dichiarano in opposizione alla politica fin qui seguita può sottrarsi alle responsabilità che da anni ha nella conduzione della politica radicale, sia pure solo in negativo, sia pure non in una segreteria ma unicamente nel lavoro (e nella carica) parlamentare. Un parlamento non può essere considerato alla stregua di un iscritto senza voce, senza strumenti, senza tribune; tantomeno un emarginato dal cosiddetto gruppo dirigente. E se in cinque anni non riesce ad elaborare alcuna proposta di iniziativa, di progetto politico, se non sente neanche la responsabilità che gli deriva dalla sua carica, allora bisogna tirare una conclusione.

Questa: alle inadeguatezze che si manifestano fra i dirigenti "storici" si deve sommare l'incapacità politica di chi si dichiara in opposizione alla loro politica. E bisogna aggiungere la passività politica di gran parte di quei radicali che hanno posizioni di rilievo formale o sostanziale nel partito, in periferia o nel Consiglio federale, che troppo spesso parlano del partito usando il "voi", che dovrebbero fare da raccordo tra i dirigenti nazionali e gli iscritti, ma che funzionano piuttosto da muro, da diaframma.

C'è insomma, non solo nel gruppo "storico", una crescente incapacità a progettare e attuare iniziative politiche; e un'attenzione nevrotica o opportunista ai dati di "gestione". Tutti poi, capi capetti e capini, assediano quell'entità astratta che si chiama Partito radicale (o Pannella?) esigendo da esso le risposte a tutti i problemi...

Così i veri sconosciuti, i veri assenti sono la grandissima parte dei 3.500-4.000 iscritti: un numero considerato abitualmente inadeguato alle esigenze della politica radicale, quando invece il problema è che non si riesce a stabilire con questi iscritti un contatto non fugace o casuale ed utilizzarne quindi le energie militanti.

Superare questa frattura - che è poi il blocco dell'impegno militante e, quindi, di ricambio del "vertice" - non può essere responsabilità dei soli dirigenti nazionali, ma di quanti rivestono incarichi a diverso titolo e livello. Infatti, è responsabilità del partito. E se il partito viene ridotto al solo esecutivo, vuol dire che è malato e anzi si avvia a morire, perché è svanito il senso della responsabilità collettiva.

C'è un altro dato da tenere in conto: da anni il gruppo dirigente "storico" è l'unico depositario di quelle acquisizioni teoriche, politiche e metodologiche sulle quali si regge la politica radicale. Nulla di questo riesce più a trasmettersi ad altri, se non, in misura inavvertibile, alla massa indifferenziata dei simpatizzanti; mentre gran parte di coloro che ricoprono responsabilità nel partito, e soprattutto che fanno gli oppositori, sembrano immuni da ogni "contagio".

Prende piede così nel partito una cultura ibrida, estranea alla storia radicale e vicina invece alla cultura subalterna di area comunista tipo Arci, o a fase residuali di cultura gruppettaria, oppure a suggestioni protestatarie di tipo qualunquistico. E la preziosa "singolarità" radicale va a farsi friggere.

Per questa ragione e per le altre già esposte, non riesco a mantenere a lungo l'entusiasmo che provo ogni qualvolta si propone un cambio drastico di responsabilità dirigenti. Piacerebbe anche a me qualche "nome nuovo", se fosse veramente tale e avesse dimostrato di saper portare avanti la politica radicale (radicale, dico, non di un altro partito). Ma non c'è alcun "oppositore" con questi requisiti: vedo solo dei compagni che da anni mostrano l'invincibile volontà di rimanere estranei alla cultura politica radicale e allo stesso lavoro nel partito. Darebbero dunque un'altra politica e un altro partito; se a qualcuno piace, non ha che da seguirli.

Chi chiude e chi apre

E' significativo che la perdita della "singolarità" radicale avvenga proprio nel periodo in cui minaccia di affermarsi nel partito la tendenza a porre come discriminante e condizione di aggregazione una rigida omologazione teorica, che si estende fino ai giudizi politici. L'impressione è che questa tendenza produca sì omogeneità, ma in superficie e lasci sotto il vecchio o il vuoto; sicché accanto a rigidità formali, spesso persino irragionevoli, impera una sostanziale sciatteria. E' così che si perde la singolarità radicale e si spezza quel meccanismo di comunicazione di valori che, in un partito non autoritario, è l'unica garanzia di sopravvivenza.

Penso all'uso distorto che talora si fa delle analisi politiche, in particolare di quelle sul regime. Il pessimismo del giudizio (chiusura del regime, assenza di democrazia, ecc.) pare dilatarsi a categoria teorica in sé compiuta, che appiattisce sia le domande che le risposte e toglie senso al momento volontaristico della scelta dell'iniziativa politica. Così la capacità di individuare i dati centrali del regime e le sue stesse evoluzioni possibili si riproduce, nel dibattito interno, all'espressione di angosce esistenziali prive di senso politico.

Procedendo poi su quest'onda emozionale, si rischia di porre l'adesione totale ad un'analisi, fissata nella forma semplificata di una mozione congressuale o in un'eterogenea successione di "parlati", come condizione del nostro patto associativo. Se tale prassi si affermasse, ne verrebbe cancellata la classica regola radicale di far politica e ricercare consensi su singole battaglie politiche e non su piattaforme teoriche.

Nessuno se lo può augurare: l'unica possibilità di crescita della politica e del partito radicale risiede nell'impostazione "cartellista" (cartello, cioè alleanza di persone e forze anche culturalmente disomogenee ma convergenti su obiettivi politici determinati). La scelta cartellista è nella storia dei radicali degli anni '30 e '40, da "Giustizia e Libertà" al Partito d'Azione; segna le vittorie del nostro partito, dal divorzio all'aborto, fino al cartello elettorale del '79; è scritta nelle linee-guida del nostro statuto.

Può darsi che oggi non sia più praticabile. Vorrebbe dire però che abbiamo trovato la risposta finale all'interrogativo di partenza: piccolo partito o grande avventura? Piccolo, così: come oggi appare, come il regime consente, come noi abbiamo voluto. Ma se questo esito non è scontato, dobbiamo tentare di avviare con lucidità una fase nuova di dibattito e di scelte, di aprire un nuovo "passaggio".

Ritorno al partito

E' la questione pregiudiziale della politica radicale per l'85: ricreare il partito come formula efficiente di azione politica. Il partito federale non può più essere l'unico strumento di iniziativa; Roma non può più essere l'unica sede della politica radicale; l'esecutivo non può più essere l'unico soggetto dotato di responsabilità. Siamo andati troppo avanti con la nostra politica e oggi ci ritroviamo in prima linea senza più vie di rifornimento, né di militanti, né di lotte nuove. Bisogna tornare al partito: ma come? Basta una delibera congressuale? Basta riesumare le vecchie associazioni, creare nuove bordature formali?

Il problema non riguarda tanto il congresso (basta una dichiarazione d'intenti) ma il dopo; né mi fido delle opere improvvisate di piccola ingegneria. I requisiti della riuscita sono tutti politici: l'esecutivo deve assicurare regole del gioco cristalline e giuste; va rovesciato il processo di accentramento dei dirigenti nell'esecutivo; chiunque presume di avere capacità dirigenti si metta in gioco, assumendosi le responsabilità di condurre in proprio, senza necessariamente una carica formale, campagne vecchie o nuove e di ricostituire su esse nuove aggregazioni, al centro e/o in periferia.

Inutile aspettare ricette magiche: bisogna avviare un periodo di sperimentazione di iniziative e di tipi di aggregazione. Non in solitudine, né allo sbando: ma in un contesto del partito, cui l'esecutivo dovrebbe garantire attenzione politica e una base minima di servizi (specie d'informazione). Non senza bussola: ma riprendendo e portando agli estremi la regola della diversità, delle autonomie e del federalismo che lo statuto applicava solo ai rapporti tra partito e soggetti esterni e che va richiamato invece all'interno del partito, quale criterio e punto di riferimento costante. E' anche l'unico modo di operare una verifica seria di capacità dirigenti, dentro e fuori il gruppo "storico".

Liste verdi e azzurre

E' un'occasione di iniziativa politica nei comuni sui temi dell'ecologia, del governo del territorio, del buon uso delle risorse anche finanziarie del paese, di attacco alle basi di potere dei partiti. I radicali se ne dovranno ricercare la loro legittimazione all'esterno, nel rapporto con i problemi reali e con le altre forze politiche, tradizionali e nuove: quindi nella loro capacità d'iniziativa politica, non nell'uso di una sigla di partito che in passato ha coperto troppo spesso una rovinosa assenza politica.

I punti di riferimento non mancano: gli Amici della Terra tornano ad occuparsi del problema, dopo aver lanciato l'anno scorso la prima proposta; il partito ha maturato un'analisi convincente e ricca di prospettive e impone la sfida del suo appoggio aperto alle liste che sorgeranno autonomamente.

Nuove campagne

Sono sempre più convinto della necessità e possibilità di intervenire su temi di grande rilievo economico e sociale. Il blocco del governo dell'economia, che contraddistingue questa fase del regime, è il punto di crisi che oggi emerge a livello istituzionale. La spartizione delle risorse del paese, non più pilotabile come un tempo, alimenta le suggestioni autoritarie che attraversano settori importanti del grande capitale (De Benedetti docet). I problemi dell'economia rappresentano dunque in prospettiva l'elemento più critico, la fonte maggiore di contraddizioni e lacerazioni della gestione partitocratica del potere e sono anche uno dei fattori maggiori di disaffezione dell'opinione pubblica dai partiti.

Non possiamo perciò considerarli con la tradizionale ottica radicale, ma neanche in termini tecnicistici; hanno immediato rilievo politico e rappresentano punti ancora poco muniti della cittadella partitocratica: non governo della spesa pubblica, fallimento pauroso dei servizi pubblici (a cominciare dalla sanità), occupazione partitocratica degli enti locali, ridotti a grandi distruttori di risorse finanziarie e ambientali, blocco delle riforme, ecc.

Avviare dunque una nuova politica degli interessi, acanto alla politica dei valori, sulla scia del concretismo salveminiano di Ernesto Rossi. Non quindi una alternativa all'attuale politica radicale, ma l'apporto di nuova concretezza a un'opposizione antipartitocratica, che rischia altrimenti di mordere sempre meno.

Sono ipotesi giuste o sbagliate? So solo una cosa: non è serio confrontarsi su questo a parole, in astratto. Nuovi fronti di lotta non si aprono con una delibera congressuale, né a tavolino. Devono venire dall'impegno autonomo dei radicali che ci credono. E' questa la mia scelta, il mio tentativo per il prossimo anno: ci sono altri che vogliono lavorare in questa direzione?

 
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